LA CLINICA TRANSCULTURALE, TRA STORIA E TEORIE

INDICE PRINCIPALE

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Georges Devereux e la nascita dell’etnopsichiatria

La clinica transculturale, in origine etnopsichiatria, deve la sua formazione, all’antropologo, psicoanalista, sociologo ed ellenista Georges Devereux. Infatti, seppur gli approfondimenti teorici condotti da Freud e Roheim, a partire rispettivamente dal 1912 e dal 1950, hanno permesso di definire i contorni della disciplina, Devereux resta il vero e unico fondatore della teoria etnopsichiatrica. Adotta per la prima volta il termine etnopsichiatria nel 1946, attribuendone la paternità a Louis Mars, psichiatra e diplomatico Haitiano impegnato nello sviluppo dell’etnoscienze dei popoli nativi. In precedenza Georges circoscrisse il proprio campo di ricerca con la definizione di Psichiatria transculturale, successivamente per opporsi ai colleghi americani che utilizzavano la sua prima definizione in modo improprio, negandogli la soddisfazione di esserne l’inventore, impiegò il termine etnopsichiatria. Talvolta per denominare la disciplina l’autore utilizza espressioni alternative quali antropologia psicoanalitica, etnopsicoanalisi, etnopsicopatologia, psichiatria interculturale, psichiatria metaculturale e psicopatologia culturale. L’etnopsichiatria, frutto di studi pluridecennali iniziati negli anni Trenta negli Stati Uniti da parte di Devereux ed intesa nell’accezione generale del vocabolo come disciplina che studia le malattie mentali nei diversi gruppi etnici e nelle diverse culture, considerando l’importanza dei fattori socioculturali, rappresenta una scienza interdisciplinare ed autonoma. Riconosciuta in Europa, soltanto tra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, come scienza umana, nasce con lo scopo di confrontare e coordinare le nozioni chiave dell’antropologia e della psichiatria, per cui il concetto di cultura e la coppia concettuale “normalità-anormalità”. Entrando maggiormente nel particolare rispetto il lavoro di Devereux, l’oggetto di studio di questa nuova disciplina fu il rapporto di complementarità esistente tra lo studio dell’individuo (psicoanalisi) e quello della sua società e cultura (antropologia).

Il campo dell’etnopischiatria fu per György Dobó39, l’occasione attraverso cui porre le basi di un dialogo tra discipline, creando una nuova prospettiva per le scienze dell’uomo, da lui definite “Scienze del comportamento”. A lui si deve la scoperta di quelli che sono stati i nuclei problematici nella storia delle scienze umane ovvero l’irriducibilità della complessità dell’essere umano a spiegazioni monocausali, l’incerta scientificità delle materie che se ne occupano e ancora nell’osservazione del comportamento umano, l’intrusione della soggettività.

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L’effetto dell’osservatorio sull’osservato ed il principio di complementarità

Il pensiero di G. Devereux40 fu fortemente influenzato dai saperi delle scienze fisiche, sociali e della personalità. Queste hanno difatti fornito gli strumenti di base per una comprensione moderna dell’individuo nella società.

Rispetto la fisica quantistica, una delle teorie di base, considerate dall’autore fu l’effetto dell’osservatorio sull’osservato, dal quale venne tratto il passaggio “Dall’ansia al metodo nelle scienze comportamentali”, (1967). Secondo il principio d’indeterminazione di Heisenberg41 infatti, per individuare la posizione o la velocità dei quanti, è necessario che ci sia uno spettatore che li osservi, altrimenti questa misurazione risulta impossibile. Di conseguenza è possibile affermare che siamo noi a determinare il comportamento dei quanti e della materia circostante. Ovviamente mentre la fisica quantistica riguarda l’infinitamente piccolo, le scienze umane si rivolgono allo studio della società, di oggetti macroscopici, sicuramente molto più complesso delle particelle elementari, degli atomi o dei cristalli. L’intelligenza di Georges fu quella di cogliere le possibili analogie tra approcci e domini, in apparenza così lontani dal pensiero umano. Alla luce di ciò, durante i suoi stage con i Sedang e gli Hopi, Devereux capì che “non è lo studio del soggetto ma quello dell’osservatore che ci dà accesso all’essenza della situazione di osservazione”.42

Un secondo principio basilare della fisica quantistica, ispirò le ricerche di Devereux nel campo dell’etnopsicoanalisi. Si tratta del principio di complementarità proposto da Niels Bohr ed enunciato per la prima volta pubblicamente in occasione dell’International Congress of Physicists del settembre del 1927, svoltosi a Como. Secondo tale principio è impossibile osservare simultaneamente la dualità delle proprietà fisiche della luce e della materia poiché sono rese osservabili solo attraverso esperimenti mutualmente escludentisi.43Il concetto di complementarità, veniva quindi utilizzato da Bohr per indicare la “relazione” presente tra due modalità di descrizione, entrambe essenziali e valide per la comprensione delle caratteristiche del fenomeno, ma non applicabili simultaneamente in quanto contraddittorie.

A partire da tale principio metodologico, il complementarismo, Devereux deduce che siccome i comportamenti umani sono sempre sovradeterminati da molteplici influenze perturbative, essi possano rientrare in più categorie esplicative del tutto distinte. Ognuna di queste è sufficiente a dare ragione dei fenomeni rientranti nel proprio dominio di conoscenza ma non può imporre la sua egemonia interpretativa sull’intera gamma dei fenomeni distribuiti nelle altre categorie esplicative. Psichismo e cultura divengono allora concetti che consentono d’interpretare il comportamento umano separando su livelli esplicativi differenti ciò che nella realtà fenomenica è indistinto e collegato. Di conseguenza “E’ vano cercare di integrare in modo forzato nel campo della psicoanalisi o in quello dell’antropologia solo alcuni dei fenomeni umani. La specificità di questi risultati risiede nel fatto che necessitano di un doppio discorso obbligatorio e non simultaneo: una “pluridisciplinarietà […] che non tende alle fusioni”.44 Psicoanalisi ed antropologia divengono così discorsi complementari in etnopsicoanalisi. La generalizzazione metodologica del complementarismo permette infatti di coordinare i due campi, senza che l’uno escluda l’altro.

