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Il trattamento neuropsicomotorio di G.

Perseguire l'integrazione

Chi è G., dunque, a cavallo tra Marzo e Aprile 2013? Di fronte a questo interrogativo, apparentemente elementare e già risolto dalle informazioni riportate nel capitolo precedente, ci sembra tuttavia opportuno reintegrare in un tutto coerente e sintetico ciò che altrimenti rischierebbe di rimanere frammentario e disincarnato. G. non è una sequenza di parole su carta ed è quindi doveroso far sì che queste ne rispettino almeno l'identità di persona le cui caratteristiche sono, nella realtà del trattamento e della vita, inscindibili. Conosciamo la sua diagnosi: è affetta da una patologia cronica, geneticamente determinata, le cui implicazioni sono, su un piano teorico, innumerevoli. Ma cosa significa per G. la Sindrome di Sturge Weber? Quali sono le sue ricadute concrete, e quali gli aspetti che non la interessano?

G. è una bambina la cui esistenza è funestata, nonostante l'eccellente gestione della terapia farmacologica, da un'epilessia farmacoresistente che si sostanzia in maniera intermittente attraverso episodi critici di natura variabile. Questo significa tener conto che, durante le sedute di neuropsicomotricità, ci si potrà ritrovare a dover gestire l'incombenza di una crisi, ma significa anche che ci si dovrà attendere, in concomitanza con i periodi di maggior frequenza e/o intensità delle manifestazioni, una regressione generale, seppur momentanea, su tutti i piani di competenza.

Non è finita qui. G. è affetta da glaucoma ipsilaterale all'emilato più compromesso: sarà quindi opportuno monitorare la funzionalità visiva dell'occhio colpito al passare del tempo, senza trascurare le problematiche verosimilmente conseguenti all'andamento di questa complicanza.

Last but not least, G. presenta un ritardo di sviluppo compatibile con la SSW; esso si estende, come abbiamo potuto acquisire attraverso l'osservazione/valutazione, a vari ambiti di competenza: dal motorio, all'emotivo-relazionale, al cognitivo-comportamentale, al comunicativo-linguistico, riverberandosi sul gioco, che rende conto della situazione globale. Il profilo oppositivo-provocatorio della bambina s'inserisce in questo quadro inficiando la possibilità di intervenire per sostenere le sue capacità, e quindi d'intraprendere con lei un percorso di trasformazioni consequenziali e interrelate, che le permettano di riavviare l'andamento armonico della ruota dello sviluppo.

Questa breve fotografia ci serve da promemoria per ricordare che l'essere umano non è un patchwork di elementi assemblati in modo grottesco, ma un sistema dinamico nel quale, laddove si presentino delle problematiche di qualunque genere, si deve mirare a ristabilire un equilibrio funzionale al benessere e allo sviluppo della persona. La presente riflessione si ricollega direttamente a quanto detto nella presentazione sulla terapia neuropsicomotoria come terapia dell'azione, volta a ricomporre, attraverso il gioco e il movimento, le porzioni di realtà che il bambino si è costruito, ovvero le parti di sé che non ha ancora integrato e non riesce a integrare in un insieme che lo definisca e ne rappresenti l'identità. Quello neuropsicomotorio è un approccio olistico, sistemico e dinamico il cui campo d'azione riguarda, più che la firma della patologia sul paziente, la firma del paziente sul mondo che lo circonda, rappresentata dal suo modo di semantizzare, di agire e di gestire gli oggetti e le relazioni nel tempo e nello spazio. La conoscenza globale del bambino da parte del terapista è il requisito fondamentale affinché, secondo il principio della condivisione di senso professato da Nicolodi, questi possa restituirgli una realtà coerente, con la quale interagire sperimentando una sensazione di competenza ed efficacia.

In conformità a queste nozioni, dopo aver operato un'integrazione tra la diagnosi nosografica e la valutazione funzionale, ci accingiamo adesso a definire gli obiettivi del trattamento di G., stabiliti per rispondere alle sue reali esigenze di sviluppo.

Obiettivi del trattamento

Al momento T1, che fissiamo come incipit del mio percorso con G., la bambina ha due anni e cinque mesi e ha iniziato il proprio trattamento neuropsicomotorio da poco meno di un anno e mezzo, raggiungendo, come già precisato nell'anamnesi, una serie d'importanti tappe di sviluppo: il gattonamento e altre modalità di prelocomozione, la statica eretta, il cammino, il gesto deittico, le prime parole e un incremento delle capacità esplorative, non a caso successivo alla comparsa dei primi spostamenti autonomi. Malgrado le frequenti assenze della bambina, dovute  perlopiù alle infezioni respiratorie che da sempre la colpiscono e che sono inevitabilmente aumentate dopo l'ingresso all'asilo nido, si è quindi riusciti a realizzare buona parte degli obiettivi inizialmente proposti. Prenderemo brevemente in esame le modalità del lavoro fin qui adottate, per comprendere come ci si è mossi rispetto ai suddetti e per poter definire, tenendo ben presente quanto emerso dalla valutazione neuropsicomotoria, gli aspetti su cui si sta ancora lavorando e quelli che invece si configurano come nuovi obiettivi, da perseguire in continuità col percorso già avviato.

