PREMESSE TEORICHE - Oltre la diagnosi
Processo diagnostico e diagnosi nosografica
Roberto Militerni (2009) sottolinea che quando ci si trova di fronte a un bambino in difficoltà è necessario porsi una serie di quesiti, dalla cui risposta ha inizio l'organizzazione di un complesso procedimento che ha per risultato la diagnosi e, in un momento immediatamente successivo, la pianificazione dei provvedimenti terapeutici da adottare. "Se da un lato […] è necessario definire le caratteristiche del disturbo al fine di inquadrarlo dal punto di vista nosografico, è nello stesso tempo indispensabile definire il profilo di sviluppo del bambino, attraverso la conoscenza dei suoi comportamenti, delle sue modalità reattive, del suo livello prestazionale generale, delle sue capacità adattive e del contesto ambientale in cui è cresciuto e in cui attualmente vive" [1]. Quando ci s'inoltra nell'ambito dell'età evolutiva il processo diagnostico assume dunque connotazioni del tutto peculiari, poiché è volto non soltanto ad attribuire un significato clinico ai sintomi, ma anche a definire una diagnosi di sviluppo – essendo il bambino un essere in divenire – realizzabile attraverso la valutazione del soggetto e dei suoi comportamenti; per questo motivo si è più propensi ad utilizzare il termine "presa in carico", che definisce "un complesso di interventi finalizzati a conoscere e capire il bambino e il suo disturbo" (ibidem). Tale processo prevede la considerazione di una serie di variabili fondamentali, ancora una volta indicate da Militerni e riassumibili nei seguenti punti:
- disturbo per il quale il bambino è stato condotto ad osservazione;
- bambino portatore del disturbo, con particolare attenzione al funzionamento globale e alle aree motoria, cognitiva, linguistica e affettivo - relazionale;
- ripercussioni del disturbo sul funzionamento globale;
- relazioni del bambino con le figure di riferimento;
- atteggiamenti affettivo - pedagogici dei genitori;
Imprescindibile è poi l'enfasi posta sulle prerogative tipiche della fase evolutiva che il bambino sta attraversando al momento dell'osservazione, comprendenti: la variabilità, ovvero le modificazioni che un segno o un sintomo possono subire nel corso del tempo, gli adattamenti evolutivi, ovvero gli aspetti transitori che non connotano un quadro patologico, la collaborazione del paziente, tanto più scarsa quanto minore è la sua età, e la complessità dei fattori concorrenti che intervengono nel determinare il disturbo e nel condizionarne l'espressione.
L'insieme delle informazioni emerse dal processo diagnostico conoscitivo del paziente, articolato in più fasi (anamnesi, esame neurologico e neuropsicologico, esame psichico, indagini strumentali e di laboratorio), porta alla definizione della diagnosi nosografica,cioè il "quadro" che il Clinico decide di scegliere per riassumere in un'unità coerente la molteplicità dei dati acquisiti: ricapitolando, l'analisi dei sintomi conduce, secondo il procedimento tipico delle scienze mediche, alla classificazione del disturbo in un sistema che ha "finalità eminentemente descrittive" (Militerni, 2009). Poiché in questo senso è necessario un "alfabeto" condiviso, sia a livello nazionale che internazionale, si è soliti ricorrere a sistemi di classificazione standardizzati, che possono rispondere tanto ad un approccio di tipo categoriale (DSM-V, ICD-10) quanto ad un approccio dimensionale, meno adatto però ad una comunicazione trasversale fra professionisti [2].
