Perché il termine “NEUROPSICOMOTRICISTA” viene associato al "Terapista della NEURO e PSICOMOTRICITÀ dell’Età Evolutiva" ?

Il consumo energetico nella normalità e nella patologia 

Il metabolismo ed i substrati energetici

La definizione di metabolismo è comunemente intesa come l’insieme delle reazioni biochimiche che si svolgono all’interno di un organismo. Il metabolismo intracellulare (unità fondamentale del metabolismo di un individuo) è costituito sia da reazioni cataboliche, riguardanti la degradazione dei substrati energetici come carboidrati, lipidi e proteine per la produzione di molecole di ATP, sia da reazioni anaboliche ove tali molecole vengono utilizzate per opere di costruzione. Le molecole di ATP liberano energia tramite la loro idrolisi che vede la perdita di un gruppo fosfato: la reazione chimica sarà pertanto ???↔???+? . Dell’energia chimica che si libera in seguito a reazioni cataboliche solo il 25% sarà immagazzinata in molecole di ATP, mentre il restante 75% verrà dispersa sotto forma di calore. Le reazioni anaboliche di costruzione comprendono: il mantenimento e riparazione strutturale della cellula (turnover cellulare), l’incremento di organuli per la divisione cellulare, la produzione di secrezioni in cellule secernenti e l’immagazzinamento di riserve di nutrienti. Molecole di ATP verranno scisse inoltre per fornire energia ad altre funzioni fondamentali che non riguardano processi anabolici come l’endo/esocitosi, ma soprattutto per consentire la contrazione muscolare e il movimento. Le macromolecole organiche che si diffondono nell’ambiente intracellulare (carboidrati, lipidi e proteine) subiscono una primordiale scissione nel citoplasma dove vengono degradate alle loro componenti elementari: ad es. glucosio-acido piruvico, lipidi-molecole di acido grasso, proteine-aminoacidi. Si genera di conseguenza un pool di nutrienti che verranno utilizzati sia per reazioni anaboliche di costruzione, sia per reazioni cataboliche di ulteriore degradazione. Le cellule tendono a conservare materiali indispensabili per la costruzioni di nuovi composti (enzimi o proteine strutturali, ad esempio): le proteine saranno solo in minima parte impiegate come fonte energetica per la produzione di ATP poiché gli aminoacidi, loro componenti elementari, sono al tempo stesso costituenti di tutte quelle molecole che svolgono funzioni essenziali nella cellula e che periodicamente necessitano di turnover. Al contrario carboidrati e lipidi rappresentato rispettivamente la fonte primaria e secondaria di energia: la loro degradazione inizia nel citoplasma e prosegue nei mitocondri dove l’utilizzo di O2 diviene indispensabile per innescare reazioni come la β-ossidazione e la fosforilazione ossidativa. Il metabolismo dei carboidrati è costituito dalla glicolisi che avviene nel citoplasma, dal ciclo TCA e dalla fosforilazione ossidativa che si svolgono al contrario nei mitocondri. Per glicolisi s’intende quella reazione chimica citoplasmatica di demolizione di una molecola di glucosio (C6H12O6) in 2 molecole di acido piruvico (C3H4O3). Dopo la glicolisi ogni singola molecola di acido piruvico entra all’interno della matrice mitocondriale, riducendosi dapprima ad AcetilCoA, per poi entrare successivamente nel ciclo dei TCA definito anche come Ciclo di Krebs: tale processo finisce in ultima istanza con la rimozione di 2 atomi di carbonio e la produzione di acido ossalacetico. Il processo metabolico successivo, che produce oltre il 90 % dell’ATP utilizzata dalle cellule, prende il nome di Sistema di trasporto degli elettroni e si basa su reazioni di ossidoriduzione. Il Sistema di trasporto degli elettroni è costituito sia da complessi proteici sia da molecole più semplici: durante il passaggio di elettroni da enzima della catena all’altro, i complessi proteici che si ossidano (che cedono elettroni) pompano ioni idrogeno nello spazio intermembrana generando un gradiente protonico elettrochimico trans membrana (gpet) che consente la produzione di molecole di ATP. Quando il Citocromo c, ultimo complesso della catena, trasferisce gli elettroni all’ossigeno con conseguente formazione di H2O, gli ioni idrogeno precedentemente pompati nello spazio intermembrana ritornano nella matrice mitocondriale tramite dei complessi chiamati ATPsintasi, consentendo la formazione diretta di molecole di ATP: quest’ultimo processo ed il Sistema di trasporto degli elettroni costituiscono nel loro insieme la fosforilazione ossidativa. La resa energetica totale derivante dall’ossidazione di una molecola di glucosio è di 36 molecole di ATP di cui 6 dalla glicolisi, 2 dal Ciclo TCA e ben 28 dalla fosforilazione ossidativa. La degradazione dei lipidi costituisce un processo più lento e che vede una spesa maggiore di ossigeno. Quando la macromolecola lipidica entra nel citosol, essa va incontro ad un’iniziale degradazione che ne vede la scissione in 1 molecola di glicerolo e 3 molecole di acido grasso: tale processo prende il nome di lipolisi. Al contrario del glicerolo il cui destino sarà simile al glucosio, ogni singola molecola di acido grasso entrerà all’interno del mitocondrio innescando un processo chiamato β-ossidazione: in ogni passaggio della reazione catabolica l’acido grasso verrà scisso in AcilCoa + AcetilCoa, con quest’ultimo che successivamente prenderà parte al Ciclo TCA. La resa energetica derivante dall’ossidazione di 1 molecola di acido grasso è di circa 144 molecole di ATP: questo ci dimostra che i lipidi sono una riserva molto importante anche se tuttavia la loro difficoltà ad essere idrolizzati, la durata maggiore del loro processo di degradazione, il maggior consumo di ossigeno e l’elevata disponibilità mitocondriale richiesta ne fanno una fonte solo secondaria di energia

