Perché il termine “NEUROPSICOMOTRICISTA” viene associato al "Terapista della NEURO e PSICOMOTRICITÀ dell’Età Evolutiva" ?

L’Intenzione: basi teorico-strutturali - Consapevolezza, Comprensione e Condivisione delle Intenzioni

CAPITOLO PRIMO

 

L’Intenzione: basi teorico-strutturali. In che modo dovremmo pensare le intenzioni?

 

Intenzionalità e intenzione

Secondo Berti e Comunello (2011) alla base dell’intenzione vi è l’idea più generale di “intenzionalità”, considerata come “la proprietà di molti stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso, o sono relativi ad oggetti o stati di cose del mondo” (Searle 1983 in Berti, Comunello 2011), ma anche come “la relazione primitiva che lega {…} un soggetto di desiderio a un oggetto investito di valore, {…} per cui l’intenzionalità è la condizione di possibilità della modalità del volere” (Greimas, Courtés 1986 in Berti, Comunello 2011). Secondo la prima definizione l’intenzionalità non riguarda solo l’azione, in quanto l’intendere fare qualcosa è soltanto una delle sue forme insieme agli altri stati mentali (Searle, tra l’altro, ritiene che credenza e desiderio siano gli stati intenzionali di base, seppur comunque forme sbiadite di esperienze più primitive del percepire e del fare), mentre la seconda considera come unico stato mentale pertinente il desiderio. Entrambi però ritengono che l’intenzionalità sia legame, direzionalità preconcettuale (non richiede necessariamente la consapevolezza) di uno stato o evento mentale del soggetto verso un oggetto o stato reale, immaginario, simbolico, interno o esterno.

Nella stessa ottica si pone l’approccio fenomenologico secondo cui l’intenzionalità è “la definizione del rapporto fra il soggetto e l’oggetto della coscienza in generale” (Galimberti 1992 in Berti et al. 2001). Inoltre per tale corrente di pensiero “essa rappresenta una caratteristica essenziale della sfera delle esperienze vissute in quanto tutte le esperienze hanno in qualche modo intenzionalità” (Husserl 1912-28 in Berti et al. 2001). “Prima di essere una prerogativa dell’apparato psichico, l’intenzionalità è già iscritta nel più elementare atto motorio, che è comunque sempre orientato, anche quando non è nota la sua attesa anticipatrice” (Galimberti 1999 in Berti, Comunello 2011).

L’intenzionalità è dunque una proprietà della mente che riguarda la natura degli stati mentali (credenze, desideri, intenzioni, ma anche paura, speranza, amore, odio, e pure memoria, percezione e azione intenzionale), la loro direzionalità verso oggetti esterni (l’essere “diretto verso” o “che riguarda” o “si riferisce a”), che possono essere anche non esistenti, mentali, privi di una manifestazione empirica; l’intenzionalità rimane una caratteristica degli atti mentali, che non necessariamente si manifesta nell’azione.

L’intenzione è, invece, uno stato mentale e non una proprietà degli stati mentali (non diciamo che uno stato mentale ha intenzione, ma se mai che è un’intenzione), che si manifesta quando intendiamo fare qualcosa, è un fenomeno circoscritto, una nozione che si collega al “fare”, all’azione.

Dire “intenzione” significa avere o attribuire una capacità di scelta in base a conoscenze, giudizi e desideri. Tanto è vero che l’esplicitazione verbale dell’intenzione è data principalmente dal verbo “volere” o similari. E alla base della scelta c’è la capacità di discriminare fra almeno due alternative, e, prima ancora, di percepire e discriminare fra almeno due stati del mondo, interni o esterni. Quindi l’elemento fondamentale dell’intenzione è la volizione, cioè l’atto della volontà mediante il quale si concepisce il fine che si vuole raggiungere e si deliberano i mezzi in rapporto ad esso. L’intenzione e la sequenza mezzi-scopo sono connesse alla scoperta della possibilità di modificare l’ambiente e quindi alla scoperta del come agente causale: “la scoperta della propria efficacia causale è il fondamento della percezione di sé come agente; è, per usare un termine tradizionale, il fondamento della “volontà”. Nella terminologia corrente, possiamo immaginarla come l’“intenzione” soggiacente all’azione. Il comportamento, compresa la percezione, è intenzionale; non è la risposta ad uno stimolo, ma è originato da un percettore-attore” (Gibson 1993 in Neisser 1999).

Come affermato, anche l’esperienza percettiva è intenzionale: l’informazione percettiva è ricercata attivamente e la percezione non è una mera decodifica da parte dei sensi passivamente accettata da un destinatario privo di risorse, ma è retta da una freccia direzionale per cui, ad esempio, la velocità con cui si riconosce un oggetto o una forma è influenzato dall’aspettativa di vedere comparire o meno quell’oggetto; la percezione visiva è prima un guardare e poi un vedere.

Inoltre ogni comportamento, oltre ad essere intenzionale (anche bambini piccolissimi sono in grado di ottenere e utilizzare l’informazione relativa a sé stessi come agenti), è potenzialmente dotato di significato e si tende a leggerlo come azione.

 

Intenzione e azione

Non ci sono azioni senza intenzioni, per cui è un nonsense parlare di azioni inintenzionali o afinalistiche. Ciò non significa necessariamente che prima ci sia l’intenzione e poi l’azione che la realizza: “ Tutte le azioni intenzionali hanno intenzioni in azione ma non tutte le azioni hanno intenzioni precedenti” (Searle

1983 in Berti, Comunello 2011). L’intenzione quindi non può essere ridotta alla premeditazione, e nel caso di azioni non premeditate si dice che “l’intenzione era nell’azione, ma che non c’era alcuna intenzione precedente. La forma linguistica caratteristica dell’espressione di una intenzione precedente è “farò o sto per fare A”, mentre di una intenzione in azione è “sto facendo A” ” (Searle 1983 in Berti et al. 2001).

Nella distinzione e nel riconoscimento fra questi due tipi di intenzione diventano rilevanti la scansione temporale, l’ordine sequenziale e concatenato degli atti in modo da riconoscervi un’intenzione globale.

 

Percepibilità, contesto e coinvolgimento dell’intenzione

Adottare una definizione dell’intenzione come “diretta all’oggetto” (intenzione da “in-tendere” cioè “tendere verso”) è utile per considerare tre caratteristiche che essa possiede: la si può percepire nel movimento, ha un significato all’interno di un contesto, possiede la capacità di coinvolgere attraverso l’azione.