La diagnosi nosografica, in virtù di quanto esposto, "nel fornire la possibilità di "classificare" un insieme di sintomi, prescinde per definizione dal bambino, inteso come persona portatore del disturbo e, soprattutto, fornisce scarse indicazioni per la formulazione del progetto terapeutico" (ibidem). Questo tipo d'inquadramento di esclusiva competenza medica, che dal momento della sua formulazione accompagnerà il bambino e la sua famiglia come un biglietto da visita verso le varie figure che li accoglieranno durante l'iter di cura, ha il duplice significato di risorsa e di limite: se da un lato esprime informazioni d'imprescindibile importanza, dall'altro rischia di cristallizzare il paziente entro una dimensione non - identitaria, data una volta per tutte dall'etichetta di patologia, e di limitare il campo di pianificazione riabilitativa e d'intervento del neuropsicomotricista (ma più in generale del professionista riabilitatore) al quale il bambino afferisce. Ecco allora che si presenta la necessità di riprendere contatto con la realtà soggettiva della persona, per poter riacquisire un'ottica dinamica e positiva, volta ad ottenere un'immagine realistica del paziente in relazione alle sue limitazioni e alle sue potenzialità di cambiamento; necessità, questa, che trova il proprio appagamento nel ricorso a due elementi di indiscutibile rilevanza:la valutazione neuropsicomotoria e, nel tempo, la supervisione.
La valutazione neuropsicomotoria
La valutazione neuropsicomotoria (VNPM) è una valutazione di tipo funzionale, volta dunque a descrivere il funzionamento del bambino nelle diverse aree di competenza, comprendenti l'area sensomotoria, l'area comportamentale, l'area della motricità, l'area del gioco, l'area comunicativo-linguistica e quella cognitivo-relazionale. Il neuropsicomotricista può avvalersi, nell'elaborazione della propria valutazione, di strumenti codificati che fungono da guida per l'osservazione e da elemento di condivisione con gli altri professionisti: è il caso, tra le altre, della scheda di osservazione psicomotoria Berti-Comunello, che si rifà a un approccio più prettamente qualitativo, e della scheda di osservazione/valutazione neuropsicomotoria Gison, utile invece a descrivere quantitativamente le competenze analizzate. Riprenderemo in seguito questi due strumenti.
Rifacendoci ad esempio ai criteri suggeriti da Bernard Aucouturier (2005), riferiti, visto il diverso contesto geografico e sociale, alla Pratica Psicomotoria, la stesura della relazione finale, costituente il resoconto valutativo funzionale del bambino, ha luogo dopo tre sedute di osservazione interattiva, intendendo con questo termine un'osservazione che, per definizione, non può mai essere neutra, "anche se deve tendere verso una certa neutralità attraverso una ricerca di oggettività su se stessi e l'utilizzo di una valida metodologia. […] Essa mira a raccogliere tutto ciò che lo psicomotricista vive, vede e comprende dell'espressività motoria del bambino." Più in generale, l'osservazione rappresenta un primo avvicinamento al paziente, secondo quegli stessi principi enunciati da Militerni a proposito del processo diagnostico conoscitivo, che ha lo scopo di raccogliere tutti i dati destinati ad afferire nella valutazione funzionale, incipit del percorso di terapia neuropsicomotoria, nonché sua condicio sine qua non. Soltanto attraverso questo processo sarà possibile prendere "nota delle possibilità che il bambino possiede di manifestare una dinamica di cambiamento e del desiderio di essere se stesso" (Aucouturier, 2005).
Ciò che emerge dall'osservazione/valutazione è un ritratto quanto più realistico possibile del bambino e del suo funzionamento, che risulta complementare rispetto alla diagnosi nosografica e permette di superarne il carattere statico. Il neuropsicomotricista può così prendere contatto con un paziente restituito alla propria identità, col quale intraprendere un percorso di trattamento non per sconfiggere l'entità - malattia, inespugnabile nei casi di cronicità congenita, ma per favorire l'integrazione somato-psichica (ibidem) della persona e l'emergenza delle migliori competenze possibili. Ecco allora che appare manifesta l'utilità di una simile integrazione, che potrà eventualmente rappresentare, a seconda dell'età del paziente e della volontà dell'équipe multidisciplinare, un contributo utile alla formulazione di una diagnosi funzionale, concetto strettamente correlato all'ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) [3].
Indipendentemente da questa possibilità, la valutazione neuropsicomotoria inserisce l'etichetta di patologia in un insieme più ampio, ovvero l'insieme persona; tuttavia, durante il percorso di trattamento il terapista si ritroverà inevitabilmente a dover fronteggiare gli aspetti strettamente connessi alla malattia, il che potrà talvolta indurlo a perdere di vista il bambino, vero fruitore del suo intervento. Viene dunque naturale chiedersi cosa si possa fare per sventare questo rischio, immanente alla perfettibilità dell'essere umano, e quindi di ogni professionista della cura.