L’ATP nella contrazione muscolare

La contrazione muscolare è una funzione fondamentale del nostro organismo eseguita da un gruppo di cellule altamente specializzate, riunite in sincizi, che prendono il nome di fibre muscolari: esse andranno in contro ad una serie di modificazioni strutturali durante l’attività contrattile per poi tornare alla loro condizione naturale una volta esauritosi il potenziale d’azione proveniente dalle terminazione nervose. Esistono 3 tipologie di tessuto muscolare presente nel nostro organismo:

  • Il tessuto muscolare liscio, presente nella parete dei vasi sanguigni e nei visceri
  • Il tessuto muscolare cardiaco striato, localizzato esclusivamente nel cuore
  • Il tessuto muscolare scheletrico, costituente dei muscoli dell’apparato locomotore la cui contrazione è sotto controllo volontario del SNC

Il movimento intesto come produzione motoria volontaria è quindi esclusiva del tessuto muscolare scheletrico e, di riflesso, dei muscoli scheletrici. Come suggerisce Schmidt, “ Il muscolo scheletrico è organizzato in modo gerarchico ; i fasci muscolari sono costituiti da centinaia di componenti contrattili tubulari , le miofibrille , le cui pietre miliari , i sarcomeri , sono costituiti da filamenti spessi e filamenti sottili , ed anche dalla proteina titina “(Schmidt,2008): il sarcomero risulta quindi la vera unità contrattile del muscolo ed esso è costituito da 2 strie Z , situate all’estremità e da una banda A formata a sua volta da filamenti spessi di miosina, filamenti leggeri di actina e dalla Linea M situata al centro.
Fig.10: Struttura di un muscolo scheletrico striato

Fig.10: Struttura di un muscolo scheletrico striato

La contrazione muscolare è costituita dallo scivolamento dei filamenti sottili di actina verso la Linea M per conto dell’azione dei ponti trasversi di miosina: tale processo comporta l’accorciamento simultaneo di più sarcomeri, i quali a loro volta determinano l’accorciamento della fibra muscolare e per esteso del muscolo scheletrico. Le miosine sono delle proteine in grado, mediante la loro attività ATPasica, di convertire l’energia chimica in energia meccanica dando così luogo alla contrazione muscolare: per la formazione di un filamento spesso occorrono circa 150 molecole di tale proteina. Il singolo filamento di miosina presenta due sub unità: la testa o ponte trasverso (sub unità S1), costituita da 4 catene peptidiche leggere e dalle estremità delle catene peptidiche pesanti e la coda (sub unità S2), formata della restante porzione delle due catene pesanti. La testa rappresenta il sito di legame per il filamento sottile di actina e per l’ATP: è inoltre responsabile dell’idrolisi di quest’ultima in ADP + P e della conversione dell’energia chimica sprigionata in energia meccanica per dare origine al ciclo dei ponti trasversi. Le molecole di ATP si legano quindi alle teste della miosina determinando un loro iniziale allontanamento dai filamenti actina. L’idrolisi dell’ATP in ADP + P comporta in prima istanza un cambiamento nella conformazione dei ponti trasversi, consentendo lo ristabilirsi dei legami con i filamenti di actina adiacente; successivamente fornisce la forza necessaria per spingere i filamenti sottili verso la Linea M determinando in macroscopico la contrazione muscolare. Una volta terminato tale processo l’ADP si rilascia dalle teste di miosina e per riattivare il ciclo sarà necessaria la formazione di un nuovo legame di quest’ultime con nuove molecole di ATP. L’attività delle teste di miosina si ripete per circa 10-100 volte al secondo dall’iniziale attività ATPasica e perdura fino all’esaurirsi del potenziale di azione. Il ciclo dei ponti trasversi ha luogo anche durante lo svolgimento di una contrazione isometrica dove non è apprezzabile una modificazione della lunghezza del muscolo. Nel nostro organismo esistono almeno 7 diverse isoforme di miosina le quali si differenziano per quota di scissione di ATP, ovvero di utilizzo dell’energia nell’unità di tempo. Esistono altre molecole oltre all’ ATP che interferiscono attivamente nel ciclo dei ponti trasversi: ad esempio la concentrazione di Ca2+ inorganico nella fibra muscolare regola attivamente la disponibilità del legame tra le teste di miosina ed i filamenti sottili di actina. Ad altre concentrazioni di calcio infatti avviene una modificazione strutturale nei complessi di troponina e tropomiosina disposti lungo il filamento elicoidale sottile di actina, i quali inibiscono in condizioni normali il ciclo dei ponti trasversi: quando il potenziale d’azione si esaurisce, il Ca2+ viene riassorbito nel reticolo sarcoplasmatico ed il muscolo si rilascia. Nonostante il meccanismo universale dell’accorciamento dell’unità contrattile, la produzione di movimento volontario è essenzialmente influenzata da due fattori basilari: l’organizzazione macro e microscopica del muscolo coinvolto e la tipologia di contrazione muscolare. Il primo fattore si basa essenzialmente sulla disposizione dei fascicoli (strutture nelle quali sono riunite le fibre muscolari) all’interno del muscolo scheletrico che influenza la potenza espressa e l’ampiezza del movimento. In base a tale premessa possiamo pertanto distinguere:

  • Muscoli paralleli, nella quale i fascicoli sono disposti parallelamente all’asse longitudinale del muscolo (es. Muscolo bicipite brachiale). Se nel loro decorso longitudinale, i fascicoli vengono interrotti da inserzioni tendinee, tali muscoli verranno più correttamente denominati come muscoli nastriformi (es. Muscolo sartorio)
  • Muscoli convergenti, nel quale i fascicoli sono disposti a ventaglio, distribuiti su un’ampia area e convergenti sul punto d’inserzione (es. Muscolo pettorale)
  • Muscoli pennati, nel quale l’orientamento dei fascicoli ricorda quello delle barbe di una penna: essi infatti sono disposti secondo una linea angolare determinata dall’ dal tendine. Il gruppo dei muscoli pennati comprende delle sottocategorie che variano a seconda dalla tipologia d’inserzione tendinea: parleremo di muscoli unipennati (es. Muscolo vasto mediale) se unilaterale, di muscoli bipennati (es. Muscolo gastrocnemio) se bilaterale e di muscoli multipennati (es. Muscolo deltoide) se ramificata.
  • Muscoli circolari, nei quali la disposizione dei fascicoli è concentrica (es. Muscolo orbicolare della bocca). Se disposti in prossimità di orifizi, prendono il nome di sfinteri

Fig.11: Tipologie di contrazione muscolare. Da sinistra possiamo osservare esempi di muscolo a) parallelo, b) unipennato, c) bipennato, d) bicipite, e) nastriforme, f) appiattito, g) multipennato, h) digastrico (non volontario), i) circolare. (Immagine presa dal libro “Cinesiologia” di Boccardi, 1977)

Fig.11: Tipologie di contrazione muscolare. Da sinistra possiamo osservare esempi di muscolo a) parallelo, b) unipennato, c) bipennato, d) bicipite, e) nastriforme, f) appiattito, g) multipennato, h) digastrico (non volontario), i) circolare. (Immagine presa dal libro “Cinesiologia” di Boccardi, 1977)

Esistono diverse tipologie di contrazione muscolare, le quali si suddividono fondamentalmente in due grandissimi gruppi: le contrazioni isotoniche e le contrazioni isometriche. Nelle contrazioni isotoniche il muscolo, dopo aver captato il potenziale d’azione proveniente dalle fibre nervose, modifica la propria lunghezza generando tensione muscolare: si distinguono pertanto contrazioni isotoniche dove il muscolo si accorcia (contrazioni concentriche) e contrazioni isotoniche dove il muscolo controlla il proprio rilasciamento (contrazioni eccentriche). Nella contrazione concentrica il muscolo genera una tensione (forza interna) superiore alla forza esterna, rappresentata dalle resistenze che si oppongono all’azione muscolare: il risultato sarà la produzione di un lavoro positivo con accorciamento delle fibre muscolari. Nella contrazione eccentrica il muscolo genera una tensione che risulta inferiore rispetto alla forza esterna, determinando un lavoro negativo con allungamento controllato delle fibre muscolari. Nella contrazione isometrica la forza interna non supera né viene superata dalla forza esterna determinando una situazione di equilibrio: ad un allungamento delle strutture fusali consegue un accorciamento della componente contrattile (fibre muscolari) cosicché la distanza tra le inserzioni muscolari e le leve ossee rimanga costante (Boccardi,1977).

Fibre muscolari e sistemi energetici

Le fibre muscolari non si differenziano esclusivamente in base alla presenza di diverse forme di miosina bensì per molteplici caratteristiche biochimiche, funzionali e strutturali. Ad esempio la loro colorazione è direttamente proporzionale alle concentrazioni di mioglobina, la quale è responsabile del trasporto e della diffusione di O2 nel sarcoplasma: un’elevata presenza di questa proteina determina la colorazione rossa della fibra muscolare, mentre in caso contrario ne costituisce la colorazione bianca. La presenza di mioglobina orienta il metabolismo della fibra muscolare: pertanto le fibre rosse di tipo I avranno un metabolismo prevalentemente aerobico, mentre al contrario le fibre bianche di tipo IIa/IIb agiranno secondo sistemi energetici anaerobici. Poiché nella struttura del muscolo scheletrico osserviamo frequentemente un coesistenza di fibre rosse di tipo I e fibre bianche di tipo IIa o IIb, i muscoli stessi potranno essere classificati in muscoli rossi (a più alta concentrazione di fibre rosse) e muscoli bianchi (a più alta concentrazione di fibre bianche). I sistemi metabolici energetici utilizzati per la produzione di energia dalle fibre muscolari sono 3:

  • Il sistema anaerobico alattacido, ovvero il processo più veloce per la produzione di molecole di ATP: esso viene utilizzato quando lo sforzo dell’esercizio richiede una spesa energetica ampia nelle sue fasi iniziali (es. sollevamento pesi, scatto dei 100 metri) e si basa sulla reazione chimica ??????????????+???→????????+???.
  • Il sistema aerobico lattacido che vede la scissione di riserve muscolari di glicogeno in acido piruvico, il quale viene successivamente convertito in acido lattico poiché non ossidabile in mancanza di O2: questa reazione determina un abbassamento del ph nell’ambiente intracellulare e conduce ad un rapido affaticamento da parte dell’individuo.
  • Il sistema aerobico che s’instaura dopo 2 minuti circa dell’inizio dell’attività fisica e si basa sull’ossidazione di substrati energetici come il glucosio ed i lipidi grazie all’utilizzo di O2 a livello mitocondriale. La resa energetica totale del processo aerobico è maggiore rispetto a quella prodotta in anaerobiosi: tuttavia l’efficienza muscolare in quest’ultimi risulta maggiore perché la produzione di ATP è più immediata e di conseguenza maggiore nell’unità di tempo.