  1. Le intenzioni possono essere percepibili nelle loro configurazioni di movimento per due ragioni tra loro connesse: primo, se si vuole spiegare come emergono ed evolvono nello sviluppo e anche nel corso dell’evoluzione della specie, le intenzioni devono essere – e devono essere state – percepibili dagli altri come capaci di suscitare una risposta. Secondo, l’intenzione, ad esempio, di raggiungere qualcosa o qualcuno, consiste di una relazione sistematica e legittima tra l’azione intenzionale e il suo oggetto, relazione che può essere direttamente percepita, senza bisogno d’essere inferite. Inoltre l’azione intenzionale presenta cinque caratteristiche che la rendono ulteriormente percepibile: direzionalità verso gli oggetti, singolarità, forma, volontarietà e aspettativa di cambiamento.
    1. La direzionalità verso gli oggetti: le intenzione, come già affermato, vengono definite come “riguardo a” qualcosa, e questo qualcosa (gli oggetti) può darci informazioni sulle intenzioni degli altri ed è necessario non solo per elicitare le azioni intenzionali, ma anche per renderle comprensibili agli altri: il movimento del “raggiungere” nello spazio può essere avvertito come qualcosa di strano e incomprensibile finché non si vede che c’è qualcosa da raggiungere; il riconoscimento di una relazione tra il movimento del raggiungere e il suo oggetto specifica l’intenzione stessa del raggiungere. Questo aspetto della direzionalità viene colto già da bambini di 3-5 mesi.
    2. La singolarità: l’azione intenzionale costituisce un singolo atto globale piuttosto che una serie di piccoli movimenti repentini, cosicché è più facilmente percepibile. Anche questa caratteristica viene colta precocemente, fin dai 10 mesi di vita.
    3. La forma: le azioni intenzionali sono dotate di una forma coerente e non arbitraria (non solo certe forme di azioni devono portare in modo sistematico alle stesse impressioni nelle diverse persone che le percepiscono, ma devono anche sembrare collegate in modo ragionevole alla struttura e alla cinematica del corpo), ulteriore caratteristica che le rende percepibili. Per quanto riguarda i bambini piccoli essi sono in grado di rilevare il movimento biologico (che è intenzionale) nella sua forma, distinguendo per esempio il camminare da un movimento automatico.
    4. La volontarietà: la volontarietà è parte centrale dell’intenzionalità e si può ritenere qualsiasi agito volontario, e dunque intenzionale, come autoprodotto; l’autoproduzione è la caratteristica necessaria nella percezione della volontarietà, ma non sufficiente: bambini di 5 mesi distinguono un movimento casuale della mano da quello diretto verso un oggetto, ad indicare che, pur essendo entrambi autoprodotti, per i piccoli hanno un diverso significato in termini di intenzione.
    5. L’aspettativa di cambiamento: le intenzioni riguardano il cambiare o il fare qualcosa nel mondo, anche se di lieve entità. Nelle azioni intenzionali e nelle reazioni a queste associate l’aspettativa di cambiamento può essere ben riconoscibile: la soddisfazione e l’interrompersi dell’azione quando l’oggetto viene raggiunto, o il persistere finché questo non accade, o la sorpresa quando l’oggetto scompare, o il correggere la direzione se l’oggetto si muove fanno comprendere qual’é lo scopo prefissato.
  2. Le intenzione hanno bisogno di un contesto che ne chiarisce il significato: il contesto, costituito da spazio, tempo, tono, posture, movimento, oggetti e voce, va a specificare l’atto intenzionale, rendendo, così, maggiormente visibile e comprensibile il senso dell’intenzione sottostante. I contesti, piuttosto che essere un aspetto aggiuntivo, una “variabile interveniente”, costituiscono parte integrante delle intenzioni che possiamo cogliere o meno. Le intenzioni si possono desumere dai contesti se però chi le percepisce fa esperienza di parteciparvi in maniera attiva; ciò che conta è il coinvolgimento attivo.
  3. La terza e probabilmente più importante caratteristica delle intenzioni è infatti che esse richiedono un coinvolgimento (la loro percettibilità, le caratteristiche che la permettono ed il contesto di riferimento possono essere compiutamente compresi nel loro significato solo quando il soggetto è direttamente coinvolto con essi), che esse sono strumenti per partecipare attivamente alle interazioni. C’è un’apertura nelle azioni intenzionali, ossia l’azione si considera aperta in quanto passibile di trasformazione in base al modo in cui vi partecipano gli oggetti coinvolti, e in quanto capace di suscitare di per sé la partecipazione attiva se diretta verso entità animate. Tale partecipazione attiva può essere di due tipi: il primo sollecita una partecipazione nei termini di condivisione empatica, ossia implica il far proprie le intenzioni altrui attraverso le proprie azioni (questo perché si riesce a riconoscere le intenzioni altrui), il secondo richiama una partecipazione nel senso di richiedere all’altro una risposta. Le intenzioni influenzano gli altri e dagli altri possono essere influenzate (è raro che vengono osservate passivamente), ed è per questo che portano a forme di coinvolgimento attivo.

 

Intenzione e consapevolezza

L’intenzione non va confusa con la consapevolezza o coscienza, infatti come sostiene Searle “intenzione non è lo stesso che consapevolezza. Molti stati consapevoli non sono intenzionali – per esempio un improvviso senso di euforia – e molti stati intenzionali non sono consapevoli – per esempio io ho delle credenze alle quali in questo momento non sto pensando e alle quali potrei non avere mai pensato” (Searle 1983 in Berti et al. 2001).

Inoltre se, come detto, tutte le azioni sono intenzionali, molte sono realizzate con poca o nulla consapevolezza, come nel caso di quelle più automatizzate (si è meno consapevoli di ciò che la mente fa meglio).

Quindi per “coscienza dell’azione” si deve intendere una coscienza globale che comprende il piano d’azione e lo scopo e non tanto i singoli passi che vengono svolti in maniera più o meno automatica; si ha cioè consapevolezza dell’intenzionalità globale e dello scopo finale.

 

Intenzione e scopo

Normalmente intenzione e scopo sono considerati sinonimi, e così li usano Rizzolati e Iacoboni; secondo Berti e Comunello (2011), invece, sono concetti ben distinti. L’intenzione risponde alla domanda “cosa fa/ha fatto?” o “cosa vuole/voleva fare?”, quindi è intrinseca all’azione e si rivolge al presente o al passato, mentre lo scopo risponde alla domanda “perché lo fa?” e si rivolge al futuro, riguardando lo stato immaginato e desiderato di quell’azione; alla base della distinzione fra intenzione e scopo c’è sempre una distanza temporale.

Una stessa azione può avere scopi diversi, pur essendo generati dalla medesima intenzione: si può prendere il bicchiere (intenzione) per bere (scopo 1) o per tirarlo in testa a qualcuno (scopo 2). Il contesto ha un ruolo importante per indovinare se lo scopo è il primo o il secondo, e a definire tale contesto contribuiscono le circostanze precedenti, la comunicazione verbale e non (mimica, postura, prossemica ecc.), la modalità con cui viene preso il bicchiere (tipo di presa, velocità, ampiezza del movimento, forza ecc.), ecc..

La differenza tra intenzione e scopo è visibile anche dal fatto che l’intenzione in azione può riuscire mentre lo scopo può fallire: si abbraccia (intenzione realizzata) sperando di ricevere un sorriso o un abbraccio di risposta (scopo), e invece si riceve una sberla (scopo fallito).

Questa differenza è rilevabile anche quando pure l’azione fallisce, come nei movimenti dei bambini molto piccoli nei quali si può individuare una chiara intenzionalità (es. portare il bicchiere alla bocca), nonostante non riesca loro il giusto movimento e lo scopo (bere) fallisca, a causa della loro immaturità neuromotoria.

Riconosciamo lo scopo anche dal suo fallimento perché siamo esseri intrinsecamente intenzionali.