Rete e supervisione
"[…] questo è un elefante, secondo te a cosa somiglia? E uno diceva una caldaia, un altro un mantice a seconda della parte dell'animale che gli era stata fatta toccare. Un altro toccava la proboscide e diceva il ramo di un albero. Per uno le zanne erano un aratro. Per un altro il ventre era un granaio. Chi aveva toccato le zampe le aveva scambiate per le colonne di un tempio, chi aveva toccato la coda aveva detto la fune di una barca, chi aveva messo la mano sull'orecchio aveva detto un tappeto. […] Ma alla fine decise di aiutarli a capire, e a due a due li invitava a toccare quello che aveva toccato l'altro e a chiedergli a cosa somigliasse. […] Come se fosse stato un gioco li invitò a parlare tra di loro e alla fine tutti si formarono l'idea di come in realtà l'elefante fosse. Dopo che il saggio Maestro ebbe finito di raccontare questa storia, disse: «[…] Se ognuno di voi parlasse e ascoltasse l'altro contemporaneamente, la verità vi apparirebbe come una anche se ha molte forme." [4]
La parabola citata ben si presta a sottolineare come nessuno basti a se stesso: ogni professionista, esattamente come quei ciechi, è incapace di vedere ciò che non conosce, o più in generale ciò che la prospettiva assunta preclude alla sua osservazione. Una chiara consapevolezza dei propri limiti, conseguente a un'autoanalisi costante nel tempo, è condizione irrinunciabile per garantire la continuità del proprio intervento, la condivisione degli obiettivi terapeutici all'interno di un'équipe efficiente e la trasferibilità dei risultati conseguiti, che altrimenti potrebbero ristagnare in modo sterile entro un unico ambiente di cura. L'importanza di questo dato si ricollega direttamente ai rischi descritti in relazione alla diagnosi nosografica scorrettamente assunta; l'isolamento del proprio sapere, elevato a verità assoluta, intrappola infatti il neuropsicomotricista, laddove gli aspetti patologici del paziente lo inducano a perderne di vista l'identità e la complessità, nell'impossibilità di reintegrare la propria visione falsata con quella di altri professionisti altrettanto e diversamente competenti. Come Marco Armellini (2012) afferma, "in nessun caso una sola figura professionale detiene il monopolio del sapere e del saper fare", ed è per questo motivo che la multidisciplinarità è ad oggi universalmente riconosciuta come criterio imprescindibile nell'approccio ad un paziente neuropsichiatrico, specie per quanto riguarda l'età evolutiva. In tale periodo le interconnessioni tra i vari "ambiti della persona" risultano infatti tanto strette che si potrebbe parlare di una vera e propria dimensione transdisciplinare. L'esistenza di una rete di professionisti garantisce, qualora essa funzioni correttamente, l'opportunità di momenti d'incontro e di supervisione, che offrono "la possibilità di confronto con vertici emotivi e risonanze diverse, oltre che con la ricchezza dell'esperienza di gruppo" (Armellini in Martinetti, Stefanini, 2012).
Se tutto questo giova indiscutibilmente al terapista e quindi al paziente e alla sua famiglia, un valore aggiunto è senz'altro rappresentato dall'adozione di un secondo tipo di supervisione, che potremmo definire intra-disciplinare. Essa è condotta da neuropsicomotricista a neuropsicomotricista, con lo scopo di integrare la visione del terapista che ha in carico il bambino – potenzialmente gravata da fallace di vario genere e da punti ciechi – con quella di un osservatore esterno, meno interattivo e quindi teoricamente più obiettivo.