  • Facilitare l'inserimento in un ambiente nuovo, prendendo confidenza con la stanza e con l'operatore, favorendo un graduale distacco dalla figura materna: questo primo obiettivo, imprescindibile per lavorare a tutti gli altri, è stato perseguito grazie a quelli che sono alcuni degli elementi cardine dell'approccio neuropsicomotorio, cioè l'atteggiamento empatico del terapista e il riconoscimento della bambina, nonché la strutturazione delle sedute che prevedono la presenza di routine, tutti aspetti che riprenderemo in questo capitolo.  Nonostante si siano raggiunti dei buoni risultati, specie per quanto riguarda il rapporto di G. con la stanza, occorre investire ancora molto nella relazione col terapista, che come abbiamo visto è immatura e dominata da dinamiche di sfida e di rifiuto. Importanti progressi si sono verificati sul fronte del distacco dalla madre, la cui presenza in stanza non è più necessaria; tuttavia la bambina veniva ancora allattata al seno nel Gennaio 2013 e sovente protesta con forza durante le sedute, gridando "mamma" ripetutamente.
  • Favorire gli spostamenti autonomi e il piacere nell'eseguirli: come si è ribadito in questo stesso paragrafo, l'obiettivo in questione è stato ampiamente raggiunto, vista l'emergenza di varie modalità di locomozione funzionali all'esplorazione dello spazio; ciononostante sul fronte motorio si evidenziano la lentezza dei passaggi posturali e l'incertezza nel cammino, con la conseguente – ed ovvia – assenza di qualsivoglia accenno alla corsa. Questi aspetti meritano l'attenzione del terapista, che parallelamente agli altri obiettivi si propone di aiutare G. nel consolidamento delle competenze motorie acquisite, sempre in un'ottica funzionale.
  • Aiutare G. proponendo giochi mirati alle sue competenze: si tratta dell'obiettivo principe della terapia neuropsicomotoria; la proposta di materiali e situazioni adeguati al livello di sviluppo della bambina, ma che le permettessero, secondo il concetto dello scaffolding, di esperire giochi compresi nella sua area di sviluppo prossimale, le ha permesso di progredire dal gioco esplorativo al gioco sensomotorio che, nonostante le difficoltà riscontrate, è adesso presente, così come, in condizioni favorevoli, il gioco di costruzione. Quello di promuovere lo sviluppo attraverso il gioco è però un obiettivo inesauribile, che permane come costante di qualsiasi terapia neuropsicomotoria, a garanzia di un continuo rinnovamento delle intenzioni proprie di questa disciplina, che risiedono nell'accompagnamento del paziente in un'ottica evolutiva.
  • Promuovere tutte le modalità esplorative: è un obiettivo che si ricollega direttamente ai due precedentemente esposti; l'emergenza degli spostamenti autonomi ha consentito a G. di ampliare il proprio campo d'azione, favorendo l'incontro della bambina con tutti gli elementi propri della stanza di terapia. Parimenti, la proposta di giochi mirati e interessanti ha determinato un arricchimento delle modalità esplorative dell'oggetto, che viene guardato, toccato, messo in bocca, talvolta manipolato e lanciato. È adesso importante, piuttosto, aiutare G. ad attribuire un significato agli spazi in base alla loro funzione e guidarla nel combinare gli oggetti e nell'utilizzarli all'interno di dinamiche di gioco più complesse.
  • Favorire l'uso della voce e tutti gli aspetti comunicativi, privilegiando le modalità richiestive dei propri bisogni: nel Settembre 2011, al momento del suo arrivo presso Davide e Golia Onlus, la produzione verbale di G. prevedeva soltanto suoni vocalici e gorgheggi, il volume della voce era poco modulato, il tono monotono e l'intonazione piana. L'investimento nel canale mimico-gestuale era nullo e la mimica facciale si caratterizzava per un'espressione fissa con qualche raro accenno di sorriso o, più spesso, di pianto. L'attenzione posta dal terapista all'utilizzo del proprio linguaggio, volutamente semplice perché G. potesse capirlo, ma al tempo stesso sempre presente e portatore di significati concreti e tangibili, ha sostenuto il naturale sviluppo di questo canale nella bambina, che a Marzo 2013 è in grado di pronunciare più o meno correttamente un discreto numero di parole familiari, modula il volume della propria voce e ne varia tanto l'intonazione quanto il tono. Il canale mimico-gestuale è invece ancora poco utilizzato e la mimica facciale, benché comunicativa e ben intelligibile, è poco variabile. Un importante obiettivo è dunque quello di sostenere un progressivo maggior investimento nel linguaggio non verbale, paraverbale e verbale, nonché uno sviluppo formale di quest'ultimo attraverso strategie che di seguito verranno esposte. In sostanza è opportuno mantenere il proposito di favorire ogni possibile aspetto comunicativo.
  • Sperimentare giochi sensoriali: è un obiettivo raggiunto, che lascia adesso spazio al proposito di aiutare G. ad aprirsi a forme più evolute di gioco, nella fattispecie quello rappresentativo.
  • Promuovere il piacere del gioco sensomotorio: nonostante il maggior coinvolgimento di G. in questo genere di giochi, la bambina continua a reagire ad azioni come l'essere avvolta, il venir lanciata o l'essere dondolata con un irrigidimento globale, che culmina poi nell'allontanamento dall'attività in corso. Migliore è invece il rapporto con i giochi sensomotori attivi, nei quali è lei stessa a dirigere l'azione. Emerge dunque la necessità di aiutarla a sperimentare il proprio corpo e l'abbandono a sensazioni dirette dall'Altro, che è in questo caso il terapista; è importante, su questo fronte, che la piccola acquisti ulteriore fiducia nei confronti dello stesso.
  • Aiutare la famiglia con indicazioni circa le modalità di accudimento e interazione con la piccola: esattamente come la proposta di giochi mirati alle competenze del paziente, anche l'aiuto alla famiglia, nei termini indicati nel primo capitolo di questo lavoro (pag. 10), si configura come un obiettivo inesauribile, che risponde alla necessità di favorire la trasferibilità nel contesto familiare dei risultati ottenuti in sede di abilitazione. È importante promuovere, con estrema delicatezza, la conoscenza da parte dei genitori delle reali esigenze del figlio, svincolato da una filosofia che lo identifica con la sua patologia e lo definisce unicamente come destinatario di cure. Per questo motivo l'obiettivo in questione è parte integrante del processo di terapia e si mantiene come imprescindibile per G., la quale, a dispetto delle molte conseguenze cliniche della SSW, ha bisogno di vivere in un habitat opportuno per una bambina di due anni e mezzo che sia soggetto e non oggetto della propria storia.

In generale possiamo affermare che, sebbene si riverberino su tutti i piani, le maggiori difficoltà di G attengono principalmente a tre macroaree che definiamo disgiunte da un punto di vista didattico, ma che sono tra loro concatenate e interdipendenti: si tratta dell'area affettivo-relazionale, dell'area comportamentale e di quella più propriamente cognitiva. È evidente che l'immaturità relazionale preclude a G. la possibilità di realizzare interazioni significative col terapista e che, di conseguenza, per l'incapacità di esperire la piacevolezza delle dinamiche di scambio e di condivisione, la bambina resta prigioniera del proprio dispotismo. Viceversa, l'oppositività e la provocatorietà, che ne caratterizzano il profilo comportamentale, altro non fanno che allontanarla ulteriormente dalla possibilità di sperimentare interazioni di diverso genere; questo determina una marcata difficoltà di G. ad aprirsi a nuove opportunità di gioco e quindi, inevitabilmente, l'assenza di un'adeguata progressione nello sviluppo dello stesso, inteso come area specifica. Poiché inoltre, come ci siamo già preoccupati di sottolineare, la relazione e il gioco rappresentano il luogo ideale per i nuovi apprendimenti, che passano per l'imitazione e vengono consolidati e integrati attraverso le attività ludiche, a loro volta le problematiche relazionali e comportamentali inficiano il rinforzo e l'arricchimento delle abilità cognitive, le quali, di nuovo, non possono così concorrere all'instaurarsi d'interazioni più complesse. È questo il circolo vizioso cui si faceva accenno nella presentazione (pag. 15) e che si pone come un ostacolo allo sviluppo delle competenze di G., soggette all'auto-mantenimento di difficoltà che si allacciano, lasciando spazio soltanto a cambiamenti minimi. A fronte di questa considerazione, possiamo riassumere i principali obiettivi attuali della terapia neuropsicomotoria attraverso la seguente formula:

  • Aiutare G. a raggiungere una miglior competenza relazionale e sociale, resa possibile da uno smussamento degli atteggiamenti provocatori e dispotici, al fine di incrementare le capacità attentive e partecipative della bambina. Permetterle, in questo modo, un'apertura a modalità di gioco più evolute, per garantirle un arricchimento tanto sul piano motorio quanto, soprattutto, sul piano cognitivo, perseguendo un circolo virtuoso che ne sostenga il naturale sviluppo. Parallelamente, prestare la massima attenzione alle capacità e alle eventuali difficoltà emergenti, per non correre il rischio di trascurare le nuove esigenze di G.