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Contro transfert culturale

La dinamica del transfert e del controtransfert venne resa realmente operativa da Sigmund Freud. Dall’elaborazione del modello classico della cura, la parola del soggetto è posta come atto della terapia, il cui supporto è il legame fra lo psicoanalista e il suo cliente, ossia in transfert45. Nel contesto della relazione psicoanalitica, il transfert designa quindi il processo attraverso il quale i desideri inconsci del paziente si attualizzano mentre il controtransfert dello psicoanalista viene inteso come “la somma totale delle distorsioni della percezione e delle reazioni dell’analista verso il paziente46. Nella situazione analitica queste deformazioni portano il terapeuta a seguire i desideri, le fantasie o i bisogni inconsci che ha. L’interesse per la psicoanalisi e la formazione in questo campo, guida Devereux nell’ampliare la definizione di transfert e controtransfert di Freud, affinchè possa essere applicata all’insieme dei fenomeni che sopraggiungono nelle situazioni cliniche e di ricerca delle scienze umane. Il transfert diviene così la somma delle reazioni, siano queste implicite o esplicite, che l’individuo sviluppa nei confronti del ricercatore o del terapeuta mentre il controtransfert, inversamente, è la somma di tutte le reazioni implicite ed esplicite del ricercatore o del terapeuta rispetto il suo oggetto di ricerca o il suo paziente.

D’altra parte, si deve a Georges, primo ad esplorare nelle scienze umane il concetto di transfert e controtransfert, anche la scoperta di una dimensione affettiva e culturale all’interno di questi. Sostiene infatti che esista un contro-transfert culturale legato alla modalità con la quale il terapeuta si pone rispetto l’alterità culturale, il modo di fare, di essere e di pensare la malattia del paziente. Fondamentale allora è la capacità del clinico di capire sé stesso, in quanto osservatore ed essere umano, all’interno di una cultura, di una società e professione.

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Tobie Nathan: verso la creazione di un dispositivo clinico

Nel paragrafo precedente è stata presentata la scienza dell’etnopsichiatria secondo il pensiero di Georges Devereux, suo fondatore. In questo secondo capitolo, verrà esposto quello che invece fu il lavoro di uno dei suoi più grandi allievi, Tobie Nathan.

Tobie Nathan, è uno psicoanalista, scrittore e diplomatico francese. Nasce in Egitto, al Cairo, nel 1948 da una famiglia ebrea. All’età di otto anni si trasferisce in Italia, dove resterà per poco tempo, per poi spostarsi definitivamente in Francia. La capacità di riconoscere su sé stesso la realtà d’immigrato in un paese straniero, gli consentirà d’intraprendere quella che oggi è la sua storia professionale. Rispetto la sua formazione, nel 1976, Tobie Nathan consegue il dottorato di psicologia in Francia.

Nel 1977 pubblica una ricerca con il nome di “Sexualité idéologique et névrose”, nella quale si sofferma sull’ideologia sessuale comunitaria praticata dalla generazione libertaria francese mentre nel 1978 fonda con Georges Devereux47, suo maestro, la rivista "Ethnopsychiatrica", e, rispettivamente nel 1983 e nel 2000, "La Nouvelle Revue d'ethnopsychiatrie" e "Ethnopsy". Nel 1979, oltre ad esplorare l’universo degli insetti nelle fantasie psicoanalitiche, apre presso il servizio di psichiatria del bambino e dell’adolescente48 dell’ospedale Avicenne di Bobigny il primo consultorio entopsichiatrico francese. Dopo aver conseguito il dottorato in Arti e Scienze (1983), dal 1988 al 1992 lavora presso il Centro di Protezione materno infantile di Saint Denis. Nel 1986 diventa professore di Psicologia clinica e psicopatologia all’ università di Paris VIII e qui nel 1993 fonda il centro “Georges Devereux”, Centre universitarie d’aide psychologyque aux familles migrantes, che dirigerà fino al 1999. È stato direttore dell'Istituto per l'istruzione a distanza (I.E.D.), dell'ufficio di " Agence Universitaire de la Francophonie" per l'Africa dei Grandi Laghi a Bujumbura (Burundi) e Consigliere Culturale presso l'Ambasciata di Francia a Tel Aviv (Israël). Dal 1° settembre 2009 è Consigliere Culturale presso l'Ambasciata di Francia a Conakry (Guinea).

Tra il XIX e il XX secolo, gli stati Europei, in particolare Francia e Gran Bretagna, allora i principali stati coloniali, entrarono in contatto con nuove popolazioni e culture extra europee. Tale situazione determinò la graduale formazione di una società multiculturale con le conseguenze che ne derivano in ambito psichiatrico, psicologico e psicoanalitico. Molti operatori, impegnati nei servizi di salute mentale, videro la propria utenza trasformarsi e gli strumenti abituali del proprio agire professionale venir meno. L’obiettivo di quegli anni fu, per questo motivo, la ricerca di dispositivi efficaci di presa in carico dei pazienti provenienti da culture differenti.

Nella realtà francese ciò fu particolarmente evidente: frequentemente gli immigrati che si recavano in ospedale per disturbi fisici conseguenti ad infortuni sul lavoro, venivano poi ricollocati ai reparti di psichiatria, in quanto non risultava esserci alcuna correlazione organica alla presunta malattia. La relazione terapeutica con lo psicologo o lo psichiatra mostrava però un’ulteriore problematica, legata alla difficile possibilità di comunicazione, a sua volta dovuta da forti differenze culturali e linguistiche. Queste considerazioni, nella clinica etnopsicoanalitica lasciarono spazio ad un nuovo pensiero. Le difficoltà che i pazienti immigrati infatti trovavano nella relazione con il clinico occidentale erano dovute a carenze del dispositivo clinico utilizzato (psichiatrico o psicoanalitico), il quale riusciva a cogliere soltanto alcuni aspetti del paziente piuttosto che a loro carenze strutturali. Tali presupposti spinsero Tobie Nathan, pioniere di questo campo, ad occuparsi della creazione di un nuovo dispositivo clinico etnopsicoanalitico, nel quale l’alterità culturale divenne fonte di arricchimento e innovazione.

