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Il coinvolgimento della famiglia nel progetto riabilitativo del bambino con danno neurologico: dalla teoria alla pratica

A fronte della ricchezza di sfaccettature che la trasposizione dalla teoria alla pratica del modello FCC può assumere, si delinea una possibile modalità di coinvolgimento della famiglia, in riferimento a quanto viene attuato presso l’U.O.N.P.I.A. dell’A.O. San Gerardo di Monza.

 

In Terapia Intensiva Neonatale

La terapia intensiva neonatale (T.I.N.) costituisce un passaggio obbligato per quasi tutti i bambini con esito di danno neurologico.

In ambiente ospedaliero attorno al bambino ruotano molteplici figure professionali con ruoli differenti (neonatologi, infermieri, neuropsichiatri infantili, terapisti, cui si aggiungono operatori differenti a seconda della patologia del neonato). Il gran numero di operatori coinvolti e la natura estemporanea di alcuni interventi rendono di fondamentale importanza la costituzione di un’equipe multidisciplinare che offra continuità e sostegno adeguato al bambino e alla sua famiglia. Gli interventi rivolti alla coppia genitoriale da parte dell’equipe di neuropsichiatria infantile possono essere di tipologia differente: informativi, abilitanti, di sostegno psicologico.

La comunicazione della diagnosi

Uno dei primi momenti delicati nel percorso della famiglia, in cui è necessario adeguato sostegno psicologico e adeguate capacità comunicative da parte degli operatori, è quello della comunicazione della diagnosi di patologia, cui il neuropsichiatra infantile (NPI) è chiamato in collaborazione con il neonatologo.
Una modalità di comunicazione adeguata è caratterizzata da chiarezza e verità, ma al tempo stesso gradualità [21], le quali non impediranno la sofferenza, ma potranno coadiuvare una reazione di tipo costruttivo e collaborativo, anziché di rassegnazione [22].

La diagnosi oggettivizza e rende definitiva la discrepanza tra il bambino "ideale" che i genitori hanno costruito come oggetto d'amore durante l'attesa e il bambino "imperfetto" che la realtà presenta loro; un bambino che, con la sua patologia, sembra aver deluso i loro progetti e la cui “imperfezione” mette in discussione il loro valore di procreatori. Essi sono colpiti tanto profondamente nel loro senso di identità da generare una ferita narcisistica, accompagnata da vissuti di inadeguatezza, autosvalutazione, disperazione. Si va preparando un iter psicologico che passa obbligatoriamente per una successiva fase di natura depressiva.

La nascita di un bambino con disabilità è quindi causa di un trauma importante, la cui entità varia non solo in relazione alla gravità oggettiva dell’evento, ma anche in relazione all’impatto psichico soggettivo. Le famiglie differiscono tra loro per le modalità con cui fronteggiano un evento traumatico e anche il singolo nucleo, in questo percorso, non rimane uguale a se stesso [23]. Tali modalità sono influenzate dalle capacità di coping e dalla resilienza della famiglia.

Il termine coping, che può essere tradotto con “fronteggiamento” - “gestione attiva” - “risposta efficace” - “capacità di risolvere i problemi”, indica l’insieme di strategie mentali e comportamentali che sono messe in atto per fronteggiare una situazione stressante. Il coping include sia l’abilità di elaborazione e di attuazione di strategie per la risoluzione dei problemi, che la capacità di gestione delle proprie emozioni e dello stress. Tali capacità sono variabili sia da individuo ad individuo, che nella storia di un medesimo individuo, e possono entrambe essere potenziate.

Nella letteratura psicologica il termine resilienza indica la capacità umana di affrontare, superare e uscire rinforzati da esperienze negative [24], ed è strettamente legata alle capacità di coping di un individuo. La resilienza a situazioni avversative sembra dipendere da una combinazione, cumulativa e interattiva, di fattori di rischio e fattori protettivi genetici, personali (es. le interazioni familiari) e ambientali (es. i sistemi di supporto sociale) [25]. Non si parla comunque di assoluta o generale invulnerabilità, in quanto la resilienza non è mai acquisita una volta per tutte, ma varia a seconda delle circostanze (natura del trauma, contesto, stadio di vita) e si può esprimere in modo differente secondo le diverse culture [26].