 

Intenzione e desiderio

Intenzione e desiderio sono entrambi disposizioni anticipatorie in grado di attivare la condotta del soggetto, non sono né vere né false, ma possono essere soddisfatte da certe condizioni della realtà, e rappresentano soprattutto il “motore” motivazionale dell’azione dell’organismo.

Si differenziano però per il fatto che il desiderio è soddisfatto non appena è raggiunto il risultato desiderato, mentre le intenzioni sono soddisfatte solo se producono determinate azioni che conducono al risultato che si intende raggiungere; l’intenzione è autoreferenziale, ossia il suo contenuto proposizionale non è “succede x” o “faccio x”, ma “faccio x per soddisfare la mia intenzione”.

 

Nascita ed evoluzione delle intenzione

La caratteristica più notevole dei bambini di ogni età è la loro capacità di generare intenzioni: non sono in balia degli stimoli, ne in costante conflitto di impulsi (Trevarthen 2004).

L’intenzione – contrariamente a quanto generalmente ritenuto – si sviluppa molto precocemente. Fin da subito sono presenti e quantificabili alcuni aspetti: l’anticipazione della comparsa di un atto, la selezione dei mezzi appropriati e l’orientamento, la direzione del comportamento.

Il manifestarsi precocemente dell’intenzione può significare, per il neonato e per l’infante, la capacità di regolare i propri processi cognitivi anche e soprattutto nel senso di realizzare strategie di risposta, ai fini adattivi; il neonato, molto precocemente, organizza il proprio comportamento e le proprie azioni tendendo verso la soluzione di quesiti adattivi. Questa capacità di regolare i propri processi

cognitivi è definita esperienza metacognitiva, che dev’essere distinta dalla conoscenza metacognitiva, cioè dalla presa di coscienza o consapevolezza di ciò che si conosce.

Già un feto di 4 mesi ha movimenti del viso e delle mani abbastanza raffinati: muove gli occhi, le palpebre, le sopracciglia, gli arti e le mani, la lingua e le labbra in schemi di osservazione, di prensione, di vocalizzazione, di orientamento verso uno scopo e inizia a mostrare smorfie ed espressioni facciali. In seguito, queste “anteprime” si attenuano, sino a riemergere in maniera assai chiara in prossimità della nascita. Ciò testimonia la presenza di elaborate attività di preparazione per le intenzioni umane, molto in anticipo sulla funzionalità matura. Inoltre il piccolo in utero è capace di lavorare sistematicamente per ottenere ciò che vuole, e, se non raggiunge ciò che si attende, sembra deluso e mostra una diminuzione dell’energia e persino una specie di rifiuto della situazione: è possibile vedere in questo  l’esistenza di  comportamenti   di  volizione, dell’intenzione “in potenza”.

Piaget (1936 in Trevarthen 2004) suppone che i bambini sotto i 9 mesi siano organismi “sensomotori”, che agiscono per riflessi, privi di strutture intenzionali, e che solo nel 5° stadio (stadio delle reazioni circolari terziarie, 12-18 mesi) del periodo sensomotorio (0-2 anni), da lui definito, il bambino provoca intenzionalmente risultati nuovi, mentre prima si limitava a riprodurre quelli prodotti casualmente.

In realtà, come sostiene Bruner (1970 in Sabbadini 1995), i cosiddetti comportamenti “istintivi” o “riflessi” – cioè il patrimonio genetico – si trasformano in azioni intenzionali quando il neonato, od il bambino, ha modo di osservare i risultati delle proprie azioni. Ciò si realizza già dal primo mese di vita, quando i bambini mostrano prototipi regolari dei movimenti intenzionali degli adulti: un piccolo umano di quattro settimane non è in grado di camminare, di mettersi a sedere per guardare intorno o di giungere ad afferrare un oggetto, ma tutti questi atti possiedono pattern precursori nei movimenti spontanei da lui compiuti quando è sveglio e tranquillo. Già dalla nascita è presente anche la capacità di orientamento acustico e di fissazione e inseguimento visivo con movimenti coordinati dei due occhi e visione centrale (foveale) scandita nel tempo, il tutto coordinato con movimenti intenzionali della testa, seppure poco sviluppati.

Bruner ha dimostrato come pure la suzione, che biologicamente ha una funzione nutritiva e autoconsolatoria, possa fin dalle prime settimane venir messa sotto il controllo volontario e intenzionale da parte del bambino.

Attorno ai 5 mesi di vita, poi, compaiono movimenti intenzionali sempre più abili, come quelli di reaching per raggiungere un giocattolo, facendo ricorso a differenti strategie (movimenti ampi e vigorosi oppure movimenti corti e più veloci).

Il bambino diventa però in grado di manifestare apertamente le proprie intenzioni solo nel secondo semestre di vita, quando diviene capace di differenziare tra attività (effetto) e intenzioni (causa), e si rende conto che il suo comportamento (mezzo) può essere impiegato per ottenere i risultati desiderati (scopo).

Infatti, per essere precisi, è a partire dai 9 mesi di età che il bambino, grazie ad un rapido sviluppo della sua capacità di categorizzare il mondo, si forma un concetto di persona come agente intenzionale (entità che si muove autonomamente diretta a uno scopo, e possiede stati mentali intenzionali, come desideri e intenzioni, che guidano le sue azioni), e pone sé stesso all’interno di questa categoria, vedendosi nello stesso modo in cui vede gli altri, cioè dallo stesso punto di vista: realizza questo cambiamento di prospettiva simulando gli altri che lo guardano, l’attenzione che l’adulto rivolge a lui.

Tra i 2 e i 5 anni di età i bambini normali cominciano a riferirsi ai propri stati mentali, tra cui l’intenzione, come si evidenzia nella loro abilità di parlarne: a circa 2 anni di età i termini che denotano stati volitivi (“volere” o similari) sono prodotti da quasi tutti i bambini.

Per quanto riguarda l’intenzionalità solo attorno ai 3 anni il processo maturativo del bambino raggiunge lo stadio in cui si organizzano i primi processi mentali, che gli permettono di esprimere una prima vera intenzionalità cognitiva e quindi di selezionare ancor meglio le proprie risposte adattive.

Ciò consente al bambino anche di iniziare a distinguere correttamente fra azioni intenzionali e non, come per esempio errori, semplici riflessi e movimenti passivi. Dall’altra parte però, fino ai 6-7 anni le spiegazioni che il bambino elabora relativamente al mondo che lo circonda risentono di un atteggiamento improntato all’animismo: le cose vengono concepite come viventi e dotate di intenzionalità. Inizialmente queste caratteristiche sono attribuite a qualunque cosa dotata di attività, in seguito solo agli oggetti mobili e infine solo agli oggetti dotati di moto proprio. Alle entità dotate di vita e intenzionalità viene anche attribuita una certa coscienza: esse sanno quello che fanno e lo fanno intenzionalmente (esempio, la luna sa di muoversi e lo fa per seguirci nelle nostre passeggiate).