Il circolo virtuoso del gioco

Le dinamiche del trattamento che s'intende illustrare esigono una breve premessa che le motivi e le renda facilmente intelligibili. Il presupposto di base, piuttosto elementare, è il concetto di circolo, inteso come combinazione stabile di due o più condizioni tali, per cui il mantenimento di ciascuna di esse contribuisce al mantenimento di tutte le altre, attraverso quello che in fisica viene definito meccanismo di retroazione. La valenza qualitativa del circolo, che può configurarsi come vizioso o virtuoso, dipende dalla desiderabilità delle condizioni in gioco. Molte volte, nel corso di questa tesi, abbiamo fatto uso dell'espressione circolo vizioso per indicare l'insieme di condizioni sfavorevoli che possono concatenarsi e mantenersi nel tempo, inficiando lo sviluppo del bambino; in particolare ci siamo soffermati su come l'oppositività e la provocatorietà di G., in associazione col suo ritardo di sviluppo, abbiano rappresentato l'origine di una cascata di effetti negativi che l'ha, in qualche modo, resa prigioniera. Parimenti abbiamo utilizzato l'espressione circolo virtuoso per riferirci all'insieme dei cambiamenti consequenziali che, auspicabilmente, il trattamento neuropsicomotorio potrebbe determinare nella bambina, sostenendone l'evoluzione. In una certa misura, perlopiù a livello inconsapevole, questo tipo di processo ha luogo ogniqualvolta si attua un intervento d'aiuto efficace, proprio in virtù della dinamicità che appartiene al sistema-umano. Tuttavia, poiché stiamo parlando di terapia neuropsicomotoria, ciò che ci preme mostrare è come il gioco, la cui centralità e importanza abbiamo sostenuto più volte, se investito consapevolmente possa essere proprio il tramite di una rottura del circolo vizioso e, più nello specifico, di una sua inversione, determinante l'avviarsi, appunto, del circolo virtuoso della crescita. Gioco, quindi, che fa venir meno una delle condizioni indesiderate all'origine della cascata negativa, rimettendo in moto la ruota dello sviluppo. Gioco che, nel far questo, trova tuttavia la propria ragion d'essere in se stesso, fedele al suo carattere di gratuità, e diviene protagonista, oltre che tramite, dei cambiamenti in atto, giungendo a dipanarsi in tutte le sue declinazioni e arricchendosi fino all'acquisizione di nuove forme ludiche. Per questi motivi parliamo di un circolo virtuoso del gioco, che ha inizio già nella fase osservativa secondo le modalità descritte e che, in quanto circolo, se le condizioni sono favorevoli non trova mai fine, configurandosi come dimensione di crescita e di condivisione sociale durante l'intera vita dell'essere umano.  

Per studiare se e come questo processo si esprime nel trattamento neuropsicomotorio di G., suddivideremo la descrizione del lavoro fatto con la bambina in tre parti, ciascuna corrispondente ad un diverso significato del gioco; ancora una volta si tenga conto del fatto che, al di fuori delle distinzioni meramente esplicative, la realtà non si sostanzia per compartimenti stagni e che, per questo motivo, non si è mai fatto un uso esclusivo di una sola declinazione del gioco.

Gioco e relazione

La relazione terapeutica, che rappresenta la dimensione entro la quale il trattamento ha luogo, si propone necessariamente come relazione affettiva, perché è fondata sull'assunto, che è insieme teorico, metodologico, istituzionale ed etico, del prendersi cura (Berti, Comunello, Savini, 2001). Affinché si possa parlare di relazione è importante, anzitutto, che si siano verificate una serie di interazioni caratterizzate da un certo grado di reciprocità. Di fatto non esiste relazione in assenza di una continuità temporale e di una coerenza interattiva, che si pongono a fondamento degli interscambi futuri, i quali saranno caratterizzati da dinamiche specifiche. La qualità della relazione dipende quindi dalla qualità delle interazioni e la sua coerenza consegue alla prevedibilità dei comportamenti propri e dell'altro. Questo ci porta a definire due proprietà irrinunciabili della pratica terapeutica: un'impostazione educativa libera da contraddizioni confusive, garante della riconoscibilità dei comportamenti del terapista, e il tanto decantato approccio empatico. Quest'ultimo è concepibile, nel caso si abbia a che fare con una bambina di due anni e mezzo, nei termini di una completa disponibilità da parte del terapista rispetto alle sue esigenze emotive. Nonostante l'attribuzione causale delle emozioni avvenga nel bambino dopo i tre anni (Baumbgartner, 2002), il puro riconoscimento delle stesse inizia precocemente, nel primo anno di vita, e per questo motivo è fondamentale che l'adulto sospenda il proprio giudizio per far sentire il piccolo accolto e investito positivamente. Se questo non avviene i comportamenti del bambino sono inevitabilmente condizionati dalla percezione negativa che il terapista ha di lui e che, in un modo o nell'altro, si palesa nella relazione terapeutica. Con G., la sospensione del giudizio è necessaria per riconoscere il suo comportamento come la manifestazione di un disagio e non, come si farebbe d'impulso, alla stregua di una provocazione vissuta sul piano personale; un'interpretazione scorretta dei suoi atteggiamenti darebbe adito alla convinzione di doversi aspettare, da parte sua, rifiuti e provocazioni sempre uguali a se stessi, screziando le lenti osservative del terapista in maniera altamente pregiudicante. Insistiamo su queste nozioni perché l'atto del neuropsicomotricista non deve mai rispondere a sensazioni istintive, ma deve essere preceduto da un'intenzione ragionata, che implica la necessità di un lavoro su di sé, prima che col paziente. Ancora una volta Nicolodi (2000) ci viene in aiuto nello spiegare come, nel terapista, le naturali capacità umane di essere emotivamente permeabili debbano essere rese sufficientemente coscienti, tanto da saper distinguere quali emozioni provengano dal paziente e quali, invece, siano le proprie, magari provocate o suscitate da quelle del paziente stesso. Adoperare l'empatia come cosciente strumento terapeutico permette dunque di esimersi dal giudizio e di comprendere le reali esigenze del bambino: è questo il presupposto fondamentale perché si possano verificare delle interazioni positive, imperniate sul riconoscimento del paziente e che, ripetendosi nel tempo, vengono interiorizzate e generalizzate nella forma di una relazione sufficientemente buona. Il rapporto tra interazioni e relazione è stato ampiamente studiato, tra gli altri, da Daniel Stern.

Ogni relazione si colloca nello spazio e nel tempo: G. fa sedute di terapia neuropsicomotoria individuale della durata di un'ora, con cadenza settimanale. Ciascuna di esse prevede: l'ingresso in stanza, una prima fase di preparazione durante la quale le vengono tolte le scarpe e messi i calzini antiscivolo, una routine iniziale consistente nella scrittura dei nomi a tavolino, due giochi, una ruotine finale durante la quale si torna a tavolino per preparare assieme l'appuntamento successivo e, infine, la preparazione in vista dell'uscita dalla stanza, per cui vengono tolti gli antiscivolo e rimesse le scarpe.

Le routine, che si compongono di elementi successivi tra loro coordinati, portano alla costruzione di copioni o script; la loro importanza attiene ad almeno due aspetti:

  • Aumentano la prevedibilità dei fenomeni, creando un contesto di attese che dà sicurezza.
  • Rappresentano l'ambito entro il quale avvengono esperienze cognitive, sociali ed emotive.

