LO SVILUPPO SOCIO-RELAZIONALE DEL BAMBINO

Sebbene le molteplici attività svolte dal bambino, comprese quelle ludiche, di esplorazione e scoperta del mondo esterno, siano importanti per lo sviluppo globale, in particolare quello cognitivo e neuropsicologico, un contributo fondamentale viene offerto dalle interazioni con gli altri. Difatti i bambini vengono al mondo con un’innata capacità e motivazione a stabilire una relazione sociale con chi si prende cura di lui.

Qualsiasi aspetto della vita di un bambino può essere osservato in un prospettiva sociale: dalle esperienze con gli adulti che si prendono cura di lui, alle interazione con i coetanei, fino a giungere alle relazioni affettive e al modo di percepire le regole e i valori morali della società.

Per dare un significato alle esperienze vissute, il bambino elabora i cosiddetti Modelli Operativi Interni, ovvero rappresentazioni mentali costruite dal bambino che contengono le diverse informazioni (spaziali, temporali, causali) delle esperienze vissute e che hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione di tali eventi, consentendogli di crearsi aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale.

I MOI comprendono il concetto di Sé e dell’altro.

Il concetto di Sé

Il concetto di Sé è la rappresentazione che ogni individuo ha della conoscenza relativa a se stesso. Esso costituisce un punto di riferimento nell’interazione con gli altri, in quanto media le esperienze sociali e organizza il comportamento verso gli altri. Il Sé, inoltre determina le modalità con le quali ognuno di noi costruisce la realtà e stabilisce quali esperienze cercare per mantenere l’immagine che abbiamo di noi stessi.

Esistono due aspetti che compongono il Sé: il Sé esistenziale e il Sé categorico. Il Sé esistenziale permette di sentirsi una persona distinta dalle altre e compare intorno ai 3 mesi. Il Sé categorico riguarda invece la capacità del bambino di definirsi in termini di categorie quali età, sesso e dimensioni e compare intorno ai 2 anni, età alla quale Piaget fa corrispondere lo “Stadio Pre-concettuale” dominato dal pensiero egocentrico, in cui appunto il bambino impara a conoscere meglio sé come diverso dagli altri e come individuo unico dotato di determinate caratteristiche che lo pongono al centro di tutto. Difatti a questa età il bambino comincia ad utilizzare i primi autoriferimenti quali “io”, “me” e “mio”.

Il concetto di Sé nel bambino non è statico ma si modifica continuamente attraverso le esperienze; infatti i bambini sono portati a considerare se stessi in termini di concetti contrapposti, “buono” o “cattivo”; “forte” o “debole” e così via. In questa fase così delicata, fondamentale è il ruolo del genitore nell’aiutare il bambino a dare un significato coerente alle sue esperienze facilitando il processo di costruzione di un Sé unitario e fedele alla realtà.

Un ulteriore aspetto che gira intorno al concetto di Sé, del cui sviluppo positivo il genitore è il principale fautore, è l’autostima, ovvero la percezione che il bambino ha del proprio valore. Essa contiene al suo interno l’immagine ideale che ogni individuo possiede di se stesso. Quindi se la differenza tra il Sé ideale e quello reale è minima il bambino avrà un’alta stima di sé; al contrario se questa discrepanza è forte egli avrà una bassa stima di sé. L’autostima è comunque molto influenzata dalle esperienze sociali dunque non rimane costante ma varia nel corso degli anni. Essa inoltre, esercita un’enorme influenza sullo stato emotivo del soggetto, che, a sua volta, influenza lo stato di interesse e la motivazione, soprattutto di tipo sociale.

Infine un altro tratto distintivo del conetto di Sé, valido in particolar modo per i bambini, è dato dalle emozioni che lo costituiscono in virtù della capacità di provare due emozioni contrastanti: l’orgoglio e la vergogna. Entrambi compaiono quando il Sé giudica se stesso; in particolare nasce quando il Sé si considera carente rispetto a dei modelli personali o a convenzioni sociali; mentre l’orgoglio, a differenza della vergogna, si riferisce al successo nell’aver raggiunto un criterio fissato.

I bambini al di sotto dei 2 anni non si compiacciono del risultato e fanno anche poca attenzione alla reazione dell’adulto rispetto a quanto hanno compiuto. Solo dopo i 2 anni richiamano l’attenzione della madre, mostrando il loro bisogno di approvazione. È solo verso la fine del periodo prescolare che i bambini diventano più autonomi, per cui il giudizio di sé non dipende più dalla reazione dell’adulto, ma successo ed insuccesso dipendono ora dai modelli propri del bambino.