Riassumendo, scongiurare il rischio che una diagnosi nosografica si trasformi in una tela di ragno, pronta a catturare il neuropsicomotricista, è senz'altro più facile nel caso in cui questi lavori in sinergia con altri professionisti, colleghi e non, con la possibilità di avvalersi di una supervisione e di confrontarsi costantemente – o comunque periodicamente – con loro, potendo dunque considerare un dato caso da più angolature e mettere continuamente in discussione il proprio operato, per correggere di volta in volta la mira e adottare strategie più efficaci.
L'importanza della relazione
"Il processo dal quale trae origine il Sé è un processo sociale che implica l'interazione fra individui […]. Il Sé può esistere soltanto in determinate relazioni con altri Sé. Non si può tracciare una linea rigida fra il nostro Sé e quello degli altri, dal momento che il nostro Sé esiste ed entra come tale nella nostra esperienza soltanto nella misura in cui a sua volta il Sé degli altri esiste ed entra come tale nella nostra esperienza." (Mead, 1934)
La relazione rappresenta il luogo elettivo dell'apprendimento e della formazione dell'individuo come essere a se stante, mai del tutto isolabile dai conspecifici, che in una certa misura ne rappresentano i confini: ciascuno inizia dove finiscono gli altri e proprio per questo motivo non può esistere a prescindere dagli altri. Numerosi teorici si sono cimentati nello studio delle prime relazioni significative, a partire da quella diadica che coinvolge madre e figlio, passando poi per le relazioni implicanti altri adulti emotivamente rilevanti per il piccolo, quali ad esempio le educatrici del nido e della scuola materna, per giungere infine ai rapporti intessuti coi pari durante il corso dell'intera esistenza umana. Nel 1975, Sander scriveva che l'organizzazione del Sé esiste fin dall'inizio della vita, ma risiede in principio nel sistema diadico madre- bambino, concetto del resto ben rintracciabile anche nel pensiero di Donald Winnicott, contenente i prodromi delle successive teorie bowlbiane. Questi delineava un iter di sviluppo della personalità articolato in tre fasi, su un continuum avente a un estremo la Dipendenza e come antipode la totale Indipendenza dalla figura materna. La Dipendenza assoluta, connotata da una fusionalità tra il Sé del bambino e quello della madre, evolverebbe secondo Winnicott in una Dipendenza relativa, conseguente alla scoperta, da parte del bambino, del fatto che la madre non sempre si adatta alle sue esigenze. Questo gli rivelerebbe l'esistenza stessa della propria dipendenza, procurandogli la percezione di essere una persona senza la madre, e dunque una cosa sola. Inizierebbe così il cammino Verso l'indipendenza, attraverso il quale il bambino diverrebbe agente del mondo e acquisirebbe nel tempo la capacità di apportare un proprio contributo a livello sociale. John Bowlby, studioso delle relazioni infantili per eccellenza, ha assunto e poi trasceso le precedenti teorizzazioni in materia, ponendosi parzialmente in contrasto col pensiero di Melanie Klein, di Anna Freud e di tutti coloro che prima di lui, perlopiù in ambiente psicoanalitico, avevano posto l'accento esclusivamente sulla dimensione fantasmatica e immaginativa della psiche infantile, trascurando i vissuti concreti del bambino e le loro ripercussioni sulla formazione del Sé e sulla vita futura dell'individuo. Essi avevano inoltre ricondotto la natura del legame madre-bambino a bisogni puramente fisiologici quali il nutrimento, trascurandone gli aspetti più propriamente emotivi. Con la teoria dell'attaccamento, elaborata a partire dagli anni Quaranta dello scorso secolo e affinata nel tempo grazie ai contributi della ricerca, psicologia ed etologia si sono incontrate nel fornire una spiegazione alle dinamiche caratteristiche dei legami precoci, gettando le basi per tutti gli studi e le applicazioni a venire. Il caregiver, capace e pronto a rispondere alle esigenze del bambino, si è configurato come base sicura imprescindibile affinché questi possa esplorare il mondo e quindi apprendere, divenire un essere indipendente, abile e pronto ad affrontare la vita, capace di stringere in seguito delle relazioni di valore. La Strange Situation [5], esperimento ideato da Mary Ainsworth, ricercatrice e collaboratrice di Bowlby, ha dimostrato come lo stile degli accudimenti genitoriali condizioni il comportamento del bambino e il suo desiderio di