L'organizzazione del tempo della seduta aiuta G. a orientarsi sulla base di un prima e di un dopo, consentendole di anticipare in parte quel che succederà e dunque di riconoscere l'esperienza, che diviene così confortante e potenzialmente vivibile con maggior serenità e partecipazione. I vari momenti descritti si associano a spazi precisi all'interno della stanza: così come il tavolino è il luogo della routine iniziale e finale, la panchina è quello  della preparazione, il materasso rappresenta l'area della stanza adibita al gioco sensomotorio, mentre lo spazio vuoto tra questi elementi, al centro della stanza, è lo spazio ideale per la costruzione del gioco, dove vengono collocati i diversi materiali in base alle attività ludiche della seduta.

L'organizzazione spaziotemporale della terapia, oltre al suo carattere confortante e contenitivo che predispone i partecipanti all'interazione, ha un'altra importante valenza: è veicolo di un concetto fondamentale per G., quello secondo cui esistono regole predefinite alle quali attenersi, che esulano dal suo volere. Possiamo dire, quindi, che già la predisposizione dell'ambiente si configura come una traduzione tangibile dell'impostazione educativa che connota la terapia riabilitativa neuropsicomotoria.

Una volta definito il contenitore spaziotemporale della seduta e della relazione, vogliamo adesso soffermarci sulla natura delle interazioni tra G. e il terapista. Secondo un concetto teorizzato da Bateson nel 1976, il gioco non è il nome di un'azione, ma di una cornice per l'azione; esso è, in sostanza, metacomunicazione, non un'attività precisa.  S'inizia a giocare nel momento in cui, comunicando attraverso l'intonazione della voce, la mimica, la postura e il tono, si definisce quella cornice: ciò che avviene al suo interno è gioco. Di qui l'importanza, in terapia neuropsicomotoria, di dedicare un'attenzione scrupolosa agli aspetti comunicativi, rispettando la concordanza tra verbale, paraverbale e non verbale per evitare ogni rischio di ambiguità. Quest'aspetto riveste in G. un'importanza duplice, visto il suo ritardo nello sviluppo del linguaggio verbale e lo scarso investimento nel canale mimico-gestuale. Definire e comunicare il gioco, accompagnando poi l'azione ludica con la parola e col gesto, che ne divengono parte integrante, comporta un'attribuzione di significato concreta al linguaggio, ovvero una possibilità per lo sviluppo dello stesso nella bambina. Del resto l'interazione è comunicazione e la relazione è dialogo.

La cornice di gioco che inquadra le attività della seduta fa sì che gli scambi tra bambina e neuropsicomotricista assumano il carattere d'interazioni ludiche, con tutte le conseguenze annesse: poiché il gioco si caratterizza per la sua motivazione intrinseca, o gratuità che dir si voglia, una sua fondamentale proprietà è la piacevolezza. Vivere e ricordare interazioni piacevoli consente, nel lungo termine, di aprirsi maggiormente alla relazione e a tutto ciò che avviene nel suo contesto. Affinché, tuttavia, G. possa partecipare attivamente al gioco e quindi avere la possibilità di goderne, è necessario utilizzare delle strategie che ne richiamino l'interesse. Esemplificativa è la questione della "mucca di plastica": a partire dall'inizio del Maggio u.s. G. mostra una particolare predilezione per questo giocattolo, che nomina spesso e che talvolta ricerca all'interno della stanza, dopo che le prime volte le è stato presentato dal terapista; allorché se lo trova davanti, tuttavia, lo afferra e lo trasporta in giro a vuoto, appagata per averlo ottenuto ma incapace di inserirlo in una cornice di gioco strutturata. È a questo punto che il terapista, portatore del proprio senso, decide di impiegare la mucca, tenendo conto della proposta implicita di G., attraverso il suo inserimento in una situazione ludica più complessa: per prima cosa s'introducono altri materiali, come il pongo, utilizzato per rappresentare il cibo della mucca, e le costruzioni di legno, poste a delimitare lo spazio della stalla, dove quella deve essere riposta quando si decide di farla dormire. Dopodiché si spiega a parole e attraverso l'esempio concreto quali sono le regole da seguire e le modalità del gioco, per aiutare la bambina a comprendere ciò che sta per avvenire; si chiede poi a G. di far mangiare la mucca e, dopo qualche minuto, di metterla a letto. Il fatto che si stia ricorrendo a un oggetto per lei interessante la incentiva a focalizzare e a mantenere l'attenzione sull'attività, e quindi ad essere più partecipativa. Per diverse settimane questo gioco resta teatro delle manifestazioni oppositivo-provocatorie di G., che mette in bocca le palline di pongo indirizzando uno sguardo di sfida al terapista, oppure si alza in piedi e si allontana portando con sé il giocattolo. Pian piano, però, la bambina sembra adattarsi meglio a questa proposta, che di volta in volta subisce delle piccole variazioni, come l'inserimento di altri animali o una diversa strutturazione della scena, per cui si utilizzano, ad esempio, i cubi colorati al posto delle costruzioni di legno. Il ripetersi, nel tempo, di esperienze che finiscono per essere piacevoli e che passano per la condivisione dello spazio-gioco col terapista porta G. a investire maggiormente nelle nuove interazioni che si verificano in stanza, il che le permette di rispondere positivamente, seppur con una certa variabilità, alle nuove caratteristiche dell'attività. Esse vanno progressivamente a connotare, attraverso un ampliamento della proposta iniziale, una nuova esperienza ludica: vedremo successivamente quali sono le ripercussioni di questa prima fase del processo.

Altro esempio importante riguarda il gioco sensomotorio: esso è caratterizzato dall'uso del corpo in senso reale ed è finalizzato a sottoporre lo stesso a una serie d'importanti stimolazioni sensoriali, che facilitano l'acquisizione e l'integrazione del sé corporeo (Nicolodi, 2000). In termini relazionali la dimensione sensomotoria si carica di una rilevanza manifesta nel momento in cui si considera che lo scambio di un oggetto, ad esempio una palla, che rappresenta un gioco sensomotorio attivo, implica la capacità quantomeno elementare di assumere dei ruoli (lanciatore e ricevente), abilità fondamentale per la partecipazione interattiva. Quando G. manifesta il proprio interesse per la palla si decide allora di attuare un procedimento analogo a quello già visto per la mucca: la si inserisce nel contesto di un'attività strutturata, stavolta un gioco di scambio, rendendola tramite di interazione tra lei e il terapista. Anche in questo caso la bambina non riesce fin da subito ad adattarsi alla proposta, ma col tempo gli scambi tra i due si estendono fino a integrare, talvolta, anche il sottoscritto: la maturità diadica permette l'apertura a un terzo elemento. L'introduzione di altri oggetti, come il tappeto morbido a terra, che designa l'area entro cui giocare con la palla, unita alla sempre maggior fiducia di G. nel terapista, permette alla stessa di abbandonarsi maggiormente al piacere sensomotorio: la palla può essere eliminata dall'attività, che quindi finisce per consistere anche soltanto nello sperimentare il disequilibrio su una superficie instabile, o addirittura nel gioco sensomotorio passivo del venir trasportata e avvolta. La maturazione delle dinamiche relazionali si traduce, in sostanza, nella capacità di affidarsi all'Altro e di godere di un'esperienza non assoggettata al proprio controllo. Si viene così a creare una dimensione che, oltre ad essere ideale per la maturazione dello schema corporeo e per l'esercizio, limitatamente ai giochi sensomotori attivi, delle competenze motorie, si configura come permeata dalla piacevolezza della comunicazione corporea tra G. e il terapista, vettore di un rinnovato investimento affettivo nella loro relazione. Si realizza anche un rinforzo di quella che Stern (1985) definisce griglia comune di significati e mezzi di comunicazione adeguati, ovvero gesti, posture ed espressioni facciali che caratterizzano le interazioni – e quindi la relazione – tra paziente e operatore; la condivisione che ne deriva permette il cambiamento e l'adeguamento reciproco propri di ogni rapporto dinamico.