Dunque, nelle prime fasi dello sviluppo il genitore svolge un ruolo attivo nello sviluppo del concetto di Sé del bambino attraverso il proprio stile di accudimento. Infatti è proprio quest’ultimo che andrà anche ad influenzare il concetto che il bambino avrà degli altri, ed il tipo di attaccamento che si verrà a delineare con la figura di riferimento farà da base per lo sviluppo socio-relazionale del piccolo e per le successive abilità interpersonali. 

Il concetto di Sé negli stili di attaccamento

Nell’attaccamento sicuro il bambino matura una rappresentazione di sé come persona degna di amore e dell’altro come segno di fiducia ed inoltre ha una valutazione positiva dell’emozione di attaccamento.

La rappresentazione, oltre che unitaria, è particolarmente coerente ed organizzata, perché tutte le emozioni di attaccamento provate sono valutate positivamente in quanto rispecchiate e convalidate da una figura di attaccamento disponibile ed affidabile.

L’attaccamento insicuro evitante invece è caratterizzato dall’evitamento della figura di riferimento a causa del sentimento di incertezza circa la possibilità di ricevere una risposta di conforto dal genitore nei momenti di bisogno.

Questo porta il piccolo a sviluppare una rappresentazione di sé come indegno dell’attenzione protettiva dell’altro, e dell’altro come indisponibile. Il bambino con attaccamento evitante avrà una valutazione negativa dell’emozione di attaccamento e le stesse emozioni vengono considerate come inefficaci a causa delle risposte inappropriate del genitore.

Egli impara a non piangere perché altrimenti il genitore andrà via subito (“io non ti disturbo, tu non andare via”), dunque la strategia organizzata del bambino evitante per trattenere il genitore è quella di non disturbare.

Il bambino, quindi, oltre ad imparare che non bisogna disturbare per evitare che la figura di riferimento si allontani, maturerà un’idea di sé e degli altri come poco amabili e poco affidabili; tutto ciò inevitabilmente condizionerà il modo in cui il piccolo, nei primi anni di vita, imparerà a costruire relazioni interpersonali. Il bambino infatti impara a prevedere, in maniera malinconica, che verrà sempre rifiutato.

L’attaccamento insicuro ambivalente-resistente è invece caratterizzato dalla contraddittorietà dei comportamenti causati dall’insicurezza provata dal bambino nei confronti della disponibilità del genitore e della sua capacità di rispondere in modo adeguato e pertinente alle proprie richieste e bisogni di accudimento.

In questo caso la contraddittorietà dei comportamenti ne rispecchia un’altra a livello cognitivo, difatti il bambino può sviluppare una rappresentazione di sé come degno di attenzione, e al contempo una opposta come indegno di affetto e amorevolezza nei momenti di difficoltà.

Infine c’è l’attaccamento insicuro disorganizzato dominato da comportamenti estremamente caotici, spesso stereotipati e non finalizzati causati dalla presenza di un genitore “spaventato/spaventante”. Come nell’attaccamento evitante, anche in questo caso le condotte comportamentali esterne riflettono un qualcosa di più profondo a livello cognitivo ovvero una rappresentazione di sé estremamente fragile, disorganizzata, frammentaria e imprevedibile. Ciò determina un quadro assai preoccupante che predispone allo sviluppo di una personalità turbata ed disregolata, che a sua volta rappresenta un importante fattore di rischio per esiti psicopatologici in età evolutiva, adolescenziale e adulta.

Le tappe dello sviluppo socio-relazionale

Come accennato precedentemente, il bambino nasce con un’innata predisposizione ad entrare in relazione con l’essere umano, in parte per soddisfare il bisogno primario di sopravvivenza e in parte per ricevere l’amore, il sostegno, e il conforto di cui ha bisogno. Dunque il termine “sviluppo socio-relazionale” sottolinea come fin da subito il neonato sia un essere sociale che diviene sempre più consapevole e competente grazie ad una serie di processi bidirezionali di interazione.