 

Sede neurofisiologica dell’intenzione

Tradizionalmente si ritiene che il lobo prefrontale svolga un ruolo significativo nelle funzioni cosiddette d’origine superiore, quali la memoria di lavoro e la pianificazione temporale delle azioni. Un’altra funzioni sovente attribuitagli è quella relativa alla coerenza delle intenzioni: è noto, per esempio, come persone con lesioni prefrontali fatichino a mantenere una condotta conseguente ai loro propositi e si lascino facilmente distrarre da stimoli secondari o da situazioni contingenti. Da qui la convinzione che le aree prefrontali rappresentino il substrato neuronale che sarebbe alla base della formazione delle intenzioni che precedono e orientano l’agire.

Della corteccia del cingolo (posta sulla superficie mediale dell’emisfero cerebrale, attorno al corpo calloso) non si conosce molto. Tuttavia, è opinione diffusa che questa regione sia coinvolta nell’elaborazione delle informazioni motivazionali e affettive che intervengono nella genesi delle intenzioni, influenzando così lo stesso corso delle azioni.

Corteccia pre-frontale e giro del cingolo formano, quindi, un circuito responsabile della formazione delle intenzioni, della pianificazione a lungo termine e della scelta del momento in cui effettivamente agire.

Corteccia pre-frontale e giro del cingolo formano, quindi, un circuito responsabile della formazione delle intenzioni, della pianificazione a lungo termine e della scelta del momento in cui effettivamente agire.

Figura 1 Localizzazione delle sedi delle intenzioni

Inoltre, corteccia del cingolo e quella orbito frontale (parte della prefrontale) fanno parte del sistema limbico, mentre la rimanente corteccia prefrontale comunque vi interagisce.

La corteccia del cingolo, infatti, costituisce due delle quattro aree corticali che rappresentano i centri di percezione del sistema limbico:

  1. Zona occipito-temporale mediale: corrisponde alla porzione posteriore della corteccia del cingolo e regola la vita affettiva;
  2. Zona fronto-temporale mediale o zona sopracallosa o corteccia del cingolo: corrisponde alla porzione anteriore ed intermedia della corteccia del cingolo e regola la preservazione dell’individuo e della specie, coordinando il riconoscimento degli odori e della vista e della loro memoria relativamente al piacere di precedenti; partecipa anche alle reazioni emotive al dolore e alla regolazione degli impulsi aggressivi;
  3. Zona fronto-temporale: corrisponde all’uncino dell’ippocampo ed al giro dentato, e controlla e regola la nutrizione e le reazioni di attacco e difesa;
  4. Zona parieto-occipitale mediale: corrisponde, grossolanamente, al giro ippocampale e controlla l’attività sessuale.

La corteccia orbito-frontale è, invece, collegata con l’amigdala e coinvolta nel controllo delle emozioni, nonché nella presa di decisione.

Infine, la corteccia prefrontale è coinvolta in due dei quattro principali circuiti cerebrali, che dopo aver attraversato i gangli della base ritornano a diverse aree della corteccia stessa:

  • CIRCUITO COGNITIVO, in rapporto con l'intenzione dell’esecuzione dei movimenti; parte da tutte le aree della corteccia con funzione associativa (in particolare dall'area prefrontale) che inviano delle efferenze al nucleo caudato, che a sua volta le invia al pallido e al nucleo ventrale anteriore del talamo. Da qui queste fibre afferenti ritornano all'area pre-frontale;
  • CIRCUITO LIMBICO, coinvolto nel meccanismo di presa di decisione in base a reazioni emozionali; parte dalla circonvoluzione pre-frontale e attraversa il nucleo accumbens, il pallido ventrale ed il nucleo talamico dorsomediale, per tornare alla corteccia pre-frontale;
  • CIRCUITO MOTORIO, coinvolto nei movimenti già appresi;
  • CIRCUITO OCULOMOTORE, in rapporto coi movimenti automatici degli occhi, fisiologicamente impediti dalla zona reticolare della sostanza nera.

Ciò rende evidente come queste due aree cerebrali (corteccia prefrontale e del cingolo) siano coinvolte sia nella regolazione di aspetti più di tipo arcaico, pulsionale, come le emozioni, sia nella genesi di organizzazioni superiori, cognitive, come sono le intenzioni, e che creino un vero è proprio continuum tra le une e le altre: dalla pulsione alla razionalizzazione.

 

Attuazione dell’intenzione

I tre livelli di organizzazione e controllo sottostanti all’attuazione dell’intenzione sono:

a) Il feed-forward o “feed-back interno o a priori”, che riguarda la preparazione dell’azione intenzionale. L’intenzione coincide cronologicamente con questa fase, cioè con la rappresentazione mentale dell’attività, con la seriazione e il coordinamento (programmazione) degli atti sequenziali indispensabili per realizzarla. Inoltre, è intimamente correlata con la rappresentazione dell’input sensoriale sequenziale, relativo ad ogni atto elementare, con la costruzione di programmi costituiti dall’assemblaggio degli atti sequenziali elementari e con la previsione dei risultati che il soggetto intende conseguire. L’importanza dell’elaborazione dell’intenzione in termini di feed-forward, in età evolutiva, è indispensabile se il gesto vuole essere un movimento sciolto, compiuto con destrezza, messo “in onda” al momento giusto e che raggiunga il risultato previsto.

Per una migliore comprensione è utile però iniziare dal principio:

la percezione, come primo atto cognitivo, è l’elaborazione, la sintesi e l’organizzazione cognitiva dell’informazione sensoriale in un'esperienza complessa dotata di significato. “L’immagine percettiva” che ne deriva è, quindi, cosa diversa dal mondo esterno materiale da cui e stata ricavata: essa non riflette mai esattamente la realtà da cui proviene, è costruita da essa ma “soggettivamente”. La percezione infatti non è relativa al mondo esterno reale ma alla rappresentazione interna di esso. Vi è pertanto coincidenza tra le due locuzioni “immagine percettiva del mondo esterno” e “rappresentazione interna del mondo esterno (RIRE)”. La rappresentazione (ipotetico simbolo cognitivo interno che rappresenta la realtà esterna, o processo mentale che fa uso di tale simbolo) non si riferisce, comunque, soltanto all’“immagine percettiva”, ma anche a tutti quegli aspetti della realtà, non necessariamente percepiti, che il cervello ha costruito “soggettivamente”, ma coerentemente, non anarchicamente ma per completare ciò che ha percepito e ciò che ha previsto come possibile, mantenendolo comprensibile e credibile (anche attraverso prove ed errori). La rappresentazione, quindi, non riguarda soltanto la realtà esterna, ma solo ad una ricca e mutevole RIRE può corrispondere una ricca capacità di programmazione ed esecuzione nella realtà, in quanto si agisce sulla rappresentazione e non sul mondo esterno.

b) Il “feed-back” vero e proprio, cioè l’avvio dei programmi, la previsione del risultato e il controllo delle sequenze e dell’intera attività nel corso dell’azione ad opera del sistema effettivo;

c) La “verifica del risultato” (globale) ottenuto, come corrispondente a quello previsto e atteso, che vale come feed-back “a posteriori”.

Tutto ciò corrisponde a delle strutture cerebrali e a dei circuiti neuronali ben precisi: L’ippocampo sembra giocare un ruolo importante nell’etichettare le percezioni in funzione delle intenzioni.

Il cervelletto, invece, sembra essere la sede della rappresentazione interna del mondo esterno e contemporaneamente l’organo che “misura” l’azione (per lo sguardo, la misura del movimento saccadico).

