Il gioco

IL GIOCO DELLE COSTRUZIONI

Il ruolo del gioco nello sviluppo infantile

Negli anni, diversi autori hanno parlato del gioco, descrivendone il ruolo all’interno dello sviluppo infantile. Vygotskij3 afferma che il bambino, nel gioco, mette in pratica i suoi desideri progredendo, stimolandone l’azione. Mettendo in atto comportamenti al di sopra del proprio livello, si viene a creare una zona di sviluppo prossimale. In quest’ottica, il gioco può essere considerato un’attività che porta allo sviluppo. Immaginazione, interpretazione e volontà sono i processi interni portati all’azione esterna. Lo scopo, come fine ultimo, determina l’atteggiamento affettivo del bambino verso il gioco, giustificando così l’attività.

Ricollegandoci alle teorie di Winnicott, il bambino alla nascita si trova in uno stato di “illusione condivisa”4 in cui è lui stesso ha creare la realtà che lo circonda, in assenza di frustrazione. Solo successivamente, la madre sufficientemente buona crea momenti di disillusione, che aumentano progressivamente di durata in relazione alla crescente capacità adattiva del figlio. Il bambino si trova così a dover affrontare momenti di attesa e frustrazione prima che il bisogno venga appagato. Questi momenti di frustrazione, percepiti dal bambino come assenza di soddisfazione, promuovono, per colmare questo vuoto e sopportarlo per tempi sempre più lunghi, l’instaurarsi di comportamenti d’attesa (pensieri, giochi, fantasie) che permettono al bambino di “giocare” con la realtà e di tollerare così la mancata soddisfazione del bisogno (manipolazione giocosa). Per esempio, in attesa di essere nutrito dal seno della madre (elemento reale), il bambino può giocare con il proprio dito (elemento fantastico) portandoselo alla bocca per succhiarlo. Il giocare riveste ruolo fondamentale sia nella relazione con la realtà, sia nella funzione immaginativa, fungendo da ponte fra le due.

La relazione giocosa fornisce al bambino la possibilità di immaginare e cambiare l’oggetto secondo modalità soggettive, la realistica fornisce la condizione di sperimentare sentimenti di dipendenza nei confronti della realtà. Quando la manipolazione giocosa viene a mancare, come nei casi di patologia, il bambino rimane annientato dalla frustrazione, senza poter sperare in una soddisfazione futura. Questo continuo processo induce il bambino, mentre gioca, alla scoperta dell’oggetto, ristabilendo le proporzioni reali di sé e del mondo esterno in una oscillazione tra gioco e realtà.

Piaget afferma che ogni tappa dello sviluppo costituisce una forma specifica di equilibrio. É fondamentale, per poter evolvere alla tappa successiva, possedere la percezione del bisogno, al quale il bambino risponde attivandosi attraverso pensieri e sentimenti, azioni, movimenti. Affinché il bisogno emerga, è necessario che l’ambiente sia capace di adattarsi sempre meno alle necessità del bambino per permettergli di percepire il vuoto e, di conseguenza, il desiderio di colmarlo. È in questi momenti di vuoto che il bambino metterà in atto azioni di adattamento che si concluderanno solo nel momento in cui otterrà la soddisfazione del bisogno e il ristabilirsi dello stato di equilibrio. Ogni nuova condotta determina la conquista di un equilibrio più stabile e più evoluto del precedente. Di fronte al bisogno si assiste al processo assimilazione-accomodamento5. Ogni bisogno porta il bambino ad assimilare la realtà esterna, ossia ad assorbire le diverse esperienze in schemi mentali che già possiede, senza che, avvengano modificazione. I nuovi oggetti e le nuove situazioni sono integrati sulla base di esperienze già vissute dal bambino e codificati in schemi d’azione già esistenti. La sola assimilazione però non è sufficiente affinché avvenga un’evoluzione di fronte ad elementi mai incontrati. Un ruolo indispensabile è svolto dal processo di accomodamento, che permette che i nuovi dati dell’esperienza vengano integrati in schemi già posseduti, modificandoli e adattandoli ai nuovi aspetti che la realtà mostra. L’accomodamento, arricchisce lo schema d’azione, rendendolo più flessibile e universale, permettendo un rapporto più aderente alla realtà e più capace di entrare in relazione con essa. Assimilazione e accomodamento, si influenzano reciprocamente nel processo di autoregolazione chiamato equilibrazione maggiorativa, processo che permette il passaggio tra gli equilibri interni qualitativamente differenti, attraverso diversi disequilibri. Il termine maggiorativo indica, attraverso questi passaggi, la conquista dell'equilibrio nuovo, migliore rispetto al precedente, con il conseguimento del progressivo adattamento funzionale nei confronti dell’ambiente. Secondo Piaget, il gioco riveste un ruolo fondamentale soprattutto nel processo di assimilazione. Il bambino attraverso questa attività incorpora l’oggetto nuovo in schemi che già possiede, allo scopo di esercitare questi ultimi senza modificarli. Dopo aver percepito la frustrazione per tollerarla maggiormente, il bambino mette in atto comportamenti con cui adatta e modifica la realtà in base ai propri bisogni ed agli schemi posseduti. Il gioco svolge la funzione di fenomeno transizionale tra frustrazione e adattamento, tra relazioni narcisistiche e relazioni oggettuali, tra ciò che è percepito soggettivamente e ciò che è percepito oggettivamente. 