Così il gioco si fa relazione e la relazione si fa veicolo di trasformazione.

Tra le più importanti acquisizioni mediate dalla dimensione relazionale rientrano gli apprendimenti che attengono alla pragmatica comportamentale e quindi alle competenze sociali.

Gioco e socialità

Gli studi antropologici dimostrano come il gioco sia una prima forma di esercizio, da parte del bambino, alla vita adulta, ai ruoli che essa richiede e ai modelli comportamentali che presenta. Attraverso l'attività ludica vengono messe in atto, infatti, regole di comportamento che traspaiono dalla prossemica e dal tono della voce e che raccontano del proprio adattamento all'ambiente sociale. Callari Galli (1982) sottolinea che nel gioco si manifesta con chiarezza l'abitudine del bambino ad accettare che esistano norme arbitrarie, stabilite dal di fuori dell'individuo, sulle quali è difficile intervenire e che vanno rispettate se si vogliono raggiungere dei risultati. Abbiamo già visto che l'impostazione spaziotemporale del setting e lo stile educativo del terapista concorrono alla formazione di una consapevolezza delle regole e della necessità di rispettarle; aggiungiamo adesso che, nel caso in cui il neuropsicomotricista abbia in carico un paziente le cui caratteristiche comportamentali siano distanti da quelle socialmente condivise, le regole che definiscono il gioco in stanza rappresentano il mezzo principe per un avvicinamento a comportamenti più adattivi.  Nel suo fungere da tramite relazionale, il gioco assolve il compito di mediare gli apprendimenti comportamentali perché, in sostanza, la formazione della socialità abbisogna di una serie di prerequisiti, quali l'acculturamento, cioè l'adattamento dell'individuo alla presenza e alle esigenze di altri individui che interagiscono con lui, e la capacità di entrare anche emotivamente in consonanza con gli altri (Fenu, 2008). Si tratta di processi che stanno alla base di una buona relazione, la quale, del resto, può sussistere soltanto in presenza di comportamenti adeguati da parte di chi vi è coinvolto. A sua volta la fiducia in una figura adulta e il fatto di percepirla come autorevole, investendo nella relazione che lo lega a essa, permette al bambino di prenderla come modello e, quindi, di modificare le proprie caratteristiche comportamentali per instaurare delle interazioni più mature e vantaggiose. Potremmo dire, in breve, che la relazione è foriera di modificazioni comportamentali e che queste, viceversa, se adeguate vanno a rafforzare la relazione, perché rendono possibile la reciprocità e la prosocialità. Non esistono giochi dedicati esclusivamente agli apprendimenti di pragmatica comportamentale (un simile riduzionismo, se anche fosse possibile, rinnegherebbe la gratuità del gioco e lo snaturerebbe), ma qualsiasi attività ludica che preveda la partecipazione di almeno due persone ha il potere di esercitare questo effetto, che deve essere diretto coscientemente dal terapista. Già il gioco sensomotorio rappresenta, a certe condizioni, un valido esercizio delle abilità sociali: la turnazione, che caratterizza ad esempio il gioco della palla inteso nei termini esposti in precedenza, ma che può essere introdotta anche in altre attività ludiche di questo tipo, impone al bambino l'attesa di tempi scanditi dall'azione dell'altro, che devono essere rispettati per poter agire di nuovo attivamente. È la stessa dinamica che governa la conversazione e che starà alla base di tutte le interazioni sociali adulte: di qui l'importanza di sapervi aderire. Giacché inoltre il gioco sensomotorio può prevedere un contatto fisico diretto tra paziente e terapista, il bambino deve attenersi alla regola secondo cui esso è non-aggressione e sottostà al rispetto della corporeità altrui.

L'apertura di G. al gioco sensomotorio permette l'esercizio piacevole della turnazione e rappresenta, tra le altre cose, una possibilità per l'apprendimento di regole comportamentali afferenti alla prossemica e più in generale alla gestione dello spazio interpersonale. Crea inoltre un'occasione per il potenziamento dell'attenzione focalizzata e sostenuta, necessarie per seguire l'azione dell'altro e prendere consapevolezza del ritmo degli avvicendamenti nell'attività ludica. Nel gioco della palla è soltanto concentrandosi sull'azione dell'altro che diviene possibile l'assunzione del ruolo di ricevente, che prelude a quello di lanciatore. In altri giochi, come dondolarsi su un cuscino a forma di luna o cadere sul materasso passando per lo scivolo di gomma, la turnazione è appositamente introdotta per rafforzare le competenze in questione. Inoltre, il terapista chiede spesso a G. di aiutarlo durante i propri turni, ad esempio spingendolo mentre scivola sul materasso o dondolando la luna su cui si trova, in modo da motivarla a mantenere la concentrazione, fornendole per di più un esempio di come la cooperazione possa essere gradevole. Inizialmente la bambina appare insofferente e la sua incapacità di attendere culmina in veementi proteste, che si concretizzano con vocalizzi lamentosi e pianti, oppure, più spesso, con una perdita di interesse rispetto all'attività, che la porta ad allontanarsi dal terapista e a cercare qualcos'altro su cui focalizzare la propria attenzione. Col passare dei mesi si affaccia in G., tuttavia, una miglior capacità di attenersi ai ritmi dell'attività dettati dal terapista e il rafforzarsi della loro relazione fa sì che la bambina sia più coinvolta nei momenti del gioco che la vedono rivestire il ruolo di spettatrice. Talvolta tende ancora a interferire con le azioni dell'adulto, ma le manifestazioni comportamentali parossistiche sono diminuite al punto che non portano più all'interruzione del gioco per l'impossibilità di mantenere la bambina entro la sua cornice.