Volendo effettuare una schematizzazione dello sviluppo socio-relazione del bambino è possibile distinguere dei range di età a cui corrispondono determinati comportamenti:

Durante le prime settimane di vita si osserva una predisposizione innata del neonato a prediligere i volti umani rispetto a quelli non umani. Il suo interesse si focalizza sui movimenti degli occhi e delle labbra, sulle forme rotondeggianti rispetto a quelle spigolose e il contrasto di colori tra le varie parti del volto (ad esempio tra la fronte e l’attaccatura dei capelli). Per questo motivo il bambino, dal primo giorno fino ai due mesi circa, impiega gran parte del suo tempo nell’osservazione del volto materno; a tal proposito è interessante notare che il bambino in quest’epoca di sviluppo presenti una messa a fuoco di 20 cm, che rappresenta proprio la distanza tra il seno della mamma, dove il piccolo viene amorevolmente coccolato e allattato, e il volto si quest’ultima. Difatti è proprio durante l’allattamento che mamma e figlio imparano a conoscersi, osservandosi a vicenda.

Dal secondo mese fino alla fine del quarto si intensifica il ruolo attivo del bambino nei rapporti sociali, soprattutto grazie all’aumento dei tempi di attenzione reciproca che, in quest’epoca di sviluppo, è di circa 5 secondi o più. Il piccolo cerca attivamente il contatto visivo e passa più tempo a osservare il volto del genitore. Questa fase viene chiamata “intersoggettività primaria” o “relazione nucleare” e rappresenta la prima vera e propria intenzione sociale del bambino ad entrare in relazione con l’altro, prefigurandosi come una delle principali tappe dello sviluppo socio-relazionale. In questo periodo, inoltre, emerge il sorriso di natura chiaramente sociale. Il piccolo risponde alle espressioni del genitore e ricambia con gesti della mano, sorrisi, vocalizzazioni e movimenti della bocca e delle lingua, definiti prelinguistici. Questo risulta essere un fattore importante dal momento che le competenze comunicative sono correlate con le relazioni che il bambino intraprende con le altre persone, per tale ragione queste due capacità viaggiano parallelamente alimentandosi a vicenda per tutto il periodo di sviluppo del bambino, influendo sulle modalità di interazione e di adattamento con l’ambiente.

Dai 4 ai 6 mesi, i vocalizzi con la madre entrano a far parte di un vero e proprio gioco di scambio, lasciando nel corso delle settimane, il posto a suoni più complessi come gridolini, pernacchie e borbottii. La partecipazione all’ambiente che lo circonda si fa più marcata e lo dimostra sia volgendosi verso le persone che parlano sia esplorando gli oggetti portandoli alla bocca.

Il periodo dal sesto al nono mese rappresenta una svolta sul piano cognitivo e comunicativo, infatti il bambino comincia ad interessarsi agli oggetti a sperimentarli secondo le loro caratteristiche ed inizia a comprendere la relazione causa-effetto per cui ad ogni azione corrisponde una reazione. Questa nuova acquisizione viene trasferita in ambito relazionale, difatti il piccolo promuove un serie di comportamenti finalizzati ad attirare l’attenzione della mamma allo scopo di produrre in essa una risposta comportamentale. Questi comportamenti rientrano nelle cosiddette “reazioni circolari secondarie”.

Fa la sua comparsa anche lo sguardo referenziale, ovvero l’utilizzo dello sguardo per stabilire con la figura di riferimento una sintonizzazione emotiva e per avere una sicurezza prima di agire. Difatti in questa fase dello sviluppo, emerge anche l’attenzione condivisa, o anche detta “intersoggettività secondaria”, per cui il bambino segue lo sguardo dell’adulto dando inizio ad una comunicazione definita triadica in cui l’interesse si sposta sul focus di attenzione dell’altro a condizione che sia la mano che indica che l’oggetto siano nel medesimo camp visivo.

In questo periodo, inizia anche a rispondere in maniera pertinente ai cambiamenti di espressione facciale della madre: l’imitazione, tipica delle prime settimane, lascia il posto a veri e proprio momenti comunicativi basati sulla sintonizzazione emotiva con la madre.

Dai 9 ai 12 mesi compaiono i gesti deittici quali pointing dichiarativo e richiestivo; il primo consiste nel puntare l’indice verso l’oggetto desiderato per richiamare l’attenzione dell’altro, mentre quello dichiarativo viene utilizzato dal bambino per condividere l’interesse con l’altro nei confronti di un oggetto o evento. Difatti diventa anche capace di dirigere attivamente l’attenzione dell’adulto verso un evento esterno. Compaiono anche i gesti rappresentativi come “ciao ciao” o scuotere la test per dire “no”.