Il ricovero in terapia intensiva si può distinguere in due fasi in cui le priorità del bambino variano: fase acuta e post-acuta.

Fase acuta

In una prima fase, coincidente largamente con la fase acuta, la possibilità di scelta da parte della famiglia sugli interventi da effettuare è molto limitata. Risulta però importante, fin da subito, il sostegno psicologico offerto dal NPI alla coppia genitoriale, per promuoverne le strategie di coping e per porre le basi per il processo di elaborazione del lutto. Ad esso si associano interventi informativi, organizzati in spazi, tempi e con modalità adeguate per ogni specifica coppia genitoriale. Risulta fondamentale, già in questa prima fase, negoziare in che modo e in quali attività i genitori possono essere partecipi, al fine di contrastare i sentimenti di inadeguatezza ed inutilità che spesso affliggono la coppia genitoriale di fronte alla precarietà delle condizioni cliniche del proprio bambino, nonché al fine di incentivare fin da subito un’attitudine alla collaborazione con gli operatori.

Fase post-acuta

Nella fase post-acuta, con il raggiungimento di una maggiore stabilità delle funzioni neurovegetative, diviene sempre più necessario sostenere l’abilitazione dei genitori nel potersi prendere cura del proprio bambino. L’organizzazione delle prime funzioni vitali permette ai genitori di iniziare ad intravedere un percorso davanti a sé e al piccolo.

La figura del terapista in T.I.N. è significativa soprattutto in questa seconda fase, per interventi precoci rivolti a promuovere lo sviluppo neurocomportamentale del bambino e a sostenere le competenze di handling ed holding dei genitori. Secondo il modello dell’IDC (Individualized Developmental Care), attraverso osservazioni del neonato condivise con i genitori il terapista attua interventi di care posturale e sensoriale ed elabora strategie individualizzate per la promozione del legame genitori-bambino e per l’accudimento del piccolo da parte dei genitori e degli infermieri.

Si evidenzia la peculiarità della figura del terapista nell’ambito del reparto di cure intensive, chiamato a co-costruire, in collaborazione con i portatori di cure (genitori ed infermieri), un progetto di tipo abilitativo da attuarsi con continuità, anche in sua assenza, che possa influenzare positivamente il modo dell’ambiente di stare con il bambinoe di gestirne le attività routinarie, al fine di sostenerne lo sviluppo neurocomportamentale. Tale progetto diviene di tipo riabilitativo qualora il danno al SNC è certo e il rischio di patologia neurologica elevato.

Il terapista ha inoltre l’importante compito di organizzare in modo ottimale il rientro a casa del bambino patologico e di facilitare la transizione ospedale-casa-servizio di riabilitazione territoriale. In questa direzione l’incontro della famiglia con gli operatori territoriali prima della dimissione dal reparto, in presenza del terapista ospedaliero, deve essere considerata la modalità di eccellenza.

 

La presa in carico ambulatoriale

La dimissione del bambino costituisce un momento spesso a lungo desiderato ma anche molto delicato, perché i genitori perdono la rete quotidiana di sostegno, aiuto, rassicurazioni che hanno trovato in T.I.N..

È fondamentale pertanto curare la transizione dal ricovero in T.I.N. alla presa in carico ambulatoriale, per creare le premesse per un percorso riabilitativo favorevole, tramite il passaggio di informazioni e, se possibile, l’organizzazione di un’occasione di incontro tra gli operatori ospedalieri e gli operatori territoriali che si occuperanno del bambino. Ciò permette ai genitori di sentirsi maggiormente sostenuti e assicura una maggiore continuità per il piccolo.