Il tipo di gioco che per antonomasia si configura come una palestra nella quale arricchire ed esercitare le competenze sociali è, tuttavia, quello simbolico (ibidem). La dimensione del far finta è la sua principale caratteristica e la componente emotiva dell'attività ludica è delegata, nel suo contesto, alle particolari abilità e competenze proiettive e identificatorie del bambino nei personaggi e nei ruoli che interpreta, nonché nei legami comunicativi e relazionali che essi implicano (Nicolodi  in Formenti, 2006). La tappa del gioco simbolico è raggiungibile soltanto a seguito del manifestarsi della funzione semiotica, che nello sviluppo normale compare intorno ai 18-24 mesi: essa consiste nel poter rappresentare qualcosa per mezzo di un significante, per cui stacca il pensiero dall'azione e crea la rappresentazione (Fenu, 2008). L'importanza del gioco simbolico risiede nel fatto che esso si connota per la presenza di tre temi fondamentali:

  • il decentramento, che permette al bambino di immaginare le situazioni da una prospettiva diversa, esplorando l'ampia gamma dei significati sociali e relazionali connessi ai ruoli rappresentati, con un conseguente consolidamento delle nozioni di Sé e di Altro.
  • la decontestualizzazione, consistente nella dissociazione delle azioni quotidiane dal loro contesto abituale, che permette di acquisire consapevolezza di ciò che nella vita ordinaria è compiuto in maniera automatica ed irriflessa.
  • l'integrazione, sostenuta dal linguaggio e consistente nel collegamento e nella coordinazione di schemi d'azione differenti in sequenze tematiche, temporali e causali coerenti.

Il gioco simbolico contribuisce quindi allo sviluppo di molteplici aspetti, anche di natura sociale, che verranno successivamente potenziati. L'approdo a questo tipo di attività ludica è preceduto da giochi d'imitazione più semplici, nei quali la finzione riguarda l'azione compiuta, ma l'oggetto continua a rappresentare se stesso: la tazza giocattolo, ad esempio, corrisponde alla tazza reale, mentre l'atto di bere non si concretizza nel bere veramente, ma nel far finta di bere.  McCune-Nicolich (1981) indica cinque diversi livelli di sviluppo del gioco simbolico, comprendenti anche queste prime attività ludiche di rappresentazione.

In ogni caso, la necessità di favorire in G. l'emergenza di questo tipo di gioco si ricollega direttamente, oltre che alla ricerca di uno sviluppo intrinseco dell'attività ludica, all'obiettivo di scoraggiare i comportamenti oppositivo-provocatori, per favorire l'acquisizione e il consolidamento di migliori competenze sociali. Infatti, dallo studio di Martha Putallaz del 1983 e da numerosi altri, è emerso che il grado d'integrazione e di popolarità dei bambini correla direttamente con la loro capacità di giocare senza imporsi. È apparso evidente anche che, tendenzialmente, i bambini più propensi al gioco di fantasia sono i meno aggressivi e i più aperti alla collaborazione con i compagni.  Poiché la terapia neuropsicomotoria si fonda su un'ottica evolutiva e non può esimersi da uno sguardo al futuro, è chiaro allora che un lavoro su fronte del gioco imitativo e simbolico acquista in G. una duplice rilevanza.

Fatta luce su questo punto, ha ancora più senso il processo di ampliamento e arricchimento del gioco che si è spiegato a proposito della mucca giocattolo, inserita in una cornice di rappresentazione dell'atto di mangiare e di dormire. Nel tempo si mantiene il tema del pasto e lo si affronta in giochi strutturati diversamente: il terapista apparecchia un tavolino con stoviglie, posate e alimenti giocattolo, accompagnando la preparazione con la spiegazione verbale di ciò che sta facendo. Inizia così un gioco le cui regole sono: il rispetto degli spazi e degli oggetti altrui (piatto, bicchiere etc.), l'attesa del momento in cui il pasto è pronto, il rispetto dei turni nel "versarsi una bevanda" e quello delle prerogative dell'azione che si sta rappresentando, per cui a ogni oggetto, una volta stabilita la cornice ludica, deve essere attribuito il giusto valore e riconosciuto l'utilizzo che gli è proprio in quel dato contesto. Anche il tema del sonno rimane: tra i commensali s'introduce la bambola, che calamita l'interesse di G. e che viene messa a letto dopo il pasto. Per simboleggiare l'arrivo della notte si spengono le luci e la bambina si distende, assieme a me e/o al terapista, sul materasso dove "dorme" per pochi secondi. La durata delle diverse fasi del gioco è stabilita dal neuropsicomotricista, che attraverso un atteggiamento morbido ma deciso riesce, nonostante i rifiuti e le provocazioni (adesso sporadici) di G., a ottenere l'attenzione e il rispetto delle regole da parte della bambina.

Per proseguire nella descrizione del nostro cerchio possiamo così affermare che gli apprendimenti comportamentali, resi possibili dalla maturata relazione tra bambino e neuropsicomotricista, che permette l'apertura a nuove possibilità di gioco, vanno a loro volta ad arricchire il rapporto terapeutico grazie alla maggior reciprocità e prosocialità che determinano, comportando un ulteriore ampliamento del ventaglio di attività ludiche possibili. Poiché, inoltre, come Lev Vygotskij insegna, il gioco apre una zona di sviluppo prossimale collocandosi nell'ambito del possibile, esso rappresenta il luogo privilegiato per gli apprendimenti del bambino, anche in senso più prettamente cognitivo. Vediamo adesso come quest'ultima declinazione del gioco prende forma nella terapia di G.

Gioco e abilità cognitive

La teoria costruttivista piagettiana pone alla base dell'apprendimento del bambino due attività, l'imitazione e il gioco; la prima ha essenzialmente la funzione di arricchire il patrimonio di schemi tramite, potremmo dire, esempi preconfezionati, ed è necessaria, tra le altre cose, per l'acquisizione del linguaggio. Il gioco assicura invece il consolidamento degli schemi e gratifica chi vi si dedica mediante l'esercizio di attività che è in grado di padroneggiare. Nell'imitazione prevale dunque, secondo Piaget, il processo di accomodamento, consistente nella modifica della struttura cognitiva o dello schema comportamentale allo scopo di accogliere nuovi oggetti o eventi che fino a quel momento erano ignoti. Nell'attività ludica è invece preponderante l'assimilazione, definibile come l'incorporazione di un evento o di un oggetto in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito. L'idea secondo cui il gioco rappresenta una palestra di sviluppo delle abilità del bambino è condivisa da numerosi altri autori, tra cui Jerome Bruner. Quest'ultimo sostiene che la funzione prioritaria del gioco sia quella di conseguire, attraverso la manipolazione di strumenti, una migliore destrezza e sempre nuove combinazioni di comportamenti, grazie alla situazione controllata che lo caratterizza e che riduce al minimo i rischi di una violazione delle regole sociali. Il sopracitato Lev Vygotskij, che attribuisce al gioco lo stesso grande valore trasformativo, ritiene che esso configuri un'area entro la quale, secondo un principio analogo a quello dello scaffolding bruneriano (1978), il sostegno dell'adulto permette al bambino di avviarsi a un esercizio sempre più autonomo di competenze inizialmente al di sopra delle sue abilità.