Nel secondo anno di età il linguaggio verbale prende il sopravvento su quello non verbale, infatti si manifesta la cosiddetta “esplosione del vocabolario” in cui il bambino parte da un repertorio di 50 parole fino ad arrivare a circa 300. Questo gli consente di fare le prime combinazioni di parole fino ad arrivare all’utilizzo della frase dirematica e trirematica.

Dunque con l’avanzamento dello sviluppo del bambino si verifica anche un miglioramento quantitativo e qualitativo della comunicazione verbale e non verbale. Il bambino passa così da un nucleo di interazioni faccia a faccia con le figure genitoriali all’utilizzo del canale comunicativo verbale dapprima con le persone vicine e poi con le altre. Infatti con l’inserimento del bambino nell’ambiente scolastico, le abilità sociali si arricchiscono sempre di più, si stabiliscono relazioni sociali temporanee o stabili con i coetanei, con le maestre, e dunque i primi rapporti di amicizia e di affetto. In questa fase esso diventa anche capace di risolvere conflitti e problemi di natura interpersonale.

Ciò che il bambino sperimenta in ambito familiare dalla relazione con le figure genitoriali, viene investito nelle relazioni con gli altri  trasferendo quanto appreso in altri contesti e in altri rapporti. Dunque le modalità comunicative e relazionali sperimentate con il caregiver, saranno l’impronta su cui il bambino baserà le sue future relazioni.

Come il comportamento genitoriale influenza le competenze sociali del bambino

Nel corso del suo sviluppo, il bambino si trova a dover fronteggiare una serie di compiti che se vengono risolti in maniera positiva conducono al successo e all’acquisizione di abilità fondamentali per far fronte a quelli seguenti che si verificheranno nelle successive epoche di sviluppo; se invece si assiste all’insuccesso nella risoluzione di questi, quello che governerà sarà prima di tutto un senso di infelicità nel bambino, disapprovazione sociale e difficoltà nell’affrontare i compiti successivi.

La risoluzione o il fallimento di questi compiti è mediata in modo significativo dalle figure genitoriali che, in base al tipo di comportamento che scelgono di adottare, possono facilitare o, di contro, ostacolare l’acquisizione di specifiche competenze nel proprio figlio, soprattutto sul versante socio-relazionale.

Per ogni range di età il bambino si trova a dover affrontare compiti differenti, la cui complessità è indissolubilmente legata allo sviluppo globale del piccolo.

Nel primo anno di vita il bambino è totalmente dipendente dall’altro ed è quindi “costretto” ad affidarsi a chi si prende cura di lui. Se alle richieste di bisogno vengono date delle risposte adeguate da parte del caregiver, quello che svilupperà sarà un senso di fiducia prima di tutto nei propri confronti e nella figura di riferimento, e successivamente nei confronti delle altre persone che entreranno a far parte della sua vita in maniera più o meno importante.

Se invece le risposte risultano inadeguate, il bambino sarà più incline a maturare un senso di sfiducia nei propri confronti e negli altri, causato dal mancato affetto ricevuto e dall’assenza delle figure di riferimento nei momenti più importanti: il bambino percepirà se stesso come non degno di ricevere amore e gli altri come persone non meritevoli di ricevere le proprie attenzioni e la propria fiducia. Dunque le abilità sociali saranno decisamente scarse e i rapporti interpersonali limitati.

Il secondo anno di vita rappresenta il periodo cruciale in cui avviene l’exploit di una serie di competenze che fanno capolinea nel primo anno di vita per poi maturare appieno nel secondo. Si verifica infatti un intenso sviluppo sul piano motorio, cognitivo, comunicativo-linguistico.

Fondamentale in questa fase è il ruolo del genitore: è importante per il bambino ricevere il giusto incoraggiamento durante le nuove esperienze e l’acquisizione di nuove competenze al fine di maturare quel senso di sicurezza in se stesso, autonomia, efficacia e capacità di autocontrollo nonché di tolleranza alle frustrazioni. Difatti il genitore offrendo il proprio aiuto durante esperienze potenzialmente difficili e ad alto rischio di esito negativo, rassicura il proprio bambino fornendo conforto e incoraggiandolo.