Il seguente dispositivo ebbe lo scopo di curare il paziente tenendo conto della diversità culturale.

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Modificazioni tecniche: la lingua ed il gruppo all’interno del dispositivo etnopsicoanalitico

Nella realizzazione del dispositivo, Nathan decide di modificare la psicoterapia dei pazienti immigrati, partendo dalla tecnica piuttosto che dalla teoria. Egli stesso in Principi di Etnopsicoanalisi afferma: “Tenendo conto del fatto che in clinica, come in molti altri ambiti, non è possibile alcuna innovazione senza modificare il dispositivo di raccolta dei dati, ho deciso di partire non più da una posizione teorica (per quanto omogenea) ma dai problemi tecnici incontrati dal clinico quando desidera stabilire una relazione terapeutica con un paziente proveniente da un’altra cultura. Aggirando il problema iniziale e proiettando in un lontano avvenire la possibilità di rispondere alla questione dottrinale, ho spostato l’accento e ho focalizzato la ricerca sulla costruzione del dispositivo, piuttosto che sull’elaborazione d’ipotesi generali, che in questa materia non potevano essere che semplici opinioni”.49

All’interno del suo dispositivo, sostenendo la formulazione di Devereux, secondo cui in psicopatologia non esistono dati indipendenti dallo specifico dispositivo clinico adottato per raccogliere ed interpretare i fenomeni prescelti50, per promuovere l’interazione tra clinico e paziente immigrato, Nathan decise, di apportare delle modifiche strutturali al setting terapeutico quali la lingua ed il gruppo. La seduta etnopsicoanalitica condotta secondo il modello di Tobie Nathan, consente al paziente di comunicare attraverso l’uso della propria lingua, in quanto riferimento culturale e modalità attraverso la quale il pensiero si costruisce spontaneamente. Soltanto l’uso della lingua originaria, permette al paziente di emergere con le sue caratteristiche soggettive. La lingua possiede infatti il potere di evocare l’universo, inteso come sfondo strutturale dell’esistenza di un individuo o di un gruppo, fisico, affettivo, conoscitivo ed esperienziale del suo locutore. L’obiettivo strategico della traduzione è infatti quello di ridurre progressivamente le differenze linguistiche, culturali e sociali, affinchè sia possibile l’espansione della sovranità scientifica della psichiatria, biologicamente o psicologicamente fondata. Si ritiene, inoltre, che le lingue occupino dei ruoli gerarchici in grado di spiegare l’apparente ricchezza o la povertà dei sistemi di significato. Per questo stesso motivo si sostiene che le parole di una lingua non siano integralmente traducibili in quella di un’altra senza analizzare scrupolosamente le ragioni storiche, sociali e antropologiche di questo scarto nelle equivalenze di significato.51

Questo cambiamento prevede l’inserimento nella relazione terapeutica di un mediatore etno-clinico ovvero un soggetto che parli la stessa lingua del paziente e svolga la funzione di mediazione interculturale. Tale decisione ha rivoluzionato completamente la relazione terapeutica caratteristica delle terapie psicoanalitiche individuali, da questo momento non più duali, ed ha avuto un effetto positivo per i pazienti immigrati, in particolare quelli di origine africana. Spesso infatti, vivevano la relazione terapeutica duale al pari di una stregoneria. D’altra parte, è necessario che il paziente immigrato, impegnato in un processo di demarcazione del medesimo e dell’altro, sia accolto da un gruppo, in quanto è evidente come i sistemi etiologici tradizionali52 non funzionino nel colloquio a due con questa tipologia di pazienti. Il gruppo terapeutico dev’essere composto da soggetti “culturalmente identici”, soggetti “simili” e soggetti “altri”, per un totale circa di quindici professionisti (psichiatri o psicologi, medici, educatori e antropologi) con formazione psicoanalitica e differente origine culturale, ma ciò nonostante diplomati presso università francesi. All’interno del gruppo di consultazione etnopsicoanalitica si trova dunque un terapeuta principale, il quale in genere alla fine della seduta enuncia una tesi e rivolge una prescrizione direttamente al paziente e più co-terapeuti. Durante la seduta tutti si dispongono nella stanza (solitamente abbastanza ampia) in modo circolare; il paziente può essere accompagnato da alcuni familiari e operatori sociali o terapeuti di fiducia. Oltre a quanto già detto, è importante non dimenticare le molteplici funzioni svolte dal gruppo. Quest’ultimo costituisce un contesto “a metà strada”, “nel mezzo”, “ibrido”, adatto a fornire un contenitore alla sofferenza di un paziente che anche lui si trova sempre, poco o molto, in situazione di acculturazione53 e consente la circolazione di differenti teorie eziologiche, includendo molte interpretazioni, che non fissano il paziente in una rappresentazione univoca. Il gruppo inoltre fornisce supporto psichico e culturale: le teorie apparentemente inadeguate possono circolare all’interno del gruppo. Nonostante ciò il co-terapeuta non è costretto a condividerle e il paziente non viene umiliato. Infine il gruppo decostruisce la rappresentazione del disturbo che il paziente desidera offrire: “tutto accade come se ogni co-terapeuta si impossessasse di un frammento della problematica del paziente e lo elaborasse per proprio conto davanti a lui. Quando infine il terapeuta principale enuncia la sua proposta, il paziente si vede presentare una nuova riorganizzazione dei suoi elementi, strutturati dall’esperienza vissuta in gruppo”.54

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Modificazioni teoriche del dispositivo etnopsicoanalitico

Come visto prima l’etnopsichiatria di Devereux, attraverso la metodologia complementarista, analizza l’individuo sul piano antropologico e psicopatologico. Le culture, infatti, forniscono sempre un modello sintomatologico, una classificazione nosografica, una teoria etiologica specifica, una tecnica terapeutica codificata.55 Tobie Nathan, considerando le formule di Georges Devereux, suo maestro, interpreta e studia le relazioni esistenti tra psiche e cultura (queste formule possono infatti essere applicate a situazioni cliniche in cui l’individuo perde il sostegno del proprio mondo culturale, a causa dell’emigrazione dal paese d’origine). Avvalendosi di queste conoscenze tenta di creare un dispositivo psicoterapeutico, che sia efficace/ valido per tutti. Nel fare ciò si scontra inevitabilmente con le teorie psicoanalitiche, psichiatriche e psicologiche di quegli anni.