La corteccia del cingolo e quella prefrontale sono le sedi delle intenzioni, ed in particolare, come già detto, la corteccia prefrontale è coinvolta in due dei quattro principali circuiti cerebrali, che dopo aver attraversato i gangli della base ritornano a diverse aree della corteccia stessa: circuito cognitivo, in rapporto con l'intenzione dell'esecuzione dei movimenti; parte da tutte le aree della corteccia con funzione associativa (in particolare dall'area prefrontale), che inviano delle efferenze al nucleo caudato, che a sua volta le invia al pallido e al nucleo ventrale anteriore del talamo. Da qui le fibre afferenti ritornano all'area pre-frontale; circuito limbico, coinvolto nel meccanismo di presa di decisione in base a reazioni emozionali; parte dalla circonvoluzione pre-frontale e attraversa il nucleo accumbens, il pallido ventrale ed il nucleo talamico dorsomediale, per tornare alla corteccia pre-frontale.

Nel compito di pianificazione, programmazione sequenziale dell’atto intenzionale sono coinvolte, oltre alla corteccia prefrontale e del cingolo, strutture come l’area premotoria (area 6), connessa con la corteccia prefrontale e parietale posteriore, l’ippocampo, i nuclei della base.

Un’altra area importante per l’anticipazione e la predizione nell’elaborazione dell’azione è l’area motoria supplementare (AMS), situata sulla parte mediale del lobo frontale, davanti alle aree motorie propriamente dette. In particolare la parte anteriore (pre-AMS), che ha delle connessioni con la corteccia prefrontale e riceve afferenze dall’area 46 (corteccia premotoria anteriore) e dal cingolo anteriore.

La corteccia prefrontale e del cingolo sono pure le strutture che decidono il momento in cui effettivamente agire (starter). La risoluzione a compiere un movimento viene presa anche nelle aree anteriori della corteccia frontale (area 46), che si attivano qualche millesimo di secondo prima della corteccia motoria. Infine, pure la corteccia parietale posteriore ha proprietà motorie analoghe alla corteccia frontale.

Il fascio corticospinale è poi la via discendente interessata nei movimenti volontari, precisi e specializzati. Esso è costituito da fibre che prendono origine da cellule della corteccia cerebrale (quasi esclusivamente dalle aree 4 e 6 del lobo prefrontale e da porzioni del lobo parietale), passano attraverso le piramidi bulbari (alla giunzione del bulbo col midollo spinale, il fascio si incrocia incompletamente dividendosi in tre fasci separati: il grosso fascio corticospinale laterale (crociato), il piccolo fascio corticospinale anteriore (non crociato), il fascio corticospinale anterolaterale non crociato, relativamente piccolo) e entrano e discendono nel midollo spinale, dando origine a fibre che si distribuiscono alla sostanza grigia midollare (corna anteriori) e progressivamente diminuiscono in diametro a livelli più caudali.

Una volta che il motoneurone di primo ordine, situato nella corteccia, ha raggiunto con il suo assone il 2° motoneurone nel midollo spinale, questo va ad innervare il muscolo preposto all’azione da compiere.

Il cervelletto e i nuclei della base hanno anche il compito di regolare direttamente l’esecuzione del movimento (composizione, armonia e precisione dei movimenti), ed agiscono sulla corteccia attraverso dei nuclei di ritrasmissione del talamo. Durante l’esecuzione, la selezione dei movimenti e la coordinazione dell’azione è resa possibile anche dalla parte posteriore dell’AMS.

Infine, vi è un ordine di arresto definito dallo stato finale, cioè dall’attuazione della propria intenzione.

L’azione è intenzionale in quanto governata da programmi motori in cui c’è una rappresentazione dello scopo e degli atti necessari per raggiungerlo, rappresentazione che può essere considerata uno “schema anticipatore” che guida l’azione verso tale scopo predeterminato; le azioni sono continuamente sottoposte al confronto tra lo stato desiderato e lo stato attuale.

Quando un movimento viene realizzato da se stessi, piuttosto che se provato passivamente, c’è coincidenza con le proprie intenzioni. L’intenzione si riferisce quindi all’attivazione di particolari strutture di controllo del movimento: noi percepiamo le nostre azioni come nostre se e solo se le conseguenze sono appropriate allo schema che le aveva generate. Le intenzioni motorie sono responsabili del senso di sé come agente: il Sé agente, cioè il fatto che noi stessi abbiamo compiuto un’azione, ed un forte senso di efficacia personale sono determinati dal grado in cui le conseguenze del movimento corrispondono agli schemi che lo hanno inizialmente generato (intenzione).

 

CAPITOLO SECONDO

 

Consapevolezza Comprensione e Condivisione delle Intenzioni

 

L’aiuto degli adulti alle intenzioni del bambino

L’adulto, e in primis la madre, è indotto ad agire come se il bambino piccolo (primo semestre di vita) fosse già un partner attivo negli scambi interattivi, attribuendo ai suoi comportamenti un’intenzione e un valore di segnale che essi, di fatto, non hanno: la mamma attua la cosiddetta anticipazione o “illusione anticipatrice” (Diatkine 1972 in Golse 2008), ossia mette in atto delle intenzioni interpretative nei confronti del bambino, cogliendo come intenzionale qualcosa (gesto, mimica, ecc.) che in realtà non lo è.

In questo modo, l’adulto, grazie alla propria sensibilità e attenzione, consente al bambino di cogliersi come agente intenzionale causale, e le sue intenzioni cominciano, già nel secondo semestre di vita, a diventare meno ambigue e a essere manifestate in modo più attivo per il raggiungimento di scopo condivisi.

Tale capacità, primariamente materna, rientra in quella più ampia di rispecchiamento, come definita da Winnicott, o rèverie, da Bion.

Winnicott afferma che la madre riceve e restituisce il bambino a se stesso, proprio come fa uno specchio; il volto della madre è per l’infante il primo specchio del suo stesso viso: la mamma guarda il bambino e l’immagine che lui riceve indietro, soprattutto dagli occhi di lei, è l'immagine di sé stesso. Questa restituzione, questo rispecchiamento favorisce nel neonato l’elaborazione dell’immagine del proprio sé (anche come agente).

Tale funzione materna di specchio non riguarda comunque esclusivamente la madre, in quanto, anche il padre ha questa cruciale funzione di rispecchiare il sé del figlio.

Infine, vista l’utilizzazione dell’udito e del linguaggio da parte del bambino, non è irragionevole ritenere che questi fenomeni di specularità probabilmente non avvengano soltanto nel campo del visivo.

Con rèverie, invece, Bion intende quella particolare funzione genitoriale di contenimento, sostegno e rispecchiamento, già rilevata come fondamentale da M. Klein, che permette alla madre di entrare in contatto con gli stati mentali (tra cui le intenzioni) del suo bambino dandogli significato, e restituendoglieli elaborati: si potrebbe dire che la madre sente nel suo corpo ciò che sente il bambino, con la differenza che ella sa darvi un senso e quindi una risposta adeguata.

La mente della madre agisce come un contenitore per il bambino (Bion parla infatti di una relazione contenitore-contenuto), la cui mente si va costituendo attraverso la mediazione di quella materna.