La presa in carico riabilitativa rappresenta idealmente un luogo di pensiero, uno spazio di ascolto e di contenimento, un momento di supporto e di sostegno, dove possano essere accolti e considerati i molti problemi sofferti dal bambino con danno neurologico e dalla sua famiglia e dove possano essere individuati e proposti gli interventi più idonei. Essa costituisce l’elemento di continuità dell’intero progetto riabilitativo, poiché lo accompagna longitudinalmente dal momento dell’accoglienza e della stipula del contratto terapeutico alla restituzione finale, e lo attraversa diametralmente interessandosi del soggetto, del suo nucleo famigliare, del contesto sociale e del possibile ambiente fisico di vita.

Compito del SNC è quello di costruire funzioni adattive, che rappresentano la componente operativa deputata all’interazione con l’ambiente. Anche il SNC del bambino con danno neurologico non viene meno al proprio compito, ma le funzioni non potranno risultare “virtualmente normali” per la presenza della lesione e delle sue conseguenze. Obiettivo del trattamento riabilitativo non è quello di normalizzazione gli schemi del bambino, quanto quello di offrire sostegno, facilitazione, guida, perché il bambino riesca ad affrontare i propri appuntamenti di sviluppo, perché riesca ad adattare il più possibile la funzione patologica nei confronti del problema da risolvere, del desiderio da realizzare, per una maggiore efficienza della funzione nei confronti del risultato da raggiungere. L’intervento del terapista può essere definito come una “perturbazione strategicamente orientata”, che sarà maggiormente adeguata nella misura in cui andrà ad inserirsi nell’autorganizzazione spontanea del sistema complesso “bambino”, rispettandone la coerenza interna.

Al di là di ogni intervento specialistico, ciò che però garantisce la continuità e il successo degli interventi è la famiglia e la qualità della sua relazione con il bambino. “Il cambiamento possibile ipotizzabile è il risultato di una partita tra l’organismo e l’ambiente; non può riguardare il bambino isolato dal suo contesto, ma l’intero ecosistema familiare e sociale del quale egli fa parte: è il prodotto di un percorso interattivo non noto a priori, piuttosto che l’effetto lineare di una causa che lo ha prodotto.” [27]

La patologia del piccolo costituisce un elemento potenzialmente disturbante nelle interazioni genitori-figlio sia perché richiede modalità differenti di relazione spesso non immediate e spontanee, sia perché delude aspettative preesistenti. I genitori nella maggior parte dei casi non sono preparati ad accogliere un figlio con problemi e la loro capacità di diventare “ambiente sufficientemente buono” per quel bambino è messa a dura prova. Creare intorno al figlio un “ambiente facilitante” comporta, soprattutto inizialmente, delle trasformazioni del proprio modo di essere, di parlare, di comunicare, di muoversi molto più complesse e profonde rispetto a quelle normalmente richieste ad una madre per costruire un legame con il figlio. È fondamentale che i genitori siano sostenuti ed aiutati nel tentativo di capire il bambino, di rendersi conto dei suoi bisogni e di strutturare con lui un modello di interazione adattiva.

In riferimento a quanto esposto, il percorso terapeutico deve quindi avvenire in un contesto specifico, significativo, evolutivo, creato e pensato non solo per quel bambino, ma per quello specifico sistema famiglia. Il coinvolgimento dei genitori risulta fondamentale, sono inoltre possibili sedute in un contesto più allargato, in presenza di altre figure significative per il bambino (nonni, fratelli,…), che usualmente fanno parte del suo ambiente di vita e che sono partecipi del suo percorso di crescita. La creazione in stanza di terapia di un contesto ecologico di spontanea interazione tra il bambino e le figure significative permette di far emergere elementi importanti che possono indirizzare le scelte terapeutiche. 