A quei tempi infatti, la psicopatologia considerava l’essere umano come “soggetto” universale, non dipendente dal suo universo culturale, “uomo nudo”.56 Per cui la cultura era intesa come ornamento, colore, abito che poteva essere acquisito dall’individuo.

Il pensiero di Nathan rivoluzionò questa concezione: la cultura innanzitutto viene da lui considerata come “una struttura specifica di origine esterna (sociale) che contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico”57 inoltre “possedere una cultura ed essere dotati di psichismo sono due fatti estremamente equivalenti, e di conseguenza per lo psicopatologo, la differenza culturale non è una deviazione ma un dato di fatto altrettanto “umano”, altrettanto imprescindibile quanto l’esistenza del cervello, del fegato o dei reni.58

Ne consegue che non considerare in psicoterapia la cultura dei pazienti immigrati, sia un pesante errore procedurale. Per tale motivazione Nathan afferma che per considerare la cultura come componente non separata dall’essere di un individuo, in psicopatologia sia necessario accettare tre enunciati teorici preliminari. Il primo afferma che, l’apparato psichico debba essere inteso come macchina per creare legami che si autoregola con la cultura, la quale detiene un funzionamento analogo e ha origine esterna.

Il secondo enunciato sostiene invece che per fare etnopsichiatria sia fondamentale invertire il postulato condiviso dagli psicoanalisti ed enunciato per la prima volta da Freud. Per cui afferma che le terapie tradizionali sono operazioni razionali anche quando la loro razionalità non appare evidente, efficaci e suscettibili di indagini approfondite.59

Secondo Freud invece le psicoterapie tradizionali lavorano soltanto sul meccanismo di transfert e analisi del transfert mentre la psicoanalisi era la sola terapia che poteva svolgere la propria funzione senza essere interessata da seduzione, influenzamento e suggestione.

Infine il terzo enunciato afferma che condivisi i primi due, non esiste di regola una psicoterapia, ma ci sono autoterapie che subiscono l’influenza e possono essere attivate da operatori differenti.

Questo modello teorico secondo Nathan, consente quindi di comprendere come nei differenti territori del mondo si raggiunga la modificazione dello stato patologico nonostante vengano utilizzate tecniche terapeutiche molto distanti tra loro.

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Marie rose Moro: applicazione del dispositivo tecnico secondo l’approccio etnopsicoanalitico alle problematiche delle seconde e delle terze generazioni

Negli ultimi vent'anni, all’interno della teoria e della pratica etnopsicoanalitica francese, si sono verificati importanti sviluppi. Molte delle innovazioni avvenute in questo campo sono legate al lavoro della psichiatra infantile Marie Rose Moro60 e della sua equipé all'ospedale Avicenne di Bobigny.

Gli approcci di Moro e Nathan presentano infatti differenze significative, in particolare dovute a diverse concezioni di “cultura”. L’idea di Nathan di utilizzare rappresentazioni culturali “tradizionali” all’interno del contesto terapeutico venne identificata come strategia per contestare l’etnocentrismo della psichiatria occidentale. Secondo Nathan, le rappresentazioni culturali della malattia e della sofferenza da lui chiamate “eziologie tradizionali”, non dovevano essere considerate soltanto come idee che potevano spiegare la sofferenza, ma anche come sistemi di rappresentazione dinamici che potevano introdurre cambiamenti positivi. Pertanto, i pazienti migranti venivano invitati a riflettere e a discutere i loro problemi, facendo riferimento a rappresentazioni culturali con cui avevano familiarità ed inoltre venivano incoraggiati ad utilizzare i sistemi di guarigione che conoscevano e ai quali si sentivano legati.

Tale modello provocò forti reazioni, in quanto si allontanava dalle posizioni “universaliste” nel campo della psichiatria e della psicoanalisi francese, lasciando da parte la questione della “cultura” e dei bisogni specifici dei migranti e delle minoranze.61

Al contrario M.R. Moro profondamente influenzata dall’incontro con la psicoanalisi, sostiene la necessità di modificare le tecniche terapeutiche occidentali affinché sia possibile cogliere l’unicità e la ricchezza dell’altro.

Il dispositivo dell’autore venne ulteriormente contestato in quanto le rappresentazioni culturali vennero trattate come strutture fisse; non vi è infatti alcuna informazione in merito al loro inserimento in contesti sociali, storici e politici. Come riportato nell’articolo “Current developments in French Ethnopsychoanalysis” Nathan, sembra non aver tenuto il passo con le discussioni attuali sulle pratiche di rappresentazione all'interno dell'antropologia culturale62 e dell'antropologia medica.63 La sua concezione di cultura appare per questo essenzialista ed esotizzante.64

Tuttavia, gli studi condotti da M.R. Moro mostrano una continuità con il lavoro di Nathan, soprattutto per quanto riguarda le sue prime pubblicazioni. Come Nathan, Moro si concentra sull'esplorazione e la discussione delle rappresentazioni culturali e dei mondi di vita a cui sono collegate. Pur continuando ad essere interessata alla dimensione culturale delle terapie con migranti e minoranze, introduce però una concezione più dinamica della cultura e mostra un interesse specifico per le questioni familiari, le identità culturali ibride e il lavoro con i bambini le cui famiglie hanno un background migratorio. Si occupa per questo di sviluppare e modificare il dispositivo costruito da Nathan, affinché possa essere applicato alle problematiche che interessano oggi soprattutto le seconde e le terze generazioni.