 

“Teoria della Mente” e consapevolezza delle intenzioni

Una delle forme fondamentali di informazioni che la mente costruisce e processa è lo stesso senso della mente: possedere una “Teoria della Mente” significa riconoscere se stessi e gli altri come entità che pensano e che possiedono stati mentali (stati di conoscenza, come credenze, pensieri e modi di “far finta”, e stati intenzionali/volitivi, come desideri, emozioni e intenzioni), i quali sono in relazione causale con gli eventi del mondo fisico, ovvero ne possono essere sia la causa che l’effetto. Questa capacità di comprendere la mente propria e altrui permette di riferirsi esplicitamente ad essa e di poter spiegare e predire ciò che se stessi o gli altri possono fare o dire.

Si parla di “teoria” perché include un sistema di credenze e di inferenze. Essa è costituita da rappresentazioni che riguardano altre rappresentazioni mentali, proprie o altrui, quindi meta-rappresentazioni, oppure, appunto, “rappresentazioni di rappresentazioni”; si tratta di rappresentazioni di quell’insieme di stati mentali (intenzioni, emozioni, credenze, attitudini, percezioni, pensieri, ricordi, ecc.), sottostanti al comportamento osservabile ma che di per sé non sono osservabili, che guida le interazioni con gli altri e l’interpretazione del loro comportamento. I processi e i contenuti della mente altrui non possono essere osservati, possono, però, essere inferiti se si dispone di un sistema, o una teoria, per comprenderne il funzionamento e il rapporto con quello che sta fuori di essi, oggetti o eventi della realtà.

Questa capacità di “creare la mente” sembra essere una funzione dell’emisfero destro, che crea un’immagine della mente altrui e, in particolare, è in grado di comprenderne le reali intenzioni.

Il bambino già dai primi mesi di vita è sensibile alle informazioni che specificano contingenze sociali e intenzionalità, e “accede” alle intenzioni degli altri, in modo particolare quando riguardano azioni a lui rivolte, impegnandosi a rispondere da subito nei confronti di tali azioni.

Però, è verso i 9 mesi che il bambino comincia a manifestare veramente questa “Teoria della Mente”, accorgendosi, tra l’altro, che la mente propria e altrui, pur essendo separate, funzionano in modo simile, per cui gli stati interni possono essere condivisi: si realizza l’intersoggettività.

La proposta teorica formulata da Camaioni in una serie di suoi contributi (1993-97 in Camaioni 2003) è che una specifica abilità, che compare nella seconda metà del primo anno di vita, documenta una primitiva capacità di leggere e comprendere la mente e fornisce importanti componenti alla teoria della mente matura:

l’intenzione dichiarativa. Questa capacità del bambino di produrre atti di comunicazione intenzionale relativamente ad oggetti/eventi esterni con funzione dichiarativa (per condividere l’attenzione/interesse) implica la nozione fondamentale che le altre persone hanno intenzionalità e stati mentali (esempio, “essere interessati a qualche cosa”), che possono venir modificati dal proprio comportamento di segnalazione.

Nell’intenzione dichiarativa il bambino indica (comunicazione gestuale con gesto distale) un oggetto o evento all’adulto, alternando il proprio sguardo tra l’oggetto/evento e il volto dell’adulto finché questo guarda nella stessa direzione (coordinazione triadica bambino altra persona e oggetto/evento esterno, ossia attenzione condivisa), di solito accompagnando ciò col nominare o commentare il comune fuoco di attenzione.

Il bambino non utilizza semplicemente l’agentività dell’adulto in modo strumentale per conseguire i propri obiettivi (l’altro è un mezzo per arrivare ad uno scopo), come quando indica qualcosa che desidera possedere o consumare (intenzione di tipo richiestivo), egli intende piuttosto influenzare l’atteggiamento psicologico dell’altra persona relativamente a qualche aspetto della realtà esterna, in particolare il provare interesse o il condividere un’esperienza (l’altro, con i suoi stati mentali, è lo scopo da raggiungere). Mentre nella “richiesta” il risultato atteso è un cambiamento nello stato del mondo, nella “dichiarazione” è un cambiamento nello stato mentale dell’interlocutore. Ciò richiede che il bambino sia allora capace di una qualche rappresentazione dell’adulto come in grado di avere intenzioni e di comprendere quelle altrui.

Processi come la motivazione sociale di base (“intersoggettività primaria” secondo Trevarthen 1979 in Camaioni 2003), la comprensione dell’agentività, la capacità di usare delle modalità distali di interazione (pointing, contatto visivo, vocalizzazioni sistematiche) e la realizzazione dell’attenzione condivisa (sviluppo tra i 7 e i 12 mesi) sono meccanismi probabilmente necessari, ma certo non sufficienti a spiegare la comparsa l’intenzione comunicativa per scopi dichiarativi. Quest’ultima è resa possibile – secondo Camaioni – dalla comprensione che l’interlocutore, oltre che un partner sociale e un agente causale, è anche un soggetto psicologico (o un agente intenzionale), capace di mostrare attenzione e interesse per determinati aspetti della realtà e con il quale si possono condividere questi stati mentali (nozione di “soggettività”).

Da tutto ciò deriva che l’inizio della capacità di leggere la mente si identifica con la capacità del bambino di rappresentare e influenzare lo stato attentivo dell’altro riguardo ad un oggetto/evento.

L’intenzione dichiarativa, insieme all’attenzione condivisa ed al pointing che in essa si manifestano, sembrano essere la prima manifestazione di una “Teoria della Mente” in via di sviluppo.

Verso i 3 anni, poi, il gioco simbolico da prova che questa “Teoria della Mente” sta continuando ad evolversi. Infatti in questo tipo di gioco il bambino mostra la capacità di rappresentare una realtà diversa da quella percepita, proprio come nell’attribuzione all’altro di stati mentali diversi dai dati di fatto.

Secondo Wellman (1994 in Camaioni 2003) il passaggio più rilevante nella comprensione infantile della mente è quello da una precoce comprensione dei desideri, nei bambini di 2 anni (teoria del semplice desiderio), a una più tardiva comprensione di credenze e desideri (complessa teoria credenza-desiderio), che compare nei bambini di 3-4 anni.

Dai 2 anni, infatti, sembra essere presente una concezione secondo la quale le azioni umane sono guidate da desideri: le persone hanno certi comportamenti perché desiderano raggiungere certi scopi. Manca ancora una rappresentazione delle rappresentazioni mentali, cioè dei pensieri e delle credenze sottostanti. La direzione dello sviluppo è nel senso di una progressiva costruzione di una teoria della soggettività che tiene conto anche della mente, cioè delle sue rappresentazioni, come elemento che entra in gioco nel determinare il comportamento umano. In modo lento e graduale, difatti, il bambino arriva a concepire che le intenzioni e le azioni sono determinate, oltre che dai desideri, anche dalle credenze. In un primo momento vengono prese in considerazione solo le credenze vere, poi, un importante cambiamento nella “Teoria della Mente” avviene, intorno ai 4 anni di età, con la comprensione della “falsa credenza”, cioè la capacità di considerare che un’altra persona può avere una credenza, una convinzione da questa ritenuta vera ma che si sa essere falsa, e che dipende dal contesto situazionale proprio dell’altro. Il bambino, inoltre, è in grado di prefigurarsi anche come sarà la credenza errata e quali effetti avrà sul comportamento di quella persona.