Al contrario un comportamento genitoriale iper-protettivo o ridicolizzante inficia sui processi di maturazione di autonomia e sicurezza in se stessi, promuovendo, di contro, un atteggiamento punitivo nei propri confronti dominato da sentimenti di vergogna e incertezza circa le proprie competenze; sentimenti che inevitabilmente si ripercuotono anche sulla capacità di entrare in relazione con gli altri. Un bambino che sperimenta questo tipo di comportamento genitoriale avrà grosse difficoltà di interazione con i coetanei e con gli adulti, nei rapporti apparirà inibito, spaventato ed eccessivamente timido.

Il periodo compreso tra i 2 e i 6 anni rappresenta una fase dello sviluppo particolarmente fruttuosa sul versante della regolazione degli impulsi e delle acquisizioni sociali: il bambino, infatti, soprattutto tra i 4 e i 6 anni, socializza continuamente in virtù dell’inserimento a scuola e comincia a comprendere che ci sono delle modalità di comportamento appropriate e altre non appropriate nell’interazione con l’altro. È l’epoca in cui apprende la distanza di conversazione, e che ci sono delle modalità di manifestazione d’affetto non uguali per tutti, ad esempio che non può abbracciare tutti come abbraccia la mamma, e che durante l’interazione con gli altri deve appunto mantenere una certa distanza.

In questa fase avviene anche la ricerca di un equilibrio tra desiderio e inibizione degli impulsi in virtù della maturazione della corteccia prefrontale deputata alla regolazione del comportamento; inoltre essa rappresenta il substrato anatomico delle funzioni esecutive quali attenzione, memoria, pianificazione, attuazione e conclusione di comportamenti diretti ad uno scopo.

Il bambino apprende che ci sono delle regole sociali che, se rispettate, lo aiutano a diventare autonomo e responsabile.

Dunque questa risulta essere una fase particolarmente delicata in cui lo stile educativo del genitore assume un ruolo determinate: se prevale un comportamento coerente, fermo nella disciplina, ma incoraggiante, il bambino imparerà, senza sentimenti di colpa, che determinati atteggiamenti sono consentiti e atri no, senza però perdere l’entusiasmo e la spinta all’iniziativa e all’esplorazione.

Di contro, se l’atteggiamento prevalentemente assunto dal genitore è orientato al rimprovero e alla punizione (anche fisica), il bambino svilupperà sensi di colpa e l’idea che è sbagliato essere indipendenti. Nella relazione sociale, questo si tramuta in inibizione, o al contrario, in comportamenti di superiorità o addirittura bullismo nei confronti dei coetanei, in quanto il bambino apprende che anche il rimprovero e la punizione fisica sono accettabili in una relazione di amore e/o amicizia.

Tra i 6 e i 12 anni la scuola assume un ruolo cruciale, i bambini affrontano il passaggio dall’ambiente familiare a quello dai coetanei, e sviluppano una modalità di pensiero induttiva, ovvero la capacità di pianificare un’azione prima di eseguirla e di poterne immaginare e prevedere gli effetti prima ancora di averla compiuta. È il periodo in cui effettua il passaggio dalle scuole elementari alle medie e dunque scopre il piacere dell’attività intellettuale, dell’essere produttivi e nell’acquisire nuove conoscenze.

Il genitore, in questa fase, ha il compito di incoraggiare il proprio figlio nell’effettuare nuove esperienze e nel congratularsi con esso, manifestando orgoglio e soddisfazione per le avvenute acquisizioni. In questo modo il bambino matura un senso di fiducia in se stesso e nelle proprie competenze.

Al contrario, un genitore eccessivamente rigido nella disciplina, che per esempio paragona i successi del proprio figlio a quelli degli altri e che non adotta un comportamento adeguato alle esigenze, soprattutto di tipo emotivo, del bambino, si genera un senso di inferiorità soprattutto in ambito sociale: il bambino percepirà se stesso come inadeguato, cognitivamente e prestazionalmente al di sotto rispetto dei pari e sarà alla costante ricerca dell’approvazione dell’adulto, mettendo in atto, a tale scopo, comportamenti competitivi evidenziabili soprattutto nel gioco, privilegiando per esempio giochi di gare dominati dal bisogno di prevalere sugli altri, al fine di dimostrare di possedere anch’esso delle potenzialità.

Dunque il genitore può assumere dei comportamenti adeguati o, al contrario, trasmettere messaggi completamente inadeguati e distorti.