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Dalle ipotesi alla metodologia

M. R. Moro, etnopsicoanalista, sviluppa il suo lavoro in questo campo, considerando tre ipotesi. Inizialmente sostiene che le interazioni precoci genitori-bambino debbano essere valutate all’interno del sistema culturale di appartenenza dei genitori; secondo tale pensiero sembrerebbe che queste non esistano al di fuori di un sistema di interazione generalizzato. Ad oggi in realtà diverse ricerche hanno dimostrato la paragonabilità rispetto lo sviluppo temporale di bambini con origine culturale differente.

In un secondo momento, ipotizza che, oltre la lingua, gli elementi funzionali specifici appartenenti al sistema culturale dei genitori siano le rappresentazioni ontologiche (riguardando l’origine e la natura del bambino), le teorie eziologiche (utilizzate per comprendere le malattie del bambino, della madre e di ogni disfunzione della relazione genitori-bambino) e le logiche delle terapie tradizionali messe in atto nel paese di provenienza dal gruppo, in occasione di tali disfunzioni. Tale teoria verrà dimostrata nei suoi studi: le modalità delle interazioni, così come la natura e la forma della relazione madre-bambino vengono modificate da rappresentazioni culturali specifiche. Per questo motivo, l’interazione si costituisce di una dimensione culturale, articolata in livelli comportamentali, affettivi e fantasmatici.

Sulla base di ciò, M. R. Moro deduce che, in un contesto transculturale, l’utilizzo di una tecnica che tenga conto delle rappresentazioni ontologiche, delle teorie eziologiche e delle logiche delle terapie tradizionali possa essere efficace, per cui puntualizza che “per modificare delle interazioni disarmoniche genitori-bambino in una situazione migratoria, è necessario agire prima di tutto sull’interazione fra i genitori e il loro sistema culturale d’appartenenza per modificare l’interazione osservabile genitori- bambino”.65 La metodologia messa a punto dall’autrice, insieme al suo gruppo, attraverso l’uso del complementarismo66   e dell’eclettismo67, esplora e valuta le interazioni genitori-bambino e le eventuali modifiche.68

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Principi di base della clinica transculturale

In un convegno tenuto in Italia qualche anno fa, la Dottoressa Moro parlava dell’approccio transculturale, da loro sviluppato per la prima volta nell’ospedale universitario Avicenne di Bobigny, sottolineandone la diversità rispetto quello etnopsichiatrico. L’utilizzo delle pratiche transculturali rende infatti, a suo parere, più opportuno parlare di clinica transculturale piuttosto che di etnopsichiatria.

Il modello di clinica transculturale da lei proposto si basa su alcuni principi fondamentali, primo fra tutti la nozione di universalità psichica, concetto senza il quale l’etnopsichiatria non avrebbe potuto formarsi. Da questo postulato deriva la necessità di dare il medesimo statuto (etico ma anche scientifico) a tutti gli esseri umani, alle loro produzioni culturali e psichiche, alle loro maniere di vivere e di pensare, per quanto diverse e sconcertanti a volte siano.69 Come afferma Nathan poi, un’altra caratteristica umana è, beninteso, il fatto che ogni uomo ha una cultura e che forse è questo a fondare la sua umanità e la sua universalità.70 Per cui è indispensabile ricordare che in quanto essere umani, apparteniamo tutti alla stessa specie e siamo tutti uguali, seppur abbiamo culture differenti.

La codifica culturale, rappresenta il secondo principio; in ogni cultura è possibile leggere la realtà e dare senso agli avvenimenti attraverso l’uso di categorie arbitrarie. Ogni sistema culturale è quindi costituito da più elementi; la lingua, il maternage, la cucina, le arti, gli abiti e le decorazioni. Questi trovano nelle rappresentazioni culturali una struttura coerente. Le rappresentazioni culturali vengono incorporate e rielaborate dal soggetto, a partire dalle proprie dinamiche interne e dalle peculiarità del proprio carattere. Per capire, accogliere e curare, M. R. Moro individua tre livelli essenziali, già citati nel paragrafo precedente, di codifica culturale: il livello ontologico, il livello eziologico e le logiche terapeutiche.

Il livello ontologico, l’essere, consente all’individuo, in ogni sistema culturale, di trovare le risposte rispetto domande riguardanti la sua origine, la sua funzione, la sua identità. Il livello eziologico, il senso, permette di rispondere ad interrogativi legati alla malattia, ad esempio “Perché mi sono ammalato?”. Seppur ogni essere umano si ponga questa tipologia di domande, in ogni cultura le risposte saranno differenti.

Il terzo livello, il fare, quello delle logiche terapeutiche, include le modalità di cure da intraprendere nel caso di malattia nelle diverse culture e individua i riti/ procedure che proteggono dal rischio di disfunzione.

Ritornando ai principi fondamentali, il terzo postulato su cui si basa la clinica transculturale è il trauma migratorio. Come riportato da Nathan in “La folie des autres”, la migrazione, sotto l’aspetto d’atto psichico comporta indirettamente, oltre la rottura del quadro esterno, una rottura a livello del quadro culturale interiorizzato dal paziente.71

La migrazione è dunque un evento sociologico, che avviene all’interno di un contesto storico e politico, per diverse motivazioni, rappresenta una situazione complessa, talvolta traumatica. La psicoanalisi definisce il traumatismo come un’improvvisa pulsione e sostiene che non sia possibile elaborare o rimuovere tale condizione poiché al momento della sua comparsa non esisteva alcun stato d’angoscia. Assegna inoltre il significato di choc violento, di violenza e ripercussioni sull’organizzazione al concetto di traumatismo.