Nel tempo della seduta, vi è spazio per i genitori e per gli altri membri della famiglia eventualmente presenti per un’osservazione partecipata ed interattiva e uno scambio con il terapista. Periodicamente vi saranno sedute in presenza del medico neuropsichiatra infantile di riferimento che svolgerà un intervento di sintesi, rimandando i progressi ed offrendo un possibile quadro prognostico. Al di fuori della seduta sarà dato spazio, in modi e tempi flessibili, alla rielaborazione di ciò che è stato proposto e di ciò che è stato osservato nel contesto riabilitativo; ciò potrà collocarsi in un tempo limitato a fine seduta in presenza del solo terapista, oppure in ambito separato assieme al medico NPI.

In alcune situazioni può rivelarsi utile o necessaria una presa in carico vera e propria della coppia genitoriale, con interventi di tipologia e livello differente in relazione alle esigenze. Il percorso può essere avviato su richiesta dei genitori, altre volte su proposta del servizio; può trattarsi di sedute di sostegno psicologico a cadenza più o meno frequente, counselling, creazione di gruppi di auto-aiuto.

Il counselling è un intervento volto ad aiutare a comprendere, riflettere, valutare la situazione, per poter agire consapevolmente. Nella presa in carico della coppia genitoriale è fondamentale un’adeguata accoglienza, abilità nell'ascolto attivo della comunicazione verbale e non verbale, capacità di rimando dei vissuti emotivi, chiarezza nell’espressione.

Il sostegno psicologico e gli interventi di counselling si pongono fin da subito come strumenti validi per promuovere l’elaborazione del lutto e l’organizzazione di modalità adattive per far fronte alle difficoltà che la patologia comporta. Il cammino di accettazione della patologia non è infatti facile e rischia di cronicizzarsi nel continuo confronto con gli altri bambini, che costituiscono lo “specchio” che ricorda il bambino sognato e ne sottolinea la distanza dalla realtà.

Una coppia genitoriale che riesca a fidarsi ed affidarsi agli operatori, ad esprimere i propri sentimenti negativi e i vissuti traumatici, che sia in grado di chiedere aiuto e ricerchi attivamente informazioni sta mettendo in atto modalità adattive che potranno facilitare l’elaborazione del lutto.

Di fronte alla fisiologica reazione depressiva vi può essere, al contrario, la tendenza al diniego delle emozioni negative per evitare la sofferenza, oppure la proiezione delle emozioni con ricerca di un capro espiatorio esterno per far fronte ai propri sensi di colpa. Qualora non si riesca assolutamente a tollerare l’esistenza della patologia, si può peregrinare da un centro all’altro, in un atteggiamento di fuga dalla realtà, nella speranza di una miracolosa negazione della diagnosi.

Gli stili reattivi adottati dalla famiglia dipendono da molteplici fattori, quali la resilienza familiare, la rete sociale in cui la famiglia è inserita, la qualità del sostegno offerto dagli operatori, ma anche l’emergere di nuove competenze nel bambino che possono sostenere e incentivare nella coppia genitoriale la speranza.

“É importante in questa prima fase rassicurare i genitori senza illuderli, ma aiutarli a valutare il bambino per quello che è, restituendo ai genitori il proprio bambino come bambino e non solo come "problema", il bambino "sognato" anche se con qualche limite, e a vivere i processi di recupero appoggiandosi alla speranza.” [28] A tal fine, oltre al sostegno psicologico offerto alla famiglia, risulta fondamentale che il primo progetto riabilitativo punti ad obiettivi realistici e condivisi, in una prospettiva prognostica a breve termine che assista la famiglia nella fase di assorbimento dallo shock della diagnosi e di elaborazione del lutto, preparandola a riorganizzarsi.

I gruppi di auto-aiuto favoriscono invece la conoscenza con altre famiglie che vivono la stessa esperienza o che hanno già fatto lo stesso percorso e possono essere di grande sostegno per chi si confronta per la prima volta con una situazione nuova. Attraverso l’esperienza quotidiana, i genitori sviluppano conoscenze e competenze in molteplici aree; condividendo tali conoscenze essi possono sostenere altre famiglie che stanno affrontando problemi simili. Ciò è significativo all’interno di un servizio centrato sulla famiglia in quanto sottolinea come le famiglie siano le esperte dei loro bambini e della loro situazione. I genitori stessi affermano che tale processo fornisce opportunità di ricevere sostegno emotivo e di sviluppare conoscenze e capacità [29]. Essi hanno anche sottolineato che tale supporto offre un “senso di appartenenza” [30] e riduce l’isolamento [31].