conoscere e di apprendere, mentre il lavoro di Mary Main, ideatrice dell'Adult Attachment Interview (1985), ha definito come anche in età adulta il tipo di attaccamento esperito continui a condizionare le relazioni umane. Jean Piaget e i suoi seguaci hanno invece rilevato l'importanza dell'imitazione al fine di apprendere nuovi schemi, e dunque nuove competenze, sottolineando come il genitore rappresenti il principale modello di riferimento, alle azioni del quale attingere per arricchire il proprio bagaglio. Del resto anche il gioco, mezzo di consolidamento delle nuove competenze acquisite, nonché tramite esso stesso di relazione, nasce e si sviluppa attraverso gli scambi tra madre e bambino, evolvendo successivamente grazie alle interazioni con gli altri adulti significativi e con i pari. Rilevante in quest'ambito è anche il contributo di Lev Vygotskij a proposito della zona di sviluppo prossimale (Vygotskji, 1934), quell'area potenziale in cui, grazie al supporto dell'adulto, il bambino riesce a esercitare competenze che gli sarebbero inizialmente precluse in autonomia, ma che appaiono raggiungibili in una dimensione relazionale di collaborazione.
In generale, l'elemento che sembra emergere dalle diverse teorie, indipendentemente dalle specificità di ognuna, risiede nell'importanza attribuita alle relazioni umane precoci, sia come luoghi privilegiati che si prestano a garantire delle opportune risorse di sviluppo, sia come modelli che verranno interiorizzati e condizioneranno la vita relazionale di ognuno "dalla culla alla bara" (Bowlby, 1989). È oggi assodato che l'essere umano continua a instaurare legami di attaccamento per tutta la vita, riproponendo le caratteristiche proprie di quella prima relazione privilegiata, ma potendole anche modificare sulla base delle nuove dinamiche relazionali esperite (Berti, Bombi, 2005).
Recuperando il nostro focus, queste considerazioni ci portano inevitabilmente a fare una prima riflessione: in che modo una diagnosi nosografica totalizzante può inficiare il processo di attaccamento e, più in generale, le dinamiche relazionali tra genitori e bambino, condizionandone lo sviluppo psicologico? E qual è il compito del neuropsicomotricista nel favorire l'emergenza di un'immagine più realistica del bambino presso le figure parentali, in modo da incentivare la rottura di eventuali circoli viziosi? Sarà opportuno parlare brevemente di genitorialità e malattia.
L'Uroboro: un trauma che si morde la coda
L'ombra della patologia, specie in quelle situazioni che prevedono un'espressione fenotipica coinvolgente l'aspetto fisico/estetico, tende fin da principio a fagocitare il genitore, protagonista di un vero e proprio paradosso. Si verifica infatti un "lutto legato alla nascita" (Stefanini, Martinetti, 2012), consistente nella perdita del figlio ideale, investito di aspettative durante l'intera gravidanza, salvo nelle situazioni in cui venga fatta diagnosi in fase prenatale, il che anticipa il momento del trauma. Risulta evidente che, alla luce delle sopracitate acquisizioni in materia di relazioni precoci, il percorso dei genitori attraverso le varie fasi dell'elaborazione del lutto (Kübler-Ross, 1969) del figlio ideale – processo che, malauguratamente, non sempre culmina nell'accettazione del figlio reale – tende a minare la loro possibilità di stabilire una relazione armoniosa e sufficientemente buona (Winnicott) col bambino, con inevitabili conseguenze nella strutturazione del Sé da parte del piccolo. Uno dei rischi maggiori è proprio quello di una focalizzazione ossessiva sulla diagnosi nosografica, che preclude la possibilità di conoscere il figlio per quel che è: possono risultarne distorsioni di vario genere, quali una tendenza a infantilizzare eccessivamente il bambino, ritenuto bisognoso di assistenza più che di amore, oppure la totale incapacità di provvedere alle sue cure e alla sua educazione. "I genitori non riescono a tracciare, immaginare un percorso evolutivo per il loro bambino" (Stefanini, Martinetti, 2012)e per questo motivo resta spazio soltanto per le angosce connesse alla malattia, che impediscono al caregiver di operare nella zona di sviluppo prossimale: la continua rifocalizzazione sulla patologia – e quindi sul fattore determinante il trauma – lo rinnova e perpetua un circolo vizioso, alimentando un processo descrivibile con l'immagine dell'Uroboro [6], un serpente che si nutre di se stesso all'infinito.