In conclusione possiamo suddividere le fibre muscolari in 3 tipologie: fibre rosse di tipo I, fibre bianche di tipo IIa e fibre bianche di tipo IIb. Le fibre muscolari rosse di tipo I sono di piccolo diametro, hanno una ricca vascolarizzazione e dispongono di una grande quantità di mitocondri: tali caratteristiche ne determinano un orientamento aerobico. Le fibre bianche di tipo IIa vengono definite intermedie. Esse hanno un diametro più grande rispetto alle fibre di tipo I e la loro colorazione è biancastra per la ridotta presenza di mioglobina: tuttavia il loro metabolismo attinge a sistemi energetici sia aerobici che anaerobici grazie alla contemporanea disponibilità di una fitta rete capillare e di riserve di glicogeno adeguate. Le fibre bianche di tipo IIb, dette anche glicolitiche, sono di ampio diametro ed utilizzano selettivamente sistemi anaerobici per la produzione di energia: pertanto esse presenteranno caratteristiche peculiari quali un’elevata presenza di riserve di glicogeno e creatinfosfato ed una considerevole concentrazione di enzimi glicolitici.

Metabolismo basale e attività fisica

Il metabolismo basale indica il dispendio energetico che attinge alle funzioni vitali come respirazione, frequenza cardiaca, digestione ed attività del SNC e viene calcolato in kcal/min (energia/unità di tempo). Il termine basale è correlato al fatto che il soggetto, quando viene eseguita tale misurazioni, deve trovarsi in precise condizioni definite per l’appunto basali: il paziente deve aver trascorso una notte riposante e si deve trovare in uno stato di veglia quieta, deve essere a digiuno da 12 ore, non deve aver praticato attività fisica un ‘ora prima della misurazione e non deve trovarsi in condizioni di eccitazione mentale o fisica. Altri fattori che possono incidere sulla stima del Metabolismo Basale sono il sesso (è comunemente più alto negli uomini rispetto alle donne), l’età (è minore nelle persone anziane), la temperatura ambientale, la presenza di stati patologici e l’assunzione di farmaci. In condizioni normali si potrà apprezzare che le percentuali maggiori di consumo energetico sono al servizio del fegato (26 %), dei muscoli scheletrici (26 %) e del SNC (18 %). Il metabolismo basale costituisce il 65-75 % del Fabbisogno calorico giornaliero, ovvero dell’apporto di energia (da fonti alimentari) necessaria per garantire le funzioni vitali e l’attività sociale, fisica e lavorativa. Le restanti percentuali del Fabbisogno calorico giornaliero sono rappresentate dalla Termogenesi indotta dagli alimenti (TID) e soprattutto dall’Attività fisica giornaliera, area costituita da azioni quotidiane (il camminare ed il salire e scendere le scale, ad es.) che ricopre una quota di circa il 30 % nel dispendio energetico totale. L’Attività fisica giornaliera è suddivisa in esercizi fisici a bassa, media ed alta intensità: questa classificazione si basa sulle percentuali di Massima Potenza Aerobica (VO2MAX) impiegate normalmente da un soggetto sano. Con Massima Potenza Aerobica si definisce “il massimo volume di ossigeno consumabile nell’ unità di tempo da un individuo, durante una contrazione muscolare “. In base alle percentuali di VO2MAX le attività fisiche si suddividono in esercizi a bassa intensità con un consumo pari o inferiore al 25-35% del VO2MAX, in esercizi a media intensità con un consumo che si aggira sul 50-60% del VO2MAX ed esercizi ad alta intensità con un consumo di circa il 75-90 % il valore del VO2MAX. Nell’esercizio fisico a bassa intensità la produzione di energia nella fibra muscolare è inizialmente sostenuta sia attraverso meccanismi aerobici (derivanti dai depositi di O2 presenti nell’emoglobina e nella mioglobina) che anaerobici poiché l’iniziale captazione di ossigeno, che aumenta progressivamente con lo sforzo muscolare richiesto, non riesce in un primo momento a coprire il fabbisogno energetico necessario. Questa condizione iniziale, definita con il termine di deficit di ossigeno, tende ad equilibrarsi dopo 2-3 minuti circa quando il sistema aerobico raggiunge uno stadio stazionario (steady state) diventando la via metabolica preferenziale per la produzione di ATP. Al termine dell’esercizio fisico aumenta il consumo di ossigeno a livello intracellulare, permettendo il ripristino delle riserve di glicogeno, di creatinfosfato, dei depositi di O2 della mioglobina ed emoglobina e consentendo il riequilibrio dei parametri cardio- respiratori: questa condizione prende il nome di debito di ossigeno. Nell’esercizio fisico ad alta intensità, l’affaticamento precede l’instaurarsi di uno stadio stazionario del consumo di ossigeno e di conseguenza le vie metaboliche coinvolte saranno esclusivamente anaerobiche inizialmente con il sistema anaerobico alattacido e successivamente (dopo 8-10 secondi circa dall’inizio dell’esercizio fisico) con il sistema anaerobico lattacido, il quale consente di mantenere elevata l’intensità del lavoro muscolare. Tale sistema vede dapprima la scissione di riserve muscolari di glicogeno in acido piruvico e la loro seguente conversione in acido lattico in condizione di anaerobiosi: questa reazione determina un abbassamento del ph intracellulare e conduce ad un rapido affaticamento da parte dell’individuo. L’accumulo di acido lattico nel muscolo interferisce pertanto nella contrazione muscolare, abbassando il ph da 6.9 (valore in condizioni di riposo) a 6.5: tale fenomeno inibisce il rilascio di ioni Ca2+ da parte del reticolo sarcoplasmatico, elemento essenziale per la contrazione muscolare. Il sistema anaerobico alattacido può consentire elevate intensità di attività fisica per un tempo limitato di 30-40 secondi e successivamente l’individuo sarà costretto o a ridurre lo sforzo facendo subentrare un sistema aerobico, o ad interrompere l’esercizio. Negli esercizi massimali, lo sforzo richiesto nelle fasi iniziali può risultare talmente ampio che sia necessario consumare tutte le riserve del creatinfosfato presenti nelle fibre muscolari coinvolte: in tal caso il supporto energetico è muscolare vira da un metabolismo prevalentemente aerobico ad uno prettamente anaerobico, con conseguente aumento della concentrazione del lattato nel circolo sanguigno. I sistemi energetici che vengono svolti in anaerobiosi sono più efficienti perché consentono una maggior produzione di ATP nell’ unità di tempo e, di conseguenza, l’espressione di una maggior potenza muscolare: tuttavia la loro capacità in termini di durata risulta ampiamente limitata rispetto al metabolismo ossidativo. I parametri cardio-respiratori aumentano progressivamente con l’intensità dell’esercizio: in particolare è stata dimostrata una correlazione lineare tra consumo di ossigeno e frequenza cardiaca in esercizi al di sotto della soglia anaerobica (Schmidt,2008).