I comportamenti educanti possono essere, ad esempio consistere in: stimolare l’assunzione di piccole responsabilità, insegnare le funzioni delle regole e spiegare come sono strutturate, differenziare ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che è importante da ciò che non lo è, insegnare come conciliarsi con gli altri quando insorgono dei problemi e far capire che discutere serve per risolvere le questioni e non per ottenere delle conferme, permettere loro di fare le cose a modo proprio, individuando strategie personali per risolvere i problemi, stimolarli a fidarsi delle proprie sensazioni e dei propri sentimenti come fonti valide di informazione su cosa sta succedendo.

Al contrario i comportamenti non adeguati possono essere: il non lasciare che il bambino impari a far le cose in autonomia, interferendo o sostituendosi ad esso, lo svalutare i tentativi di padronanza del bambino enfatizzando l’errore e considerandolo un segnale di fallimento e sminuendo i successi conseguiti, non prestare ascolto alle sue argomentazioni, alle sue richieste di spiegazione, ai suoi dubbi oppure svalutarli come privi di importanza; confrontarlo con gli altri bambini; stimolarlo a gareggiare sempre contro l’altro, e non con l’altro, per primeggiare e non per migliorare; scoraggiare l’instaurarsi di relazioni positive con altre persone.

La scelta dei comportamenti da adottare per l’educazione del proprio figlio delinea un particolare stile educativo genitoriale.

Stili Educativi Genitoriali

Per stile educativo genitoriale si intende l’insieme delle modalità educative che ognuno genitore, consapevolmente o meno, si trova ad utilizzare con i propri figli. Ad ogni stile educativo corrispondono modalità comportamentali specifiche che determinano possibili esiti a lungo termine sulla personalità dei figli.

Infatti, i modelli educativi genitoriali, così come lo stile di attaccamento del bambino, influiscono sul suo modo di relazionarsi all’interno della famiglia e nel mondo sociale; questo perché genitori e figli si influenzano reciprocamente. Dunque, gli stili educativi dei genitori contribuiscono e possono avere effetti, positivi o negativi, sulla crescita e sullo sviluppo dei bambini.

Naturalmente, ogni genitore è portatore di esperienze passate e vive il ruolo genitoriale con una propria specificità. Tuttavia, nonostante tali specificità, è fondamentale che entrambi i genitori imparino a collaborare e a combinare le loro diversità per creare un approccio coerente e funzionale. Dal punto di vista educativo, infatti, è fortemente confusionario per il bambino il comportamento di due genitori che forniscono indicazioni e richieste molto diverse fra di loro e a volte contraddittorie. Quindi individuare lo stile educativo genitoriale più adatto per l’educazione dei propri figli, spesso diventa uno dei compiti più ardui e difficili per i genitori.

Gli stili educativi derivano dalla combinazione di due dimensioni:

  • Di controllo, riferito alle pressioni esercitate dei genitori per stimolare comportamenti socialmente adeguati nei figli, attivando meccanismi di controllo e di supervisione.
  • Di supporto, riferito al sostegno, alla vicinanza emotiva e alla disponibilità a soddisfare i bisogni dei figli, attivando meccanismi che stimolano l’autoregolazione e l’affermazione di sé.

Dalla combinazione di queste due dimensioni nascono tre stili educativi genitoriali, molto diversi tra loro:

Lo Stile Educativo Permissivo caratterizzato da basse aspettative nei confronti del figlio, soprattutto in termini di maturità ed autocontrollo. Il genitore permissivo è aperto al dialogo e affettuoso, soddisfa le richieste e i bisogni del bambino, senza però fornire regole e modelli di condotta; quando offre regole spesso risulta incoerente o non le mantiene con fermezza; si relaziona come figura amica piuttosto che genitoriale e usa la corruzione per ottenere dal bambino i comportamenti desiderati (ad esempio fare troppi regali e assecondare i capricci).

Gli effetti di uno stile parentale permissivo sul bambino si ritrovano nella mancanza di disciplina, scarse abilità sociali e relazionali, insicurezza a causa della mancanza di confini e modelli di comportamento a cui fare riferimento.

Lo Stile Educativo Autoritario, in cui il genitore ha elevate aspettative nei confronti del figlio, è rigido e inflessibile, molto esigente: non riesce a sentire i sui bisogni e ad ascoltarli. Il bambino deve rispettare delle regole rigide e imposte, il cui mancato rispetto comporta punizioni di tipo fisico o verbale. Difatti il genitore non suggerisce al bambino come gestire i propri comportamenti, non lo aiuta a identificare alternative e a valutare le conseguenze delle proprie azioni e non esprime calore ed affetto.