La riabilitazione è pertanto un “processo complesso teso a promuovere nel bambino e nella sua famiglia la migliore qualità di vita possibile. Con azioni dirette e indirette si interessa dell’individuo nella sua globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale (carattere olistico), coinvolgendo il suo contesto famigliare, sociale e ambientale (carattere ecologico)” [32]

Alla base del percorso terapeutico vi è l’individuazione progressiva di obiettivi specifici, condivisi dalla famiglia in un’ottica di alleanza terapeutica. Gli obiettivi saranno con il tempo modificati, in relazione allo sviluppo del bambino, sulla base dell’osservazione e valutazione del piccolo e dell’emergere di nuovi bisogni, per aiutarlo ad affrontare gli appuntamenti dello sviluppo.

Il coinvolgimento della famiglia assicura continuità con l’ambiente di vita e comporta nella famiglia stessa un’attitudine ad osservare e modificarsi. Inoltre, anche se con strategie differenti ed adattate allo specifico nucleo familiare, risulta in ogni caso molto importante sostenere la possibilità che si crei una rete attorno alla famiglia, in quanto essa è chiamata ad un importante e difficile processo di riorganizzazione attraverso conflitti, delusioni, paure, aspettative e rischia di essere lasciata da sola ad affrontarlo.

 


  • [20] Andrews K., 1991
  • [21] Harris, 1987; Pain, 1999
  • [22] Zanobini, Manetti, Usai, 2002
  • [23] Zanobini, 1998
  • [24] Grotberg, 1995
  • [25] Rutter, 1999
  • [26] Manciaux, Vanistendael, Lecomte & Cyrulnik, 2005
  • [27] Pierro, 1990, 1993
  • [28]www.palazzochigi.org/bioetica, 2006
  • [29] Ainbinder et al., 1998; Law et al.,2001; MacAulay, 1999; Singer et al., 1999
  • [30] Law et al., 2001, p.30
  • [31] Ainbinder et al., 1998
  • [32] GIPCI, Manifesto per la riabilitazione del bambino, 2000

 

Indice

 
INTRODUZIONE
 
  1. Il modello della Family Centered Care - I principi cardine; La famiglia; L’evoluzione del concetto di FCC nel contesto ospedaliero; L’evoluzione del concetto di FCC nel contesto della riabilitazione pediatrica.
  2. Il coinvolgimento della famiglia nel progetto riabilitativo del bambino con danno neurologico: dalla teoria alla pratica - In Terapia Intensiva Neonatale, La comunicazione della diagnosi, Fase acuta, Fase post-acuta; La presa in carico ambulatoriale.
  3. Materiali e metodi - Coinvolgimento della famiglia nel Progetto Riabilitativo del bambino con danno neurologico - In Terapia Intensiva Neonatale: valutazione comportamentale di Brazelton e di Als; In ambulatorio, International Classification of Functioning, Disability and Health, Protocollo di videoregistrazione del bambino con PCI in età prescolare.
  4. Caso clinico - Coinvolgimento della famiglia nel Progetto Riabilitativo del bambino con danno neurologico - Introduzione; La paralisi cerebrale infantile, Area Motoria, Area Cognitiva, Area Psichica ed Emotivo-Relazionale; Anamnesi; Esami strumentali; Il percorso terapeutico, La famiglia di Simona, Ricovero in T.I.N. – 37- 42 sett. e.g., 1- 3 mesi – Presa in carico ambulatoriale, 3-6 mesi, 6-9 mesi, 9-12 mesi, 12-16 mesi. 
 

CONCLUSIONI

 
BIBLIOGRAFIA - SITOGRAFIA 
 
Tesi di Laurea di: Irene DE MARIA 

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