Tobie Nathan a sua volta individua due tipologie di traumatismo, il traumatismo intellettuale e il traumatismo della perdita del quadro culturale interno, più frequentemente associato al trauma migratorio. È importante ricordare che nonostante il traumatismo migratorio possa presentarsi indipendentemente dalle caratteristiche dell’individuo, non è un avvenimento generalizzato e prestabilito.

Infine parlando di clinica transculturale non si può che considerare come quarto principio la relazione creatasi tra prima e seconda generazione. Secondo M. R. Moro, il destino della seconda generazione nel paese d’accoglienza, è legato alla qualità della trasmissione della cultura del paese d’origine, da parte della prima generazione. Sulla base dei risultati, da lei ottenuti, in merito ad una ricerca condotta sul bilinguismo72, cerca di definire i fattori che favoriscono il bilinguismo adattivo73 rispetto i fattori di rischio associati al bilinguismo sottrattivo74. Uno dei risultati più interessanti su questo argomento è l'osservazione che buone capacità linguistiche nella lingua madre dei genitori sembrano migliorare le buone capacità in altre lingue e contribuire al raggiungimento scolastico in generale75 (Moro, 2002). Sulla base di ciò la Dottoressa suggerisce l’importanza di incoraggiare i genitori nel trasmettere la loro lingua ai figli ed invita a farlo attraverso una modalità che possa aiutare il bambino a sviluppare ampie capacità linguistiche, ovvero raccontando storie.

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La posizione dei curanti ed il principio di “Décentrage” nell’approccio transculturale

Altro elemento fondamentale nell’approccio transculturale, secondo M.R. Moro, è la posizione dei curanti (medici, infermieri, operatori sociali, terapisti ecc.), ovvero coloro che si occupano di accogliere, capire, valutare e curare il paziente. Seppur abbiano formazioni differenti, ciò che li accomuna è la posizione interna, che tutti infatti presentano. La capacità d’operare in ambito transculturale è strettamente influenzata dalla capacità del curante di decentrarsi. La nozione di decentramento è fortemente correlata con il concetto, definito dagli etnopsicoanalitici, di controtransfert culturale.

Il controtransfert culturale descrive le reazioni emotive e le fantasie che un curante può sviluppare riguardo all’“Altro”76. Come nel controtransfert generale, tali reazioni possono essere piuttosto preoccupanti e possono portare il curante a sviluppare percezioni distorte nei confronti dei loro pazienti. Supponendo che la maggior parte di queste reazioni si basi sulla mancanza di conoscenza della diversità culturale, Moro invita i curanti ad accettare di moltiplicare i riferimenti di lettura di un fatto, ad uscire dai propri schemi, ponendosi nella logica del paziente. In questo modo, partendo dai propri sistemi psicologici e culturali ed accettando che il sapere dell’altro è realtà, sarà possibile capire quali sono i fattori che consentono la costruzione di una nuova posizione interiore e decentrata. Tuttavia, il decentramento implica un certo grado di auto riflessione. L’ incontro con un paziente di origine culturale differente, non implica per il curante soltanto differenze culturali concrete ma comporta anche l’incontro con le proprie immagini inconsce e con le rappresentazioni collettive dell’“Altro”. Alle volte queste rappresentazioni possono nascondere delle fantasie inconsce ambivalenti; fantasie di rifiuto si alternano con fantasie di fascino e curiosità. La supervisione può essere allora per il curante una strategia utile al fine di prendere coscienza delle fantasie e delle rappresentazioni collettive dell’“Altro”, che possono essere attivate durante un incontro con un paziente di diversa provenienza culturale. Allo stesso tempo, in questo modo, il curante, può diventare maggiormente consapevole delle rappresentazioni collettive dell’“Altro” che fanno parte della sua cultura e storia.77

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Un dispositivo meticcio e cosmopolita a geometria variabile

Il dispositivo messo a punto dalla Dottoressa Moro e utilizzato presso il centro di consultazione di Avicenne a Bobigny, viene definito a geometria variabile in quanto, insieme alla famiglia viene concordata la strategia da adottare e quali strumenti utilizzare. Non tutte le famiglie ricevono la stessa soluzione, per alcune vengono riservate ad esempio consultazioni urgenti, per altre individuali e ancora consultazioni in piccoli gruppi o in gruppi più ampi. Inoltre non tutte le consultazioni vedono la presenza di più terapeuti, talvolta ne si trova soltanto uno. Rispetto le problematiche della famiglia, possono essere trattate, non solo attraverso l’uso della parola; spesso si ricorre infatti all’impiego dell’espressione corporea, del gioco o dello psicodramma. Il lavoro con le famiglie migranti, prevede secondo questo modello un’équipe pluridisciplinare di medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori e mediatori di origini culturali e linguistiche molteplici, che abbiano sperimentato su loro stessi il decentramento e familiarizzato con sistemi culturali differenti. Per tale motivazione, il dispositivo proposto viene ulteriormente definito come meticcio e cosmopolita. Collocando al centro del suo interesse la nozione di alterità, si rivolge a pazienti provenienti da qualunque paese e qualsiasi cultura.