L’affaticamento muscolare nei bambini e negli adulti

Nonostante in ambito clinico la fatica sia stata oggetto di dibattiti e rivisitazioni, specialmente nel secolo scorso, possiamo ad oggi comunemente definirla come “l’impossibilità di un processo fisiologico di continuare a funzionare ad un determinato livello o l’incapacità di mantenere una determinata intensità d’esercizio da parte dell’organismo”, in accordo con il Ciba Foundation Symposium (Ratel et al, 2006). Nel corso degli anni sono stati sviluppati inizialmente protocolli di valutazione della fatica mediante esercizi isometrici in combinazione con l’utilizzo della Risonanza Magnetica Spettroscopica 31-fosfato e dell’EMG di superficie (Ratel et al., 2006): la valutazione si basava sulla capacità di mantenere costante un determinato livello di forza muscolare. Successivamente l’attenzione si è spostata verso gli esercizi dinamici, più frequentemente submassimali, nella quale la fatica veniva considerata come l’incapacità di mantenere una produzione di potenza (forza x spostamento/tempo) costante col ripetersi della performance: tutt’oggi la ricerca scientifica risulta orientata verso quest’ultimo approccio per la miglior rilevazione di processi metabolici coinvolti nello sforzo. Secondo la letteratura, possiamo distinguere sintomi “centrali” della fatica, riguardanti il I° motoneurone e le vie discendenti, e sintomi “periferici” relativi a tutti quei processi che avvengono tra il II° motoneurone e la fibra muscolare: ad oggi si ritiene che quest’ultimi siano i principali contribuenti. Tra i fattori periferici assume particolare importanza il meccanismo di eccitazione-contrazione delle fibre muscolari, il quale comprende a sua volta 3 eventi correlati:

  • La propagazione dell’impulso nervoso lungo il sarcolemma
  • L’attivazione dei miofilamenti contrattili tramite il rilascio di Ca2+
  • Il rilassamento del muscolo tramite il re-uptake del Ca2+

L’instaurarsi della fatica, secondo quanto ipotizzato da Ratel e collaboratori, deriverebbe da crescenti problematiche nella replicazione di tale meccanismo: a causar ciò sarebbero soprattutto fattori metabolici ed in particolar modo l’accumulo di fosfato inorganico (Pi) e la diminuzione del ph all’interno della fibra muscolare (Ratel et al., 2006). Di conseguenza, una buon resistenza alla fatica deriverebbe secondo tali supposizioni, sia da un miglior recupero delle riserve di creatinfosfato che da una miglior clearence dei prodotti di scarto del metabolismo muscolare, quali lattato ed ioni H+. Altri meccanismi periferici riguardano la composizione (fibre rosse tipo I vs fibre bianche tipo IIa o IIb) e la massa dei muscoli coinvolti nell’esercizio fisico: se il primo parametro è legato strettamente alla tipologia di metabolismo coinvolto durante lo sforzo (ossidativo vs anaerobico), la massa muscolare è direttamente proporzionale sia alla capacità di produzione di forza e potenza da parte del muscolo stesso che all’instaurarsi della fatica. Per quanto riguarda i meccanismi centrali, i principali fenomeni studiati sono la co-contrazione degli antagonisti ed il processo di reclutamento di unità motorie a livello di midollo spinale in termini di quantità e tipologia (motoneuroni a bassa frequenza di scarica vs motoneuroni ad alta frequenza di scarica). La rilevazione della fatica si accompagna spesso ad una seconda misurazione che prende il nome di sforzo percepito (RPE, Rate of Perceived Exertion): per esso s’intende “l’atto di rilevazione ed interpretazione delle sensazioni derivanti dal corpo durante l’esercizio fisico” (Ratel et al., 2006). La misurazione dello sforzo percepito si basa sulla miscelazione di più parametri fisiologici quali la frequenza cardiaca, la ventilazione polmonare, il consumo d’ossigeno (VO2), l’acidosi metabolica e sensazioni derivanti dall’ attività contrattile muscolare: è importante precisare che la rilevazione dello sforzo percepito è auto-diretta e, pertanto, risultano necessarie alcune abilità di base per la compilazioni delle scale di valutazione (come ad esempio la scala di Borg) in età pediatrica quali la capacità di lettura e la comprensione di cosa intendiamo misurare. Premesso ciò, è stato dimostrato da Doherty e collaboratori mediante l’utilizzo di esercizi ad alta intensità intervallati da periodi di recupero che “l’aumento del grado di sforzo percepito in esercizi ad intensità costante, rappresenta uno dei primi segnali dell’instaurarsi della fatica” (Doherty et al,2001). La misurazione della fatica, come già riferito precedentemente, è stata oggetto di numerose sperimentazioni da cui sono emersi risultati non sempre di facile interpretazione: gli studi di maggior rilevanza clinica riguardano il confronto tra bambini e adulti e l’applicazione di protocolli di valutazione in patologie come ad esempio la Paralisi Cerebrale Infantile. In questo paragrafo ci concentreremo sul confronto tra bambini e adulti. A causa della grande mole di meccanismi in gioco e l’assenza di un reale test gold standard per la sua misurazione, il confronto tra intermittenti ad alta intensità (High-Intensity Intermittent Excercise, HIIE) (Ratel et al., 2006), come ad esempio nel test di Wingate. Tali conclusioni sono state determinate tramite la discussione dei numerosi fattori in gioco nella popolazione adulta e pediatrica:

  • La minor massa muscolare e la maggior presenza di fibre rosse di tipo I in proporzione rispetto agli adulti, determinano sia minori capacità nel generare potenza che un più spiccato orientamento metabolico ossidativo nei bambini. Entrambe le caratteristiche sono correlate con un minor decremento delle prestazioni e, di conseguenza, con una minor fatica muscolare.
  • Nei bambini il minor ed immaturo reclutamento di unità motorie durante l’esercizio fisico è correlato ad una minor produzione di forza e quindi ad un minor declino dell’attività neuromuscolare in test di affaticamento
  • La miglior attività di smaltimento dei prodotti metabolici quali lattato ed ioni H+ dovuti ad una maggior velocità di diffusione nel sarcolemma e ad un incremento dell’ossidazione dello ione idrogeno da parte delle fibre rosse di tipo I determina una miglior resistenza alla fatica rispetto agli adulti. Oltre ai fattori sopracitati, le più rapide attività di ri-sintesi da parte del creatinfosfato e di normalizzazione dei parametri cardio-respiratori, dovuti alla spiccata attività del sistema nervoso parasimpatico a livello cardiaco ed al tempestivo ripristino dei valori di VO2, contribuiscono ad avvalorare la tesi della miglior efficienza dei meccanismi di recupero nei bambini in esercizi intermittenti ad alta intensità.

L’utilizzo sempre più crescente di strumenti quali l’EMG di superficie e la Risonanza Magnetica sta attualmente contribuendo sia alla consolidazione di quanto già teorizzato in letteratura che alla scoperta di nuovi meccanismi metabolici e nervosi coinvolti nell’attività fisica di grandi e piccini.

L’affaticamento muscolare nelle patologie neuromotorie

La Paralisi Cerebrale Infantile è un patologia determinata da un danno non progressivo nell’encefalo in via di sviluppo del bambino che comporta primariamente deficit nella postura e nel movimento a cui sono correlate problematiche secondarie (ma non sempre di minor rilevanza clinica) sul piano sensoriale, percettivo, cognitivo, comiziale ed emotivo-affettivo. Il disturbo neuro-muscolo- scheletrico che caratterizza questi pazienti avrà importanti ripercussioni sull’instaurarsi del senso della fatica rispetto ai soggetti normali. L’aumentata affaticabilità nei soggeti con PCI rappresenta la principale causa di deterioramento o cessazione dell’attività deambulatoria (N.G. Moreau et al.,2011). Nonostante ciò, studi sperimentali basati su contrazioni concentriche massimali riguardanti l’estensione e la flessione di ginocchio hanno evidenziato un minor livello di affaticamento muscolare del quadricipite e degli ischiocrurali nei soggetti con PCI rispetto al gruppo di controllo (N.G. Moreau et al.,2009). Il perché di questi risultati inaspettati è da attribuire ai meccanismi patologici che intervengono nella contrazione muscolare dei pazienti con PCI, limitandone la capacità di forza e pertanto riducendo il grado di fatica muscolare a cui essi vanno incontro. Questi meccanismi sono riconducibili all’aumentata co-contrazione dei muscoli antagonisti, alla spasticità, alla debolezza muscolare, alla maggior attività di motoneuroni a bassa frequenza di scarica, al più spiccato reclutamento di fibre rosse di tipo I ed al relativo utilizzo di un metabolismo principalmente ossidativo durante l’esercizio fisico (N.G. Moreau et al.,2009). Tuttavia tali dati necessitano di una corretta interpretazione da parte dei clinici: nello svolgimento di attività funzionali come ad esempio nel percorrere lunghe distanze, fattori come l’inibizione delle clearence del lattato a causa del ridotto ritorno venoso, i livelli più bassi di VO2MAX rispetto ai coetanei con sviluppo tipico (N.G. Moreau et al.,2011) e la minor forza muscolare complessiva generata determinano nei soggetti con PCI un maggior dispendio energetico e, di conseguenza, livelli più bassi di resistenza alla fatica (Ratel et al,2006). Uno degli studi più interessanti sull’argomento è stato condotto da Boyd e collaboratori, dove dopo un’iniziale sperimentazione sui soggetti con sviluppo tipico, veniva testata la validità di un dispositivo (nello specifico il Cosmed K4© ) per la valutazione del dispendio energetico in bambini con patologia neuro-muscolo-scheletrica, tramite l’utilizzo della tecnica di calorimetria indiretta. Riassumendo i risultati ottenuti che verranno esplicati più dettagliatamente nel capitolo successivo, è stata dimostrata una forte associazione tra il crescente livello di disabilità motoria ed il relativo maggior dispendio energetico. In particolare nei soggetti con diplegia severa il raggiungimento di uno stadio stazionario del consumo di ossigeno (espressione dell’utilizzo di un metabolismo aerobico) in esercizi ad intensità submassimale si mostrava incostante ed i relativi livelli di quoziente respiratorio (definito anche come RER, Respiratory Exchange Ratio) pari o superiori ad 1, ipotizzavano un viraggio verso sistemi energetici prettamente anaerobici (Boyd et al.,1999). Nonostante tali studi ed evidenze scientifiche, la misurazione dei meccanismi che adibiscono al dispendio energetico nei bambini con PCI è ancora oggetto di indagine. La valutazione di indicatori quali la resistenza alla fatica e l’affaticamento muscolare nelle patologie neuromuscolari risulta al giorno d’oggi non ancora supportato da solide evidenze scientifiche. I dati più rilevanti su questo tema riguardano nello specifico i soggetti con DMD (distrofia muscolare di Duchenne). L’assenza di distrofina nei pazienti con malattia di Duchenne determinerebbe un minor funzionamento dei meccanismi di protezione e conservazione delle fibre muscolari e, di conseguenza, una più spiccata tendenza alla lacerazione in seguito al processo di eccitazione-contrazione (Ratel et al., 2006): il fenomeno in questione sarebbe correlato con il progredire del processo degenerativo e con la relativa minor capacità di produrre forza e potenza nello svolgimento di attività fisiche. Alcune rilevazioni riguardanti il metabolismo sarcoplasmatico dei pazienti con DMD sembrano supportare la precedente tesi:

  • elevate concentrazioni di ioni calcio (Ca2+) alla cessazione dello stimolo contrattile sono associati con una minor efficienza del meccanismo di re-uptake ad opera del reticolo sarcoplasmatico e con una riduzione della capacità di generare forza e potenza da parte delle fibre muscolari
  • una minor concentrazione delle riserve di creatinfosfato e una riduzione del ph intracellulare rispetto al gruppo di controllo risultano fattori associati ad un’alterazione del metabolismo ossidativo e della produzione ATPasica muscolare
  • allo stesso modo, l’aumento delle concentrazioni dei fosfolipidi di membrana e di altre molecole organiche sembrano essere correlati a problematiche nell’utilizzo dei sistemi ossidativi

Tuttavia, a fronte del maggior affaticamento generale nell’esecuzione di attività grossomotorie ampiamente documentato, è interessante osservare come alcuni autori sostengono una riduzione della fatica muscolare nei distrofici. Tali studi erano costituiti da protocolli di valutazione basati su contrazioni selettive di alcuni muscoli, come ad esempio il tibiale anteriore (Ratel et al., 2006). Detto ciò è importante precisare che altre sperimentazioni hanno condotto a conclusioni discordanti da quanto appena descritto: le differenze sono pertanto imputabili a fattori quali la tipologia di esercizio scelto nel protocollo di valutazione ed i gruppi muscolari indagati (Ratel et al., 2006).

Cenni storici sulle misurazioni dirette ed indirette del dispendio energetico

Come citato precedentemente, gli studi di Boyd e colleghi hanno contributo in maniera fondamentale alla comprensione dell’utilizzo dei sistemi metabolici nell’ esercizio motorio della normalità e della patologia. L’obiettivo della sperimentazione era di confrontate misure indirette come il PCI (Physiological Cost Index anche chiamato con la sigla EEI, Energy Expenditure Index) con la misurazione diretta mediante il dispositivo Cosmed K4®. Lo studio si prefiggeva due scopi: in primis quello di confrontare, in un gruppo di pazienti che non presentavano disabilità motoria, le misurazioni dirette con quelle indirette e successivamente, di creare un protocollo da utilizzare nei soggetti patologici. Il calcolo del PCI si basava sulla frequenza cardiaca dei soggetti in esame, supponendo che ci fosse una correlazione lineare tra tale parametro ed il consumo d’ossigeno:

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con la frequenza cardiaca calcolata in battiti al minuto, la velocità in metri al minuto ed il PCI in battiti per metro. Al contrario la misurazione con il Cosmed K4® si basava sulla calorimetria indiretta mediante il calcolo del Quoziente Respiratorio o Respiratory Exchange Ratio (RER), reso possibile dalla rilevazione del volume dell’anidride carbonica nell’aria espirata (VCO2) e dell’ossigeno nell’aria inspirata (VO2):

???= VCO2 VO2

i parametri di VCO2 e VO2 erano indicati in ml al minuto mentre il RER veniva espresso come un valore lineare. La rilevazione degli scambi gassosi tramite il Cosmed K4® era possibile grazie al collegamento del dispositivo ad una maschera oronasale che veniva indossata dai pazienti. I risultati dello studio dimostravano che la misurazione indiretta era meno affidabile e precisa rispetto a quella diretta e che di conseguenza solo quest’ultima poteva essere utilizzata per elaborare un protocollo nei soggetti patologici. Nella seconda parte dello studio sono stati prelevati pazienti in età evolutiva con diversi deficit motori quali ad esempio emiplegia, diplegia e bambini che avevano avuto una frattura del femore: l’obiettivo era di valutare il dispendio energetico di questi soggetti. Il protocollo elaborato prevedeva l’esercizio del cammino in un tracciato ovale lungo 10 m per un tempo di 10 minuti, con l’utilizzo del Cosmed K4®: tale attività era intervallata da un riposo iniziale e finale, entrambi di cinque minuti. Nei pazienti che presentavano una problematica motoria di grado lieve o moderato era stato osservato come, dopo un aumento iniziale della frequenza cardiaca e del consumo di ossigeno, si raggiungesse uno stadio stazionario e quindi il coinvolgimento di un metabolismo di tipo aerobico. Al contrario è stato visto come in alcuni soggetti, quali diplegici con problematica motoria severa, il costante aumento della frequenza cardiaca, il consumo energetico più elevato ed il conseguente maggior affaticamento potrebbero essere interpretati come il passaggio da un metabolismo di tipo aerobico ad uno di tipo anaerobico.