I bambini cresciuti da genitori con stile autoritario non vengono stimolati ad essere indipendenti, autonomi e a conoscere i propri limiti, ma viene loro insegnato ad aderire passivamente alle richieste e alle aspettative della società. Gli effetti di questo stile si riscontrano in una bassa autostima e in una forte difficoltà nella socializzazione e nella relazione.

Lo Stile Educativo Autorevole, in questo caso il genitore stabilisce regole e linee guida che il figlio è tenuto a seguire in modo democratico. Infatti, è in grado di adattare, per mezzo del confronto e dell’ascolto, tali regole alle esigenze e alle richieste del piccolo. Quando il bambino non riesce a soddisfare le aspettative, il genitore offre nutrimento, conforto piuttosto che punizioni.

Si tratta, dunque, di un genitore capace di impartire poche ma chiare norme di comportamento con un atteggiamento assertivo ma non invadente o restrittivo. Infatti il genitore autorevole valorizza l’indipendenza, l’autonomia ed al tempo stesso fa anche valere l’autorità.

Si tratta del modello educativo più adeguato poiché permette di fornire al bambino regole chiare, coerenti e adeguate al livello di sviluppo del figlio attraverso la spiegazione dei motivi per cui sussistono divieti o proibizioni.

Gli effetti di un’educazione autorevole sul bambino sono molto positivi, e ne permettono uno sviluppo coerente ed armonioso. Infatti consente di sviluppare autonomia, responsabilità e indipendenza, competenza sul piano delle relazioni sociali, apertura al dialogo con i genitori ed i coetanei, buona fiducia in sé e nelle proprie capacità, rispetto delle regole che però non segue passivamente ma solo dopo averle comprese, interiorizzate e fatte proprie nonché sviluppo del senso critico e buone capacità di adattamento.

Dunque, lo stile educativo autorevole è quello più idoneo per garantire lo sviluppo emotivo, sociale e relazionale dei bambini.

Difficoltà nella socializzazione

Per molti bambini non è facile esprimere le proprie emozioni, soprattutto quando non percepiscono la presenza di una dimensione relazionale sicura. Questa difficoltà comporta spesso l’incapacità da parte del piccolo di relazionarsi con i coetanei, fare amicizie e condividere con gli altri interessi e stati d’animo. Questo modello comportamentale delinea un quadro clinico definito “Disturbo della Socializzazione”.

Alla base di gran parte di questi disturbi spesso ci sono le rappresentazioni disfunzionali di sé e del mondo circostante che l’individuo si crea a partire, come già detto nei precedenti paragrafi, dai Modelli Operativi Interni che il bambino si crea grazie all’interazione ed esperienze con le figure di riferimento.

Infatti, l’interazione sociale, cioè la capacità di entrare in relazione con l’altro, richiede dei vissuti interiori adeguati. L’altro non deve creare né disagio, né paura, anzi deve essere avvertito come vicino, disponibile, attento e accettante. Solo ciò spingerà il bambino ad aprirsi con lui. Se questo non avviene, se l’altro è avvertito come distante e freddo, o viene avvertito come portatore di ansie, paure, insicurezze e frustrazioni, l’interazione sociale sarà deficitaria o non avverrà affatto.

Non bisogna dimenticare che la culla primaria di tale forma di insicurezza, timore, paura ed ansia è la famiglia che non ha saputo dare al proprio figlio un senso di accettazione e di amore incondizionato

Difatti la presenza o meno di queste difficoltà è strettamente connessa ai vissuti intra-familiari; il bambino acquista la possibilità di socializzare con gli estranei, solo se ha vissuto in maniera serena e soddisfacente il rapporto con le figure genitoriali.

La sicurezza e la bontà di questo rapporto e la serenità dell’ambiente di vita nel quale il bambino è vissuto, gli permetteranno di rivolgere il proprio interesse e la propria attenzione costruttiva anche agli estranei. Al contrario se ha sperimentato un rapportato dominato dall’insicurezza, dalla paura e dall’ansia, è molto probabile che svilupperà difficoltà nella socializzazione.

 Dunque, questa variabile può influire tanto positivamente quanto negativamente sulle capacità di interazione sociale che potranno essere ottime, normali o scarse e, quindi, patologiche.