Solo a questo punto si può parlare dell’effettiva capacità di rappresentarsi mentalmente le rappresentazioni altrui nei confronti della realtà, cioè di una matura “Teoria della Mente”.

Naturalmente la base su cui tutto ciò si può realizzare è la presenza di una relazione di attaccamento sicuro (certe forme di attaccamento insicuro, in cui il genitore non è attento agli stati mentali del figlio, o i suoi stati della mente sono intrusivi o disorganizzati, possono interferire con la maturazione di una teoria della mente), nella quale il bambino può osservare il mondo mentale del caregiver sensibile e attento. È questo quello che fa il bambino quando il caregiver condivide con lui un momento di gioco, soprattutto secondo la modalità del “far finta”, e nelle situazioni quotidiane (cure fisiche, momenti di conforto) che implicano la condivisione della mentalizzazione (stati mentali intersoggettivi). Naturalmente, egli è in grado di percepire gli stati mentali, nella misura in cui il comportamento del caregiver si riferisce a questi.

 

Neuroni a Specchio e riconoscimento delle intenzioni

Che per sviluppare una “Teoria della Mente”, e soprattutto per avere consapevolezza delle intenzioni, sia fondamentale il coinvolgimento con gli stati mentali altrui (intenzioni in primis) lo conferma la ricerca in ambito neuroscientifico, che afferma l’esistenza di una connessione di natura neuronale che collega il sé e l’altro: i Neuroni Specchio.

I neuroni specchio sono una particolare classe di neuroni visuo-motori, che nell’uomo sono localizzati nella corteccia pre-frontale, nel settore posteriore (area 44 di Broadman) e in un'area anteriore del giro frontale inferiore, nel settore inferiore del giro precentrale, nella corteccia pre-motoria dorsale, nell’area motoria supplementare, nella corteccia del cingolo, nella porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore (area 40 di Broadman), nell’area di Broca e nel cervelletto.

Essi si attivano sia quando si compie una determinata azione, sia quando si osserva un altro individuo compiere un’azione, dimostrando così che il sistema motorio può essere attivato sia in una condizione “on line”, cioè durante l’esecuzione del gesto, sia in una condizione “off line”, ossia durante l’osservazione o l’immaginazione di un atto che rientri nel repertorio motorio del soggetto che osserva.

Inoltre, grazie alla proprietà specchio di tali neuroni, si è in grado di cogliere immediatamente, sin dal primo movimento compiuto, l’intenzione che anima l’azione quando è eseguita da altri (pur dispiegandosi compiutamente solo nell’articolazione dei movimenti successivi, l’intenzione non può non riflettersi nell’atto motorio iniziale), e di prefigurarsi e anticipare sin dalla vista di questi primi movimenti, non solo i possibili atti successivi, ma pure l’esito, lo scopo finale.

Certo, vari indizi sono d’aiuto per dare un senso all’atto motorio osservato e suggerirne l’intenzione, anzitutto il contesto: più univoca è l’informazione offerta dal contesto, più selettiva risulta l’attivazione degli atti motori potenziali pertinenti. Ma anche nel caso in cui, come spesso accade, gli stimoli sensoriali (le azioni osservate) presentano aspetti di ambiguità, l’attivazione di uno o più atti motori potenziali, intenzionalmente concatenati tra di loro, consente di decifrare le intenzioni dell’attore dell’azione e di scegliere quella di volta in volta compatibile con lo scenario osservato, sino a identificare quella più idonea a caratterizzarlo – dove tale decifrazione e tale scelta sono vincolate alla medesima conoscenza motoria che guida e modula l’esecuzione delle stesse catene d’atti da parte propria.

Ovviamente, la risonanza motoria via sistema dei neuroni specchio non rappresenta l’unico modo possibile di comprendere l’agire altrui. Nell’esperienza quotidiana capita di continuo di ascrivere agli altri intenzioni più o meno esplicite: gran parte dei comportamenti sociali dipende dalla capacità di capire quello che gli altri hanno in mente e di regolarsi di conseguenza. Tali processi di natura intellettiva, tuttavia, non esauriscono la sfera delle modalità di comprensione umana, infatti il significato delle intenzioni altrui, come afferma Merleau-Ponty (1945 in Rizzolati, Sinigaglia 2006), “non è dato ma compreso, cioè riafferrato da un atto dell’osservatore. Tuttavia la difficoltà consiste nel concepire opportunamente questo atto e nel non confonderlo con un’operazione conoscitiva. La {…} comprensione dei gesti è resa possibile dalla reciprocità delle mie intenzioni e dei gesti altrui, dei miei gesti e delle intenzioni leggibili nella condotta altrui. Tutto avviene come se l’intenzione dell’altro abitasse il mio corpo o come se le mie intenzioni abitassero il suo”.

L’“atto dell’osservatore” è un atto potenziale, causato dall’attivazione dei neuroni specchio in grado di codificare l’informazione sensoriale in termini motori, e di rendere così possibile quella “reciprocità” di atti e di intenzioni che è alla base dell’immediato riconoscimento da parte nostra del significato dei gesti degli altri. La comprensione delle intenzioni altrui non ha quindi nulla di “teorico”, bensì poggia sull’automatica selezione di quelle strategie d’azione che in base al nostro patrimonio motorio risultano di volta in volta più compatibili con lo scenario osservato.

Non appena vediamo qualcuno compiere un atto o una catena d’atti i suoi movimenti acquistano per noi un significato immediato; naturalmente, vale anche l’inverso: ogni nostra azione assume un significato immediato per chi la osserva. Il possesso del sistema dei neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano così una spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata “operazione conoscitiva”.

Certo, nel corso dell’azione le intenzioni possono cambiare, o può darsi che le nostre prime anticipazioni motorie siano sbagliate (si tende a cogliere l’intenzione più immediata, cioè la strategia più consona al repertorio di base del proprio vocabolario d’atti). Tuttavia, nell’uno come nell’altro caso, il sistema dei neuroni specchio è in grado di monitorare gli atti osservati e di riconfigurare gli atti motori potenziali o le catene attivate, avvalendosi di quella conoscenza motoria che vincola e controlla le nostre stesse strategie d’azione.

 

Spazio delle intenzioni

Con spazio si intende un’entità illimitata e indefinita entro la quale i corpi sensibili sono contenuti e si muovono e nella quale si propagano le interazioni tra i corpi stessi, come la condivisione delle intenzioni.

In tutte le forme di coinvolgimento intenzionale e autentico, ma soprattutto nel gioco e nella presa in giro (concetti che nel loro significato più ampio si sovrappongono), ogni partecipante porta l’altro nelle proprie intenzioni. I genitori per primi, e soprattutto la madre, conducono il bambino dentro le loro intenzioni durante i momenti di gioco e le azioni della routine. Essi evocano e gradualmente gestiscono con sensibilità le reazioni emotive del piccolo al loro agire, ed è attraverso queste reazioni che il bambino coglie l’intenzionalità dei genitori; ne sperimenta l’intenzione grazie al coinvolgimento, non per mezzo dell’imitazione, ma attraverso la sua propria risposta.