Appare evidente l’importanza del gioco all’interno dell’intero processo evolutivo infantile.

 

Il gioco in Terapia Neuropsicomotoria

L’attività di gioco avviene in uno spazio intermedio tra fantasia e realtà. All’interno di questo spazio il bambino può, controllando e modificando la realtà, fare propri gli oggetti esterni. Nel gioco, grazie alla creatività, il bambino modifica la real tà in forma soggettiva. Questo allontanamento dal mondo esterno gli permette di mettere in atto e creare soluzioni alternative ottenendo risultati. Il bambino attraverso il gioco riesce, a piccole dosi, a dominare la realtà.

Molto spesso alla domanda “Cosa fanno i bambini in terapia neuropsicomotoria?” si ha come risposta “Non fanno niente, giocano”. Il gioco, in neuropsicomotricità è lo strumento elettivo sia in ambito valutativo/osservativo che in ambito terapeutico. Il terapista utilizza il gioco spontaneo del bambino come strumento con lo scopo di sostenere lo sviluppo evolutivo del bambino potenziandone le capacità (motorie, prassiche, psichiche, cognitive, sociali, etc). Utilizzandolo come approccio metodologico, è possibile raggiungere gli obiettivi del progetto terapeutico individualizzato. Il terapista attribuisce senso al giocare del bambino, dimostrandosi suo partner simbolico, restituendogli la sua immagine mentre gioca. La relazione terapista-paziente facilita e determina l’attività di gioco, che può essere considerato tale se è relazione con sé, gli altri e il mondo.

Qualora il gioco del bambino non fosse possibile, il terapista dovrà adattarsi e mettere il bambino nelle condizioni di giocare, facilitando e sostenendo le sue abilità. E' necessario ed indispensabile predisporre setting terapeutico e contesto ambientale privilegiati ed unici, favorendo i suoi interessi e bisogni. Il gioco dovrà essere adeguato alle capacità intellettive, relazionali e motorie del bambino. Ai fini dello sviluppo è importante motivarlo al piacere del gioco. “L’intervento riabilitativo in età evolutiva agisce sul ripristino della capacità creativa e rappresentativa, sul piacere e sull’intenzionalità del movimento, che restituisce al bambino l’idea di una padronanza del proprio corpo e della propria motricità; è una terapia globale perché, se il corpo rappresenta la totalità della persona nella sua unità psicosomatica e se il movimento è all’origine ed è l’espressione esteriore dell’intera personalità, allora l’esercizio terapeutico può essere pensato solo in una dimensione di totalità e unità”6. Il terapista utilizza il gioco per permettere al bambino di affrontare le proprie angosce, di scoprire i propri desideri e le proprie fantasie, per sostenerlo nel percepire il proprio limite, sperimentando livelli di frustrazione tollerabili.

Si può quindi riprendere quanto detto da Winnicott, ovvero che il gioco stesso è una forma di terapia, definendolo come “auto guarigione”: “È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il Sé” 7.

 

Tipologie di gioco

Lo sviluppo del bambino è legato in modo intrinseco allo sviluppo del gioco. Piaget afferma che esistono tre grandi tipi di strutture che caratterizzano altrettante macro classi di gioco: l’esercizio, il simbolo e la regola 8.

Nella prima categoria rientrano i giochi di esercizio, ovvero le attività che non necessitano di una tecnica particolare: sono semplici esercizi che mettono in atto condotte con il solo fine di trarne piacere. Queste attività esercitano le strutture cognitive sottostanti senza però comportarne alcuna modifica: solo la funzione differenzia questi giochi. Sono i primi che compaiono e caratterizzano i primi due anni di vita, sono riscontrabili nel corso dell’intero sviluppo, ogni qualvolta viene acquisita una nuova abilità nelle fasi iniziali di sperimentazione. Inizialmente gli esercizi verranno effettuati per il semplice piacere di esercitare il proprio potere, di creare nuove combinazioni. Successivamente invece le condotte si uniranno realizzando combinazioni propriamente dette. Il gioco di esercizio si trasforma così in gioco simbolico, se accompagnato da immaginazione rappresentativa, e in gioco di regole, se lo si socializza.