L'intervento di sostegno alla famiglia, mirato a favorire "l'emergere delle potenziali competenze genitoriali" (Stefanini, Martinetti, 2012), è una misura di stretto appannaggio psicoterapico, ma, poiché come asseriva Winnicott "il bambino da solo semplicemente non esiste", una volta assunto che "se i genitori chiudono la porta non possiamo entrare né lavorare coi loro figli" [7], è chiaro che anche il neuropsicomotricista non possa esimersi dal favorire in una certa misura l'emergenza di un'immagine realistica del bambino presso la famiglia. Occorre, infatti, che questi ne metta in luce le potenzialità di sviluppo e restituisca al genitore, attraverso il suo piccolo ma non irrilevante contributo, la possibilità di trascendere la patologia strettamente intesa per riappropriarsi di una totalità, favorendo dunque l'accettazione e un'ottica più positiva. Ciò avviene mediante quelli che in gergo vengono definiti colloqui sull'uscio, ma anche attraverso incontri pianificati e più strutturati, volti a discutere progressi, problematiche e possibilità, nonché a dispensare, qualora sia possibile e necessario, consigli spendibili nel vivere quotidiano. Abbiamo già detto di come la valutazione neuropsicomotoria e la supervisione rappresentino dei dispositivi imprescindibili affinché il terapista prenda contatto con la persona, impostando così un trattamento consono e potenzialmente efficace. Aggiungiamo adesso che, grazie a quegli stessi dispositivi e all'ottica che gli permettono di assumere, questi sarà capace di essere utile alla famiglia nei termini appena esposti.
Spendiamo infine qualche parola sul gioco, strumento elettivo del neuropsicomotricista, e sull'importanza che esso riveste nelle dinamiche fin qui trattate.
Il gioco
Il concetto dell'importanza della relazione resta valido anche nel contesto terapeutico, dove la qualità del rapporto tra paziente e neuropsicomotricista condiziona enormemente i risultati del lavoro: l'inscindibilità degli ambiti relazionale, cognitivo e comportamentale, ancora più evidente in età evolutiva, fa sì che un trattamento fondato su una relazione non significativa non sia in grado di elicitare le risorse del bambino e dunque di sortire modificazioni rilevanti. In questo senso i primi passi mossi verso il paziente rappresentano già una variabile fondamentale: la relazione è il risultato di una serie di scambi ripetuti nel tempo e fin dai primi incontri vengono gettate le basi del rapporto. Come fare, dunque, per facilitare l'emergenza di un'alleanza terapeutica proficua? E qual è il ruolo assunto dal gioco nel determinare questo risultato?