Partendo dall'assunto che il gioco è azione compiuta, ma anche subita, come nel caso di alcuni giochi sensomotori, entriamo nel merito della terapia neuropsicomotoria e andiamo a fondo nella specificità del suo substrato teorico, per chiarire brevemente quale sia il senso di una sua definizione in termini, appunto, di terapia dell'azione, e come l'attività ludica sia capace, secondo la sua prospettiva, di arricchire le abilità cognitive. Se prestiamo fede ai risultati delle recenti ricerche nei campi delle neuroscienze, della psicobiologia, della filosofia e della psicologia evolutiva, l'azione è il motore per lo sviluppo delle funzioni e delle rappresentazioni mentali. D'altra parte nessuna conoscenza, come già postulato da Piaget, è basata soltanto sulle percezioni, perché esse sono sempre dirette e accompagnate da schemi d'azione. Questi ultimi sono possibili perché costruiscono e sono costruiti da memorie motorie: "la memoria non è soltanto un fatto mentale, ma anche corporeo […]: l'azione racchiude in sé un sapere del corpo che può essere soltanto acquisito attraverso l'imitazione e la pratica" (Oliverio, 1999). L'azione è previsione, anticipazione, cioè rappresentazione di uno stato futuro, nonché base della rappresentazione stessa, che è il prodotto della sua riuscita. Come ricorda Stern, gli schemi motori sono fatti mentali, non una faccenda di muscoli; in sintesi, se la rappresentazione è il tessuto del pensiero, allora l'azione crea pensiero ed è pensiero essa stessa (Berti, Comunello, Savini 2001). Spesso le azioni avvengono in un contesto interpersonale e sociale: sono la loro condivisione e la loro significazione a generare la conoscenza.

Il gioco è azione e l'azione è cognizione. Quel che è certo è che, a dispetto delle diverse formulazioni teoriche, l'attività ludica produce apprendimento quando non è privata della sua componente relazionale ed esperienziale: se essa non è presente il gioco può condurre all'alienazione, all'emarginazione, al disagio sociale e infine alla patologia (Giunta, 2005). Per questo motivo, l'apertura del bambino alla relazione è la condizione necessaria perché egli possa andare incontro all'emergenza di nuove competenze e al consolidamento di quelle già acquisite.

Tutti i giochi, a prescindere dalla loro complessità, richiedono al soggetto di comprendere, di conoscere e riconoscere unità di significato, attribuendo loro un senso; di effettuare operazioni con le stesse, giungendo a classificare oggetti e dunque a strutturare concetti, a metterli in relazione tra loro, a decodificare e realizzare sistemi e implicazioni. Tenendo conto del fatto che l'azione del neuropsicomotricista ha lo scopo di integrare, prolungare, variare e, in generale, complessificare l'azione del bambino (Berti, Comunello, Savini, 2001), con G. si presta attenzione a tutta una serie di aspetti che attengono al suo sviluppo sul fronte, potremmo dire, più prettamente cognitivo, nel contesto delle varie attività della seduta, sempre cercando di motivarla alla partecipazione e di sostenerla nel conseguimento di progressi per lei sostenibili.

Fin dal rituale iniziale ci si concentra sul riconoscimento dei colori: il terapista richiede un pennarello alla bambina, che dovrà prenderlo dalla cesta posizionata di fronte a lei o direttamente dal piano del tavolo, scegliendolo tra i diversi possibili. Quando G. nomina un colore si procede, per aiutarla a superare le strategie di semplificazione cui ricorre parlando, a ripeterlo con la sua pronuncia corretta e ad inserirlo in una frase dirematica o trirematica comprensibile, allo scopo di favorire un'evoluzione dall'olofrase ad un linguaggio morfosintatticamente più complesso. Lo stesso meccanismo viene attivato rispetto a tutta la produzione linguistica della bambina. Il lavoro sulla discriminazione degli oggetti in base al colore rimane una costante nel corso della seduta. Talvolta, in apertura della prima attività che segue il rituale iniziale, G. e il terapista demoliscono una pila di cubi morbidi addossati al muro della stanza; questa distruzione giocata aiuta il bambino, come spiegato da Aucouturier, a esperire la propria efficacia motoria, ma soprattutto a prendere coscienza del fatto che i cubi restano e possono essere riutilizzati per una nuova costruzione. Il messaggio trasmesso è di primaria importanza: agire sugli oggetti permette di modificare una realtà fatta di elementi associabili e dissociabili, in cui esiste una reversibilità tra i processi di distruzione e ricostruzione. Subito dopo, infatti, si assemblano delle torri monocromatiche con i cubi che componevano la pila: il terapista può chiedere a G., ad esempio, di portargliene uno di colore rosso, che la bambina deve rintracciare in mezzo a tutti gli altri. Nel caso in cui G. non riesca a reperire autonomamente il cubo o sia distratta, il terapista ricorre, secondo quella tecnica che in abilitazione cognitiva prende il nome di prompting, a una guida verbale per orientarla nella ricerca. Quando questa misura non è sufficiente, si passa allora ad accompagnare la parola con delle indicazioni gestuali, impiegando segnali semplici e chiari. Infine, nel caso in cui la bambina continui a non essere partecipativa o risulti molto in difficoltà, il terapista può optare per la guida fisica ("facciamolo insieme"), sempre accompagnata da quella verbale e mai coercitiva. Una volta predisposto e assemblato il materiale, il terapista invita G. a sedersi con lui, dopodiché nomina le torri da abbattere facendo riferimento al loro colore ("buttiamo giù la torre di colore X"); di nuovo, se la bambina sembra dirigersi verso una torre diversa o, al contrario, rimane seduta, è possibile guidarla verbalmente e gestualmente verso l'obiettivo, darle l'esempio oppure accompagnarla fisicamente. Possiamo dire che, in sostanza, attraverso queste attività G. fa esperienza dei colori, poiché si ritrova a dover agire in base alla loro identificazione, relazionandosi con oggetti tangibili che dal colore stesso sono connotati. In questo modo consolida e arricchisce la loro conoscenza e impara a nominarli e a utilizzarli come elementi di categorizzazione.

Un discorso analogo vale per i rapporti di grandezza e per quelli spaziali: il terapista può chiedere a G. di prendere, per esempio, un cubo rosso piccolo, facendo in modo che la bambina ricerchi l'oggetto sia in base al colore che in base alle dimensioni; nel fornirle indicazioni verbali rispetto a dove trovarlo può inoltre dirle che è dietro il cubo verde, accanto al materasso, sopra al cubo blu e così via. Si persegue, in sintesi, la concretezza del concetto, che può così essere acquisito in un contesto di gioco motivante, grazie all'esperienza che di esso si fa e che porta, nel tempo, ad una sua astrazione. È importante evidenziare che, attraverso la guida del terapista che le suggerisce delle strategie da utilizzare per agire sugli oggetti, G. può pian piano interiorizzare delle modalità utili a migliorare le sue capacità di problem solving.

Sull'identificazione degli oggetti si lavora anche nell'ambito del gioco rappresentativo: a questo scopo, nella preparazione del gioco della mucca, il terapista propone alla bambina due o più animali tra cui, secondo la tecnica del matching, deve essere scelto quello richiesto. Talvolta si fa ricorso a due mucche di dimensioni diverse, che G. è in grado di riconoscere come mucca grande e mucca piccola;questo permette la riproposizione di dinamiche famigliari attraverso il gioco: la prima mucca è la mamma, la seconda la figlia. Gli aspetti collocabili didatticamente sul piano cognitivo e quelli che attengono all'ampliamento delle possibilità di gioco rappresentativo s'interconnettono e si condizionano vicendevolmente.

Il ripetersi, inoltre, degli elementi invariabili della seduta consente alla bambina di orientarsi sulla base del proprio ricordo, giacché questo genere di facilitazione incentiva la memorizzazione; la presenza di routine e di una strutturazione riconoscibile della seduta stessa le permette poi di rafforzare le proprie nozioni di prima e di dopo, ovvero di migliorare il proprio orientamento temporale. Di conseguenza la bambina appare più capace di tollerare l'attesa e di sostenere l'assenza della figura materna: il fatto che il terapista le indichi che qualcosa, come il ritorno della mamma, avrà luogo dopo è sufficiente a confortarla e a contenere la sua angoscia.