I giochi simbolici compaiono intorno ai 2 anni. Il momento in cui il bambino ripete lo schema sensorio-motorio al di fuori del suo contesto e del suo obiettivo rappresenta il passaggio dal gioco di esercizio a quello simbolico ed è associato allo sviluppo cognitivo. Inizialmente viene messo in atto uno schema già appartenente al bambino ma in situazioni differenti dal solito, senza però integrare gli oggetti tra loro e attribuire le attività degli uni come se fossero eseguite da altri. Dopo che il bambino avrà ripetuto lo schema simbolico su se stesso, lo proietterà su di altri in quanto divenuto per lui ormai familiare. Il bambino non farà più finta di dormire o di mangiare, ma farà dormire o darà da mangiare alla bambola, attribuendo così all’oggetto le proprie azioni e generalizzando le condotte. Solo successivamente il bambino sarà in grado di riprodurre tramite imitazione schemi che inizialmente non gli erano propri. L’imitazione non sarà pura, ma subordinata all’assimilazione ludica, dal momento che il bambino non si limiterà a copiare l’altro rimanendo se stesso, ma lo interiorizzerà trasformando così l’imitazione in un gioco a tutti gli effetti. Tramite questo processo di assimilazione ludica e imitazione, intorno ai 3-4 anni d’età, raggiungerà l’apice ed inizierà ad utilizzare oggetti al di fuori del loro contesto conferendo loro valenza simbolica: un bastone potrà essere utilizzato come cavallo, una conchiglia come tazza. A differenza della categoria precedente, che non presupponeva il pensiero, nel gioco simbolico è necessaria la capacità di rappresentazione di un oggetto assente. Il bambino utilizzando il simbolo, riuscirà ad evocare, all’interno dell’attività ludica, la sua vita affettiva. Questa tipologia di gioco è riscontrabile fino agli 11-12 anni e si modifica nel tempo. Nelle ultime fasi, intorno ai 4-5 anni, l’imitazione, che contraddistingue questo periodo, riacquisterà maggiori caratteristiche appartenenti al reale. L’evoluzione è caratterizzata dal progressivo declino del simbolismo a vantaggio dei giochi di regole o delle costruzione simboliche, dei lavori manuali, dei disegni, che segnano lo sbocco finale del simbolismo ludico.

L’ultima classe descritta da Piaget è quella dei giochi di regole che si costituisce intorno ai 4 anni e si evolve per tutta la vita, questo perché “il gioco di regole è l’attività ludica dell’essere socializzato”9. Sono giochi in cui vengono effettuate combinazioni di attività senso-motorie e più simboliche, in cui è presente competizione tra più partecipanti, regolata da accordi momentanei o regole trasmesse dalle generazioni precedenti.

Riassumendo, i giochi di esercizio compaiono per primi perché fondamentali nel processo di acquisizione di competenze, che diminuisce con l’età fino a quasi scomparire, ad eccezione di casi particolari in età più avanzata (come per esempio imparare a guidare etc). Anche il gioco simbolico successivamente tende ad esaurirsi perché il bambino, crescendo, non necessita più di evadere dalla realtà per poterla affrontare, ma sottomette il simbolo al reale. Gli unici che proseguono e si sviluppano quindi per tutta la vita sono i giochi di regole.

 

Le caratteristiche del gioco del bambino con PCI

“L’osservazione del bambino mostra che il gioco nasce là dove sono presenti abilità (…). Le abilità si riferiscono sia agli strumenti che permettono l’accesso alla realtà (motori, simbolici, linguistici), sia alla manipolazione della realtà. Senza abilità non vi è gioco e la patologia infantile ne è un’ulteriore conferma”10.

“La PCI descrive un gruppo di disordini permanenti dello sviluppo del movimento e della postura, che causano una limitazione dell’attività e che sono da attribuirsi a disturbi non progressivi verificatisi nel cervello fetale e infantile nel corso dello sviluppo. I disordini motori della Paralisi cerebrale sono spesso accompagnati da disturbi della sensibilità, della percezione, dell’intelligenza, della comunicazione, del comportamento, da epilessia e da problemi muscolo-scheletrici secondari” (Rosenbaum et al. 2007).