Le forme patologiche oscillano tra due estremi: le forme con inibizione e con disinibizione.

Nelle Forme con Inibizione il bambino appare eccessivamente timido, inibito, ansioso e spaventato. La mimica appare poco vivace, mentre la postura eccessivamente rigida; non è presente l’iniziativa allo scambio comunicativo e al gioco, o, se presente, viene attuato in maniera passiva; il linguaggio infatti è coartato e povero sul piano narrativo e della connotazione emotiva.

Queste modalità inevitabilmente si riflettono anche sul gioco che rappresenta lo specchio delle sue capacità, difficoltà e potenzialità quali l’intelligenza, l’emotività, la socialità, l’affettività, le capacità motorie, quelle sensoriali ecc.

Mediante il gioco si rendono evidenti la sua disinibizione o la sua inibizione; la sua serenità interiore o il suo stato di tensione e di eccitamento; il suo stato di benessere e gioia o il suo stato di tristezza e apatia; la sua maggiore o minore reattività. In definitiva la varietà, la ricchezza e la qualità dei giochi del bambino ci permettono di osservare il suo mondo interiore e di conoscere la maggiore o minore gravità delle sue eventuali problematiche psicoaffettive.

In particolare, il gioco nel bambino che presenta le tipiche difficoltà della forma inibita si presenta con delle modalità atipiche. Per esempio nel primo anno di vita non partecipa ai giochi semplici proposti dalla madre oppure gioca molto poco con i suoi genitori o con altri adulti con i quali si è stabilito un legame affettivo e di fiducia.

Tra i tre e i quattro anni non riesce ad accettare i giochi e le regole proposte dagli altri, per cui prevalgono nettamente i giochi solitari rispetto a quelli diadici o in gruppo.

Dunque, il bambino inibito presenta grosse difficoltà a relazionarsi con i coetanei e a giocare con loro, preferendo spesso la vicinanza alla mamma piuttosto che condividere momenti ludici con gli altri bambini. Difatti molto frequentemente i bambini inibiti vanno in contro a specifici disturbi psicopatologici come ansia da separazione, mutismo selettivo, disturbi d’ansia e fobia sociale.

Al polo apposto si trovano le Forme con Disinibizione, in cui il bambino manifesta elevati livelli di attività motoria, eccessiva familiarizzazione anche con gli estranei, appare particolarmente curioso, ma distraibile, si annoia facilmente ed è alla ricerca di continui stimoli e distrazioni. Risponde alle domane che gli sono poste arricchendo le risposte con frasi poco aderenti al contesto, fa continui quesiti senza però interessarsi alle risposte.

Anche in questa forma la qualità della relazione è deficitaria, in quanto è compromesso il normale fluire degli scambi interpersonali.

Nel gioco il bambino disinibito mostra difficoltà esattamente apposte a quelle presentate dal bambino inibito, difatti riesce ad effettuare solo giochi di gruppo, ma non accetta di giocare, anche per breve tempo, da solo; non utilizza oppure impiega in maniera impropria e distruttiva i giocattoli adatti alla sua età o adopera solo pochi giochi ed in modo ripetitivo. Inoltre nel gioco, solitario o di gruppo, prevalgono costantemente attività e fantasie aggressive, distruttive o regressive, dunque comportamenti instabili e caotici.

Così come il bambino inibito, anche quello con disinibizione può andare incontro, se non supportato attraverso un adeguato percorso terapeutico, a quadri clinici di tipo psichiatrico e comportamentali quali disturbi dell’umore di tipo maniacale, disturbi della condotta e disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività.

Dunque il rapporto tra emotività e capacità relazionali è molto forte, esse si influenzano reciprocamente generando una spirale che può tanto assumere il carattere di positività favorendo, dunque, uno sviluppo psico-affettivo-comportamentale armonioso, tanto assumere il carattere di negatività causando, di contro, la distorsione, spesso patologica, del normale sviluppo del bambino, causando, purtroppo, l’insorgenza di quadri patologici che impattano sul funzionamento adattivo generale del bambino.

Infatti, i disturbi emotivi e relazionali possono emergere nel contesto scolastico, a partire dalla scuola dell’infanzia, o comunque in ambienti di socializzazione extra familiari.

Sottoporre il quadro generale nella sua complessità a un’équipe di specialisti è utile ai genitori per comprendere la situazione e a individuare il percorso terapeutico più idoneo per il proprio figlio.

 

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