I bambini coinvolgono a loro volta i genitori nelle loro intenzioni quando li fanno “entrare” nei loro giochi o esplorano e giocano con le azioni dei genitori, provocandole, a volte, in modo deliberato. Questo può accadere, ovviamente, solo se i genitori interagiscono con il bambino in maniera genuina.

Si può realizzare anche una situazione di compartecipazione delle intenzioni di genitori e bambino. Essa avviene contemporaneamente alla compartecipazione dell’attenzione, ed è rilevabile in molte azioni di richiesta da parte del bambino tramite gesti, sguardi e vocalizzi fra loro coerenti: “questi atti … implicano che il bambino attribuisce all’altro uno stato mentale interno (intenzione), ma allo stesso modo manifesta la sua intenzione e la volontà di soddisfarla. L’inter- intenzionalità è diventata realtà. Ancora una volta non è necessario che vi sia autoconsapevolezza” (Stern 1985 in Berti et al. 2001).

Se si riesce a stabilire queste condizioni la strada per la condivisione di uno “spazio intenzionale” è aperta. Le intenzioni, infatti, hanno bisogno di qualcosa o qualcuno con cui impegnarsi per esistere: emergono solo nel coinvolgimento interattivo, per cui la reciprocità è fondamentale.

All’interno di questa condizione di coinvolgimento diretto, in seconda persona, è possibile percepire le intenzioni altrui in quanto tali per mezzo della percezione/propriocezione emotiva, non attraverso una mera sintesi dell’esperienza in prima persona con la percezione in terza.

 

Cosa fanno i bambini con le intenzioni degli altri

Alcune azioni con le intenzioni degli altri sono comunemente osservabili già durante il primo anno di vita: imitarle, aiutarle, obbedirvi (o meno), individuarvi una rottura e provocarle in modo deliberato.

L’imitazione dell’azione intenzionale. I bambini imitano chiaramente le azioni intenzionali degli altri, non solo tramite le imitazioni semplici del neonato, ma anche attraverso imitazioni diversificate e “selettive”, che compaiono nei mesi successivi. L’imitazione ci dice qualcosa rispetto alla natura e all’estensione della consapevolezza che i piccoli hanno delle intenzioni degli altri. Ci sono buone ragioni per sostenere come non sia possibile imitare ciò che in qualche modo non viene “compreso”.

Sembra che i neonati riconoscano con certezza quando l’azione dell’adulto è diretta nei loro confronti e tendono a rispondervi, anche se non si sa se sia questo a dare inizio all’imitazione o meno.

È probabile che l’imitazione neonatale coinvolga sia un sentimento in prima sia in seconda persona: io so quel che fai perché posso farlo io stesso, e so quel che fai perché mi sento di rispondervi.

Almeno a partire dai due mesi, i bambini sanno differenziare tra le versioni meccaniche e intenzionali della stessa azione, imitando le azioni di un essere umano ma non quelle di un gioco meccanico.

È sorprendente, poi, come i bambini di dodici mesi imitino preferibilmente cose “sensate”. Per esempio, se osservano un adulto spegnere un interruttore con la fronte, ne imitano l’azione solo se non riescono a vedere il motivo per cui è stata messa in atto. Se invece c’è una spiegazione logica (per esempio,

l’adulto sta trasportando qualcosa e quindi non ha le mani libere), i piccoli semplicemente spengono la luce con le mani.

  • Aiutare le intenzioni degli altri. Già a partire dai 3-4 mesi i bambini riescono a cooperare con, a regolarsi su, ad andare incontro alle azioni degli altri a loro rivolte, prima che queste vengano portate a compimento. Il classico esempio è quello dell’essere presi in braccio: se ci si china per prendere un bimbo di quattro mesi, la sua schiena si inarca verso l’alto appena le mani dell’adulto si avvicinano. Quando lo si prende il corpo è già in tensione ed è pronto per essere sollevato. Nell’anticipare l’azione intenzionale prima che questa sia conclusa, il bimbo è in grado di rilevare che l’azione dell’adulto è diretta verso di lui e di riconoscere la forma che questa andrà ad assumere.
  • Obbedire (o meno) alle intenzione altrui. A partire dagli 8-9 mesi i bambini iniziano a sviluppare una particolare sensibilità nei confronti delle intenzioni altrui di controllarli: cominciano ad accondiscendere ai comandi e alle proibizioni. Il dato più significativo è che ora le intenzioni degli altri iniziano a essere colte attraverso le parole o il tono della voce, vengono percepite da una certa distanza fisica, al di fuori cioè del coinvolgimento immediato, e risultano funzionali a controllare le intenzioni e i relativi comportamenti infantili. È chiaro come tali intenzioni non specifichino fino in fondo come debbano essere le azioni del bambino: la madre è solita solo accennare alcune azioni (le svolge a metà e in maniera incompleta), è il bambino a cogliere il resto. La sua capacità di anticipare il completamente dell’azione suggerisce come egli sia consapevole della forma dell’atto incompleto o solo indicativo, della sua direzionalità congiunta verso il sé e l’oggetto, probabilmente del carattere deliberato che esso ha (non è né casuale né si tratta di un riflesso), e soprattutto della complessa aspettativa di cambiamento che vi si associa (l’intenzionalità materna rivolta all’intenzionalità del bambino). È interessante notare come questa consapevolezza sia evidente non solo in condizioni di accondiscendenza, ma anche in quelle di evidente contrarietà.
  • Scoprire le perturbazioni delle azioni intenzionali. I bambini dai 9 mesi sono consapevoli della natura non intenzionale dell’errore dell’altro, della qualità accidentale che può possedere un’azione. Infatti, quando l’azione dell’altro si interrompe inspiegabilmente (per esempio, se mentre si allunga la palla al bambino di colpo la si ritrae) i bambini sollevano gli occhi verso il suo volto, come a cercare l’informazione relativa a ciò che ha provocato quella perturbazione nell’azione.
  • Perturbare le intenzioni degli altri. Sembra che i bambini si divertano nell’introdurre delle perturbazioni nelle interazioni intenzionali. Prima della fine dell’anno di età, infatti, la presa in giro è assai diffusa: azioni di provocazione, non collaborazione, interruzione, con sguardo giocoso o vigile rivolto verso il volto dell’adulto, sono presenti in modo chiaro già in qualche bambino di 8 mesi e nella maggioranza dei bambini di 11. I tipi di presa in giro più comuni sono lo “scherzare con non-collaborazione” e lo “scherzare provocando”. Utilizzati con malizia e con un interesse piuttosto chiaro per le azioni degli altri, questi tipi di scherzo rappresentano una chiara evidenza della consapevolezza e dell’interesse infantile per le intenzioni degli altri, nonché della capacità di coinvolgere l’altro nelle proprie intenzioni. Mostrano, inoltre, che il bambino è consapevole della direzionalità, della forma (per permettere al bambino di anticipare e perturbare) e dello scopo che hanno le azioni altrui. È importante anche il modo in cui i genitori rispondono affinché lo scherzo continui, in quanto l’invito e la successiva sfida delle azioni altrui, che osserviamo nello scherzo, sembrano essere possibili solo se esiste una condizione di autentico coinvolgimento interpersonale e di risposta appropriata: lo scherzo ha bisogno di un partner.

 

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