Il lavoro sulla focalizzazione e sul mantenimento dell'attenzione collima con quello sulla motivazione: la ricerca di oggetti e attività che riescano a calamitare l'interesse della bambina, unita ad un continuo rinforzo della relazione terapeutica, determina la volontà di G. di concentrarsi su ciò che vede e sulle attività proposte.

Nel trattamento della bambina un'importanza innegabile è rivestita dall'imitazione, che il terapista cerca di stimolare attraverso quello che in precedenza abbiamo chiamato prompting, cioè fornendole un esempio di come certe azioni debbano essere dirette. G. è adesso capace, ad esempio, di giocare con le bolle di sapone senza grossi aiuti oltre alla guida verbale, ed ha affinato la propria destrezza nel produrle proprio grazie al modello fornitole dal terapista. Del resto l'esempio datole è stato nodale anche allo scopo di approdare al gioco rappresentativo: ha infatti determinato il passaggio dall'utilizzo sensomotorio degli oggetti ad un loro impiego più propriamente riferibile (anche se ad un livello elementare) alla dimensione simbolica. A testimonianza di quest'avvenuto passaggio riportiamo un episodio avvenuto durante una seduta dell'Ottobre u.s.: G., dopo aver trovato delle forbici giocattolo in una scatola, le ha impugnate e ha finto di tagliarsi i capelli, per poi compiere il medesimo gesto su di me. Dopotutto l'imitazione e il gioco, che abbiamo visto essere, secondo la prospettiva piagettiana, i due principali tramiti di apprendimento nel bambino, s'incontrano in maniera elettiva proprio nel contesto dell'attività ludica rappresentativa.

Pare doverosa una nota sul valore dell'espressione grafica. Nel tempo si è iniziato a proporre a G. un momento nel quale, attraverso il disegno, il terapista riproduce l'attività sensomotoria che ha caratterizzato la fase precedente della seduta. In questo frangente la bambina siede di fronte al foglio e, su richiesta del neuropsicomotricista, nomina gli elementi che vengono riprodotti, ripercorrendo mentalmente il gioco svolto. La rappresentazione grafica prevede generalmente la riproduzione, oltre che del setting, anche della stessa bambina; il disegno è sempre accompagnato dalla comunicazione verbale e, interpellando G. rispetto al significato delle varie parti del suo corpo disegnate e alla loro corrispondenza con quelle reali ("Cos'è questo?", "Tu ce l'hai il naso?", "Qui cosa c'è?"), è possibile valutare la progressiva maturazione del suo schema corporeo. Il disegno fornisce, come emerge da quanto appena detto, interessanti informazioni rispetto alla capacità di simbolizzazione della bambina, nonché un'occasione per lo sviluppo della funzione semiotica (si veda pag. 51).  Per comprendere a pieno l'importanza di quest'ultima è necessario un breve approfondimento.

Essa, consistendo nella capacità di associare un significato a un significante, non riveste un ruolo di rilievo limitatamente al gioco simbolico e al disegno: la simbolizzazione sta infatti alla base anche dell'imitazione differita e del linguaggio. Suffragando la stretta correlazione tra questi elementi, teorizzata, seppure in termini parzialmente divergenti, sia da Piaget che da Vygotskij, ricerche recenti hanno dimostrato come la gestualità nel gioco simbolico si sviluppi di pari passo con gli inizi del linguaggio verbale e sia legata al medesimo desiderio di comunicazione. Sia i comportamenti articolatori del linguaggio, sia quelli gestuali del gioco sono usati per rappresentare informazioni riguardanti oggetti ed eventi del mondo reale. Anche nel modello teorizzato da McCune-Nicolich, a ogni livello di sviluppo del gioco simbolico si associa una fase particolare dello sviluppo linguistico. Non c'è da sorprendersi, fatte queste considerazioni, se i progressi di G. sul fronte della comunicazione verbale hanno coinciso con l'arricchimento delle sue possibilità di gioco e con l'incremento delle sue condotte imitative. Il lavoro sulla simbolizzazione pervade tutta la seduta della bambina, sostanziandosi, com'è deducibile da quanto detto, tanto nelle varie fasi di gioco quanto nella rielaborazione grafica delle stesse, nonché accompagnandosi al lavoro su tutti gli altri fronti.

Ristabilire l'unità

Veniamo a un'ultima precisazione in merito alle modalità con cui abbiamo esposto le caratteristiche del trattamento di G. Nella stanza di terapia neuropsicomotoria si rifugge la settorializzazione della persona: agire sui diversi livelli per realizzare gli obiettivi prefissati non significa guardare cecamente a delle funzioni deficitarie e volerle normalizzare, dimenticando così l'insieme-bambino, ma rispettare la complessità e mantenere un grandangolo che permetta di non perdere mai di vista il funzionamento globale del paziente. I cambiamenti ottenuti non rimangono entro i confini di un'area definita, vanno bensì a riverberarsi su tutti gli altri piani, potendo perpetuare o innescare, come abbiamo precisato all'inizio di questo stesso capitolo, rispettivamente un circolo vizioso o virtuoso. È proprio in ragione della simultaneità del trattamento nei diversi ambiti, i quali finiscono per intrecciarsi e non essere mai del tutto divisibili, che si può parlare di approccio olistico alla persona in riferimento all'approccio neuropsicomotorio. Le distinzioni tra aree sono necessarie per pianificare l'intervento e comprenderne le prerogative in un contesto espositivo, ma operativamente la terapia neuropsicomotoria mira a ristabilire l'unità somato-psichica di una persona mai scissa. Relazione, comportamento, cognizione e movimento sono facce diverse di un unicum definito da un nome proprio di persona, che in questo caso è G., il vero, grande focus del trattamento.

 

Indice

 
INTRODUZIONE
 
  1. PREMESSE TEORICHE: Processo diagnostico e diagnosi nosografica; La valutazione neuropsicomotoria; Rete e supervisione; L'importanza della relazione; L'uroboro: un trauma che si morde la coda; Il gioco.
  2. Dalle premesse alla stanza: Presentazione; Collocarsi nello spazio.
  3. IL CASO DI G.: Anamnesi, La diagnosi nosografica, Le malattie neurocutanee, La sindrome di Sturge-Weber; L'osservazione/valutazione neuropsicomotoria, Scheda di osservazione psicomotoria Berti-Comunello, Scheda di osservazione/valutazione neuropsicomotoria Gison.
  4. Il trattamento neuropsicomotorio di G.: Perseguire l'integrazione; Obiettivi del trattamento; Il circolo virtuoso del gioco; Gioco e relazione; Gioco e socialità; Gioco e apprendimento; Ristabilire l'unità.
 
CONCLUSIONI - Precisazioni metodologiche; Osservazione/valutazione finale; Verifica degli obiettivi; Sul serio, per gioco
 
BIBLIOGRAFIA - SITOGRAFIA
 
RINGRAZIAMENTI
 
Tesi di Laurea di: Francesco CANGIOLI

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