Appare evidente come l’attività ludica nel bambino affetto da PCI risulti compromessa a causa delle innumerevoli problematiche, primarie e secondarie, che la patologia comporta. Il gioco manifesta la scarsa motivazione dovuta all’incapacità di trarre piacere dall’attività stessa, alle difficoltà cognitive e alla povertà/compromissione degli schemi motori del bambino. In questo modo le difficoltà intrinseche della patologia andranno a impoverire il gioco stesso in un circolo vizioso, con caratteristiche quali povertà, rigidità, ripetitività.

L’area ludica in questi bambini può svilupparsi solo grazie all’adulto che fornisce una realtà illusoria. La povertà del gioco del bambino con PCI viene percepita fin nelle prime fasi di sviluppo anche dai genitori, i quali si preoccupano per il bisogno del proprio figlio, andando così a compromettere la spontaneità e il piacere tipici del gioco: più i genitori si preoccupano, più verrà meno il rapporto ludico con il bambino, più l’attività si impoverirà. In questo modo si impoverisce il rapporto ludico e con esso l’investimento libidico (Ferrari). Di conseguenza il bambino avrà difficoltà a giocare con le figure di riferimento nell’ambiente familiare, mettendo in evidenza la difficoltà del genitore nel fornire il giusto aiuto al proprio figlio. Questa difficoltà verrà riscontrata prima con i siblings e successivamente con i coetanei: il piccolo paziente non potrà effettuare le medesime attività con loro e di conseguenza il piacere dell’agire verrà meno, mettendo ulteriormente il bambino in difficoltà anche in ambito relazionale e sociale.

Il gioco, in terapia, come esercizio terapeutico, appare lo strumento elettivo per poter sviluppare al meglio le capacità adattive del bambino stimolandone il piacere e la propositività, senza i quali qualsiasi intervento risulterebbe superfluo.

Applicando rigidamente metodi/tecniche riabilitativi, senza predisporre un setting adeguato allo sviluppo e agli interessi del bambino, questi potrebbe vivere l’esperienza della terapia in modo negativo portando così ad atteggiamento rinunciatario e oppositivo. “Curare il male nell’individuo e non l’individuo col suo male è il modo più facile per mascherare il proprio rifiuto verso il bambino e la sua paralisi”.11 Il ruolo del terapista è quello di guidare, tramite la relazione, il paziente, partendo dalla sua spontaneità e condivisione, nel raggiungimento degli obiettivi del progetto terapeutico utilizzando giochi e strumenti ludici atti a esercitare le funzioni adattive. Ferrari definisce l’esercizio terapeutico come esperienza significativa guidata (Ferrari 1997), elevando in questo modo il ruolo di terapista che diventa terapeuta e lo strumento riabilitativo che diventa il gioco.

L’attività ludica è un’esperienza nella quale il bambino attua conoscenza diretta adattandosi alle richieste ambientali e utilizzando nel modo più consono gli strumenti disponibili. È significativa perché, elemento chiave dell’intervento neuropsicomotorio, è stimolare l’attenzione e l’interesse del paziente, promuoverne la condivisione emotiva e l’appagamento finale, in modo da lasciare traccia all’interno del bambino. É guidata dal terapista nel facilitare il paziente nel trovare la strategia adatta alle sue capacità e potenzialità.

 


  • 3 Vygotskij L. S., Il processo cognitivo, Boringhieri, Torino, 1987
  • 4 Winnicott D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Ed. Armando, Roma, 1970
  • 5 Piaget J., Lo sviluppo mentale del bambino, Ed. Einaudi, Torino, 1975
  • 6 Broggi F. e Scollo O., Il setting riabilitativo e il corpo del terapista come strumento d’interazione con il bambino in Fondamenti di riabilitazione in età evolutiva, Carocci editore, Roma, 2009
  • 7 Winnicott D. W., Gioco e realtà, Armando editore, Roma, 1974
  • 8 Piaget J., La formazione a del simbolo nel bambino, Ed. La nuova Italia, Firenze, 1972
  • 9 Piaget J., La formazione a del simbolo nel bambino, Ed. La nuova Italia, Firenze, 1972
  • 10 Ambrosini C., Il gioco in terapia neuropsicomotoria in Manuale di terapia psicomotoria dell’età evolutiva, Napoli, 2008

 

Indice
 
 
INTRODUZIONE
 
  1. PARTE PRIMA: INQUADRAMENTO TEORICO
  2. PARTE SECONDA: Progettazione ed attuazione dello studio: Scopo dello studio; materiali e metodi; campione; presentazione caso clinico; strumenti; disegno dello studio; risultati; risultati del campione gruppo controllo; risultato caso clinico; discussione; obiettivi e limiti
 
CONCLUSIONI
 
BIBLIOGRAFIA - ALLEGATI
 
Tesi di Laurea di: Filippo CATTANEO
 

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