Riprendendo le parole di Bernard Aucouturier (2005), "aiutare significa soprattutto non reprimere, non manipolare e non soffocare sul nascere le potenzialità, ma accettare il bambino come essere unico, emozionalmente diverso da tutti gli altri bambini". Questa premessa ci fornisce un'importante indicazione rispetto alle modalità dell'approccio che l'operatore deve perseguire nei confronti del proprio paziente, modalità che del resto si pongono a fondamento dell'osservazione neuropsicomotoria, incipit dell'intero percorso. Essa, foriera di un riconoscimento della persona nella sua individualità, trova indubbiamente un focus immancabile nella considerazione del vissuto emozionale più profondo del bambino, il quale si estrinseca in "tutte le possibili forme espressive attraverso le quali il gioco si esprime" (Nicolodi, 2000). Il trattamento neuropsicomotorio, le cui radici affondano nella cultura e nell'approccio psicomotori, è principalmente (ma non unicamente) rappresentato da una terapia attraverso il gioco (ibidem), concetto questo che si articola su più piani tra loro intersecati. È allora chiaro come, anzitutto, il gioco stesso venga declinato in questa prima fase del processo secondo l'orientamento più propriamente psicoanalitico, introdotto da Melanie Klein, di contesto privilegiato per l'osservazione, ma anche e soprattutto come oggetto osservato. Poiché, tuttavia, come in precedenza sottolineato, l'osservazione si connota in quest'ambito per la sua interattività, fin da principio il gioco media la relazione tra terapista e bambino ed esercita così il proprio intrinseco potere trasformativo. Possiamo affermare, tracciando un fil rouge che ci permetta di comprendere a fondo le numerose interrelazioni tra osservazione, gioco, relazione e terapia, che le lenti indossate dal neuropsicomotricista per guardare al bambino hanno lo scopo di garantirgli, attraverso un'attribuzione di senso perfino alle minime variazioni dei diversi elementi del linguaggio corporeo, l'opportunità di scorgere l'individuo oltre la diagnosi, ma al contempo con gli elementi concreti che la patologia diagnosticata introduce nel contesto del suo funzionamento. Sfruttare questa opportunità significa non soltanto poter valutare il bambino, ma anche e soprattutto poterlo capire, nella più profonda accezione della comprensione empatica, sarebbe a dire la capacità di "essere dentro i sentimenti dell'altro come se fossero propri, senza però mai perdere la qualità del 'come se ' […]" (Goleman, 1996). All'abilità del terapeuta di individuare lo stato emotivo del bambino deve necessariamente seguire, tuttavia, la capacità di allearsi con lo stesso, che come Nicolodi asserisce rappresenta "una delle componenti essenziali di ogni gioco fatto bene".
Il gioco si configura dunque, oltre che come oggetto e contesto utile ai fini dell'osservazione/valutazione, anche come medium di un'alleanza empatica che è a sua volta il presupposto indispensabile per poter giocare bene ed ottenere dei risultati significativi e duraturi. Giacché la relazione rappresenta, come esposto in precedenza (pag. 9), il luogo elettivo per l'acquisizione di nuove competenze, possiamo affermare che il gioco, in età evolutiva, è anche il tramite privilegiato dei nuovi apprendimenti, sia sul piano motorio che su quello più prettamente cognitivo, ma soprattutto sul fronte dell'integrazione tra competenze diverse. Il valore relazionale del gioco risiede nel fatto che il suo significato non è esclusivamente nelle mani del bambino, come non lo è in quelle dell'adulto in genere, ma va ricercato nell'incontro dei due, ciascuno dei quali dispone di un pezzo di senso, che però, per integrarsi in un tutto coerente, deve combinarsi col pezzo dell'altro (Nicolodi, 2000). Nonostante l'attività ludica nasca da predeterminazioni puramente biologiche e dunque appartenga al bambino in quanto essere umano, "rimane innegabile l'influenza dell'ambiente sociale e culturale e, in particolare, dei comportamenti e degli atteggiamenti degli adulti che, a seconda dei casi, possono facilitare il giocare infantile, sostenerlo, ampliarlo, come pure disturbarlo […]" (Manuela Trinci in Stefanini, Martinetti, 2012). Ecco allora che, chiamando di nuovo in causa quei disturbi della genitorialità cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente, appare chiaro che le loro ripercussioni si estendono, minando anzitutto lo sviluppo della personalità del bambino, anche agli attributi del gioco, nei quali i Sé dei protagonisti si riflettono inevitabilmente. Le possibili distorsioni del gioco conseguenti alle caratteristiche patologiche della relazione si aggiungono, così, a quelle più propriamente derivanti dal quadro nosografico e dalle difficoltà che esso comporta, andando a connotare un gioco che, in virtù delle alterazioni del suo topos, del suo logos e del suo pathos (forma, contenuto e vissuto emotivo), può essere definito, secondo l'efficace espressione di Nicolodi, "fatto male" poiché inficiato nelle sue componenti strutturali.