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Jerome Bruner: l’importanza del concetto di cultura nello studio della mente umana

Negli anni Ottanta, contemporaneamente all’etnopsichiatria e all’etnopsicoanalisi, Jerome Bruner fondò la Psicologia culturale, programma di ricerca diretto al superamento del paradigma dell’intelligenza artificiale, sviluppatasi tra gli anni ’60 e ’70. L’autore individuò il legame esistente tra conoscenza e relativa esperienza, ma soprattutto capì che tale correlazione era mediata dal linguaggio e doveva considerare l’ambiente culturale in cui avveniva. L’interesse di Bruner per gli aspetti culturali che partecipano all’interazione tra bambini e adulti scaturisce da una ricerca durata diversi anni riguardante l’origine di tale interazione ed in particolare le modalità con cui i piccoli si avviavano verso l’uso del linguaggio. Lui stesso identificò determinati schemi all’interno dei “[…] quali bambini e adulti riescono a prevedere gli uni i comportamenti degli altri, ad attribuirsi delle intenzioni e più in generale a formare delle interpretazioni rispetto ciò che gli altri dicono o fanno”.78

Negli anni successivi s’imbatté poi nel concetto antropologico di cultura, ricco di aspetti importanti relativi l’apprendimento, il simbolismo e la capacità di adattamento al contesto sociale. Inoltre l’ipotesi che possano esistere diverse realtà psicologiche lo avvicinò al costruttivismo di Nelson Goodman e lo portò a sostenere l’esistenza di “diversi “modelli di realtà” a cui la mente umana lungo il percorso della sua formazione, cerca di adattarsi utilizzando “sistemi simbolici”.79

Successivamente intraprese una vera e propria battaglia nei confronti del paradigma dell’intelligenza artificiale. Affermò infatti l’importanza di considerare la cultura, tanto quanto la biologia, nello studio della mente umana. Al termine dei suoi studi sostenne che la cultura, e non la biologia come si pensava, plasmasse la vita e la mente dell’uomo, attribuisse significato all’azione includendo in un sistema interpretativo profondi stati intenzionali.