Giungiamo così a definire un ultimo significato del gioco, che si configura come il fondamento caratterizzante della terapia neuropsicomotoria: "il gioco non è un semplice strumento per raggiungere i propri obiettivi educativi o di cura, ma diventa un obiettivo in sé: lo psicomotricista non si limita a 'far giocare' i bambini, ma 'gioca con ' i bambini […]; quindi egli entra fattivamente ed effettivamente nel gioco dei bambini, con, ovviamente, tutte le conseguenze che ne caratterizzano nel concreto la specifica professionalità" (Nicolodi, 2000).In sostanza, laddove un disequilibrio degli elementi caratterizzanti l'attività ludica sfocia in una patologia della stessa, è necessario che il terapista intervenga col proprio bagaglio tecnico ed umano per "prestare" al bambino le proprie capacità, allo scopo di supplire alle sue difficoltà. L'obiettivo è quello di far sì che il gioco "possa essere giocato bene malgrado le deficienze […] che ne impediscono il naturale funzionamento" (Nicolodi in Formenti, 2006). È il gioco stesso, arrivato al suo buon fine, che ha quindi, secondo una visione molto ecologica dell'aiuto, la capacità di "rimettere in moto i meccanismi della salute, come nella normalità dello sviluppo infantile, dove il gioco fatto bene è in grado, da solo, di mantenere e assicurare l'equilibrato sviluppo del bambino in tutte le sue funzioni" (ibidem). Pare d'obbligo il rimando alla storica affermazione winnicottiana secondo cui l'obiettivo fondamentale del lavoro terapeutico sarebbe "quello di portare il paziente da una condizione in cui non è in grado di giocare ad una in cui riesce a giocare": è proprio questo che il neuropsicomotricista si propone di fare.
Sono infine necessarie due precisazioni. La prima, mai ridondante e sempre doverosa onde evitare perverse distorsioni metodologiche, risiede nell'etimologia del termine educazione (e-ducere): il ruolo del terapista non è quello di portare coattivamente il paziente a degli obiettivi impostigli (atteggiamento che si risolverebbe, del resto, in un nulla di fatto o, ancor peggio, in un dannoso disinvestimento da parte del bambino), ma quello di "aiutarlo a far uscire da sé ciò che ha dentro (il suo senso) nel modo, tempo e spazio giusto (il nostro senso)", così "da poter attuare una condivisione di senso, che è senz'altro la parte più feconda di tutto il senso del gioco" (ibidem).
La seconda precisazione, utile a chiudere il cerchio e a rendere conto del valore che risiede nel valicare, dopo averla assunta, la diagnosi nosografica, riguarda il fatto che i disturbi e le peculiarità del gioco, osservati dal neuropsicomotricista, non seguono pedissequamente gli standard della nosologia neuropsichiatrica o della psicopatologia infantile, ma vengono definiti in base alle dinamiche della loro struttura interna. "Infatti, non tutte le sindromi neuropsichiatriche o psicopatologiche comportano la stessa patologia del gioco e, parimenti, non tutte le patologie del gioco derivano dalle medesime cause neuropsichiatriche o psicopatologiche" (Nicolodi in Formenti, 2006).
Giocare è capire, condividere e, se possibile, avanzare insieme.
- [1] Militerni, 2009
- [2] Per una trattazione dell'argomento si vedano, tra gli altri, Militerni, 2009 e Martinetti in Martinetti, Stefanini, 2012.
- [3] Per un'agevole trattazione della classificazione ICF si rimanda a Ianes D., 2004.
- [4] Parabola tratta dagli Udāna, versi contenuti nei testi canonici buddhisti.
- [5] Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978.
- [6] Antico simbolo che rappresenta un serpente nell'atto di mordersi la coda, ricreandosi continuamente e formando così un cerchio.
- [7] Citazione riportata in Aucouturier, 2005.
Indice |
INTRODUZIONE |
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CONCLUSIONI - Precisazioni metodologiche; Osservazione/valutazione finale; Verifica degli obiettivi; Sul serio, per gioco |
BIBLIOGRAFIA - SITOGRAFIA |
RINGRAZIAMENTI |
Tesi di Laurea di: Francesco CANGIOLI |