  • 39 György Dobó, fu il vero nome di Devereux. Infatti nel 1933, si battezzò e cambio il suo nome in Georges Devereux.
  • 40 Georges Devereux nacque a Lugoj, il 13 settembre del 1908 da una famiglia ungherese di religione ebrea. Dopo la prima guerra mondiale si trasferì insieme alla famiglia in Francia. Qui, affiancato da Marie Curie e Jean Perrin, studiò chimica e fisica. Successivamente, a Parigi, si iscrisse alla scuola di lingue orientali e divenne allievo di Marcel Mauss e Paul Rivet, laureandosi in antropologia all’istituto d’etnologia. Dopo essersi trasferito in Indocina, tra gli Alpinisti Sedang, e nel sud-ovest degli Stati Uniti, tra i Mohave, gli Hopi, gli Yuma e i Cocopa, sostenne nel 1935, una tesi di dottorato, presso l'Università della California, Berkeley, sotto la direzione di Alfred Krœber, uno dei fondatori dell'antropologia americana. Successivamente esplorò un altro percorso di conoscenza umana, la psicoanalisi, lavorando alla Menninger Clinic di Topeka, Kansas. Nel 1956 fu nominato professore di etnopsichiatria alla facoltà di medicina della Temple University. Nel 1959 si trasferì a New York, dove insegnò etnologia alla Columbia University. Su iniziativa del noto antropologo Claude Lévi-Strauss, Devereux fu invitato nel 1963 ad insegnare alla Sezione VI dell'École pratique des hautes études (EPHE) di Parigi. Durante gli ultimi anni della sua vita, studiò anche storia e cultura greca classica. Morì a Parigi nel 1985.
  • 41 Werner Karl Heisenberg (Würzburg, 5 dicembre 1901 – Monaco di Baviera, 1º febbraio 1976) è stato un fisico tedesco ed uno dei principali artefici della meccanica quantistica. Espose nel 1927 il principio d’indeterminazione e nello stesso anno accettò la cattedra di fisica teorica all’istituto Theoretisch-Physikalisches di Lipsia (fu qui professore e relatore di tesi di dottorato di Edward Teller, cugino di Georges Devereux). Nel 1932 ricevette il premio nobel per la fisica.
  • 42 G. Devereux, “From Anxiety to Method in the Behavioral Sciences”, 1967, trad. it. “Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento”, a cura di C. Severi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1984.
  • 43 Cerea A., ‘Il Modello Della Complementarità Nelle Scienze Dell’uomo. Da Niels Bohr a Georges Devereux’, Intersezioni, 35.3 (2015), 331–54.
  • 44 Devereux G., “Ethnopsychanalyse complémentariste”, 1972, trad. it. “Saggi di etnopsicoanalisiComplementarista”, Milano, Bompiani, 1975.
  • 45 Freud S., “Le prospettive future della terapia psicoanalitica” (1910), Opere complete di S. Freud, vol. VI, Torino, Boringhieri, 1974.
  • 46 Freud S., “Le prospettive future della terapia psicoanalitica” (1910), Opere complete di S. Freud, vol. VI, Torino, Boringhieri, 1974
  • 47 Georges Devereux è per Nathan il maestro dal quale studiare ed interpretare le relazioni esistenti tra psiche e cultura.
  • 48 A quel tempo il servizio di psichiatria del bambino e dell’adolescente dell’ospedale Avicenne di Bobigny era diretto da Serge Lebovici
  • 49 Nathan T., “Principi di etnopsicoanalisi”, pag.28, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
  • 50 Devereux G., “From Anxiety to Method in the Behavioral Sciences”, 1967, trad. it. “Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento”, a cura di C. Severi, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana 1984.
  • 51 Salvatore Inglese, ‘La Mediazione Interculturale in Contesto Etnopsichiatrico’, 1998, 353–55.
  • 52 Termine indicante, in generale, la scienza che indaga le cause di una data classe di fenomeni […] facendoli risalire all'azione di forze umane o divine e valendosi, per tali ravvicinamenti, di analogie o etimologie più o meno attendibili. (Treccani, 1932)
  • 53 Nathan T., “Principi di etnopsicoanalisi”, pag.50, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1996
  • 54 Nathan T., “Principi di etnopsicoanalisi”, pag.51, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1996
  • 55 Devereux G., “Ethnopsychiatrie complémentariste”, Flammarion, Paris, 1972
  • 56 Il termine di “uomo nudo” è stata coniato da Levi Strauss (C., 1971)
  • 57 Nathan T., “Costretto a essere umano”, Psicoterapia e scienze umane, n.4, 1994
  • 58 Nathan T., “Principi di etnopsicoanalisi”, pag.40, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1996
  • 59 Nathan T., “Principi di etnopsicoanalisi”, pag.42, ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1996
  • 60 Marie rose Moro nasce il 22 settembre 1961 a Ciudad Rodrigo, in Spagna. Nel 1962 si trasferisce in Francia, dove studia medicina, filosofia ed antropologia. Diventa poi psichiatra con formazione in psicoanalisi e neuropsichiatria infantile. Dal 2001 al 2013 è stata responsabile del reparto di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza presso l’ospedale Avicenne di Bobigny. Fa parte della Psychoanalytic Society di Parigi ed è membro dell'IPA, ovvero l’International Psychanalytic Association. Attualmente è anche consulente in psichiatria transculturale presso l’ospedale Avicenne di Parigi, professore di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all'Università di Parigi Descartes, e dirige due lauree universitarie presso la facoltà di Medicina di Bobigny. Inoltre è a capo del dipartimento della Cochin Youth House, Maison de Solenn (AP-HP) a Parigi, fondatrice e direttrice scientifica del Journal L'autre, Cliniques, Cultures et Societies (www.revuelautre.com) e presidente e fondatrice dell'Associazione Internazionale di EtnoPsychanalysis (AIEP).
  • 61 Nathan T., “La folie des autres”, ed. Dunod, 2001
  • 62 Clifford, J., & Marcus, G. E., “Writing culture: The Poetics and Politics of Ethnography”, Berkeley, University of California Press, 1986
  • 63 Auge´, M., & Herzlich, C., “Le Sens du mal: anthropologie, histoire, sociologie de la maladie”, Paris, Editions des Archives Contemporaines, 1983. Kleinman, A., & Good, B.,“Culture and depression”, Berkeley, University of California Press, 1985
  • 64 Corin, E., “Nathan’s ethnopsychanalytic therapy”, Transcultural Psychiatry, 1997. Fassin D., “Les politiques de l’ethnopsychiatrie. La psyché africaine, des colonies britanniques aux banlieues francaises”, in L’Homme, 2000. Rechtman, R., “De l’ethnopsychiatrie a` l’a-psychiatrie culturelle. A propos de ‘Fier de n’avoir ni pays, ni amis quelle sottise c’e´tait’ de Tobie Nathan”, L’évolution psychiatrique, 1995
  • 65 Moro, M.R., “Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazioni”, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002.
  • 66 Il principio metodologico del complementarismo viene, all’interno di questa metodologia, generalizzato. Il materiale psicoanalitico e antropologico viene integrato con la psicologia cognitiva e l’etologia umana.
  • 67 M.R.Moro utilizza l’aggettivo “eclettico”, per particolari motivazioni. Prima di tutto per il carattere multifattoriale della metodologia da lei sviluppata. Inoltre in filosofia con il termine eclettismo, s’indica una corrente di pensiero che tende a fornire proposte che abbiano un grado maggiore di verità attraverso l’uso di elementi che derivano da diverse teorie.
  • 68 Gesine Sturm, Maya Nadig, and Marie Rose Moro, ‘Current Developments in French Ethnopsychoanalysis’, Transcultural Psychiatry, 48.3 (2011), 205–27.
  • 69 Devereux, G., “Saggi di etnopsichiatria generale”, Roma, Tr.it. Armando Editore, 1978.
  • 70 Nathan T., Moro M. R., “Si tu aperçois une calebasse descendant le Niger... Pratiquer l'ethnopsychiatrie ici et ailleurs”, Nouvelle Reveu d’ethnopsychiatrie, n°15, pp. 17-20, 1990.
  • 71 Nathan T., “La folie des autres”, ed. Dunod, 2001
  • 72 Secondo Moro, il bilinguismo può riflettere modi abbastanza dissimili di integrare lingue e sistemi simbolici diversi (Moro, 1998, 2001; Rezzoug, De Plaen, Bensekhar-Bennabi, & Moro, 2007; Sanson, Serre, & Moro, 2008).
  • 73 Per M. R. Moro si parla di bilinguismo adattivo, in situazioni in cui il bambino possiede in più lingue una buona conoscenza e una buona capacità. Presenta un vocabolario ricco, capacità di associazione sviluppata ed è in grado di investire emotivamente espressioni linguistiche. Questo tipo di bilinguismo può aiutare i bambini a sviluppare importanti risorse cognitive ed emotive, andando ben oltre il semplice fatto di saper gestire due o più lingue (Bialystok, 1991; Bialystok, Craik, Klein, & Viswanathan, 2004; Bijeljac-Babic, 2000)
  • 74 Il bambino è esposto a due o più lingue e sviluppa in tutte scarse competenze linguistiche in quanto. Questo succede quando l’acquisizione della lingua madre viene interrotta o limitata.
  • 75 Moro, M.R., “Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazioni”, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002.
  • 76 Con “Altro” si indicano pazienti di origini culturali differenti rispetto quella del curante.
  • 77 Sturm, G., “Le racisme et l’exclusion”. In M. R. Moro, Q. De La Noe¨, Y. Mouchenik, Manuel de psychiatrie transculturelle, Grenoble, La Pensée Sauvage, pp.265-278, 2000. Sturm G., Baubet T., Moro M. R., “Mobilizing social and symbolic resources in transcultural therapies with refugees and asylum seekers. The story of Mister Diallo”. In B. Drozdek, R. Wilson (Eds.), Voices of trauma across cultures: Treatment of post traumatic states in global perspective, New York, NY, Springer, pp. 211 -231, 2007. Sturm G., Nadig M., Moro M. R., “Writing therapies – An ethnographic approach to transcultural therapies”. Forum Qualitative Sozialforschung/Forum: Qualitative Social Research, 11(3), Art. 1, http://www.qualitative- research.net/ index.php/fqs/issue/view/35, 2010.
  • 78 Bruner J., “La mente a più dimensioni”, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1993 (ed. or. 1986)
  • 79 Bruner J., “La mente a più dimensioni”, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1993 (ed. or. 1986)

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