Il Six-minute Walk Test

Il six minute walk test era stato coniato originariamente come un test che mirava a valutare il dispendio energetico in termini di capacità funzionale in soggetti adulti con patologia cardiaca e/o polmonare moderata o severa (American Thoracic Society,2002): tuttavia, la sua grande affidabilità ne ha diffuso l’utilizzo anche nelle malattie neuromotorie in età evolutiva. Per capacità funzionale intendiamo l’abilità dell’individuo di svolgere i compiti che richiedono sforzo fisico e che vedono il coinvolgimento combinato di più sistemi del nostro organismo, che nello specifico sono quelli cardiovascolare - circolatorio, polmonare, muscolare e metabolico. Il 6MWT valuta la capacità funzionale di un individuo per livelli sub-massimali di massima capacità aerobica (VO2MAX): poiché le attività di vita quotidiana (Activity day living) vengono più frequentemente svolte a tale parametro d’intensità, la six minute walk distance (principale misurazione del test) è quella che meglio rispecchia la qualità di vita se confrontata con altre misurazioni in test massimali. Tuttavia il 6MWT, pur essendo un ottimo strumento da utilizzare in ambito clinico, non è assolutamente diagnostico e non fornisce informazioni specifiche sui diversi organi o sui meccanismi che limitano l’esercizio fisico (American Thoracic Society,2002). Per eseguire un 6MWT secondo le linee guida dell’ATS sono necessari alcuni accorgimenti:

  • Un corridoio di circa 30 metri, preferibilmente indoor ma anche outdoor (all’aperto) se il tempo lo consente. Il percorso deve essere lineare e la superficie del corridoio deve essere piana e solida
  • Ogni 3 metri deve essere applicato del nastro adesivo (o uno scotch) per segnare le varie distanze che intercorrono tra il punto di partenza ed il punto di virata
  • Sono necessari due coni: uno per marcare il punto d’inizio ed uno per il punto di viraggio, cioè quando il paziente deve cambiare direzione di marcia. Se si dispone di un solo cono è fondamentale segnalare in modo prioritario il punto di virata
  • Disporre della strumentazione adeguata: un contagiri (lap counter) che tenga il conto dei giri compiuti dal paziente, un timer per tenere il tempo della prova, un foglio su cui riportare la six minute walk distance (6MWD) ed altre misurazioni come la fatica percepita e la dispnea prima e dopo la somministrazione del test, una sedia per far riposare il paziente sia prima dell’inizio della prova che in caso di necessità durante la performance

Se il paziente ne ha necessità devono essere disponibili supplementi come: ossigeno, nitroglicerina sublinguale, aspirina e abbuterolo. Inoltre bisogna interrompere immediatamente il test nel caso che si manifestino i seguenti sintomi: dolore forte al petto (angina), dispnea intollerabile, crampi alle gambe, cammino barcollante, eccessiva sudorazione e colorito pallido. Se il test viene stoppato per una delle seguenti ragioni il paziente va aiutato a sedersi o ad adagiarsi supino in relazione alla severità dell’evento ed al rischio di sincope: dovranno essere pertanto valutati la pressione sanguigna, le pulsazioni e la saturazione d’ossigeno (American Thoracic Society,2002). La principale misurazione del 6MWT è la six minute walk distance (6MWD), ovvero la distanza percorsa dal paziente nei sei minuti: la rilevazione di tale parametro è possibile sia grazie al conto dei giri effettuati che all’aiuto dei marker posti lungo il percorso, con un approssimazione della misura in riferimento al metro più vicino. Altre misurazioni secondarie sono la dispnea e la fatica percepita secondo la scala di Borg: entrambe vengono misurate prima e dopo l’inizio della prova. Prima dell’inizio del test il paziente deve rimanere seduto in condizioni di riposo vicino al punto di partenza per 10 minuti circa: durante questo periodo è buona prassi misurare la pressione sanguigna, le pulsazioni, se necessaria la saturazione d’ossigeno ed assicurarsi che l’abbigliamento del paziente sia idoneo alla prova. Dopo aver fatto alzare il paziente ed averlo accompagnato al punto di partenza è necessario spiegargli che lo scopo della prova è di camminare il più possibile nei sei minuti, senza correre e scegliendo se riposare o meno in caso di affaticamento: nelle linee guida dell’ATS, durante la spiegazione è suggerita una prova pratica eseguita dal clinico per illustrare come deve essere compiuto il cambio di direzione nel punto di virata. Altri due raccomandazioni importanti nel documento dell’ATS sono quelle di non camminare con il paziente durante l’esecuzione del test (il clinico deve rimanere sulla linea dello start) e di utilizzare frasi d’incoraggiamento standardizzate durante la prova (“Stai andando bene”; “Ottimo lavoro, continua così” ad intervalli di un minuto ciascuna). Quando il timer indica che mancano 15 secondi alla conclusione del 6MWT, bisogna informare il paziente dell’imminente fine della prova e che quest’ultimo dovrà, allo scadere del tempo, fermarsi lì dove si trova per consentire le misurazioni necessarie: generalmente il punto di stop viene marcato con nastro adesivo. Nonostante l’ampio uso del 6MWT in ambito clinico per valutare la capacità funzionale, esistono pochi riferimenti per eventuali applicazioni nel campo della pediatria. Uno studio condotto da Albert M. Li e colleghi su un gruppo di 1445 bambini/e-ragazzi/e cinesi in salute con età compresa tra i 7 ed i 16 anni (età media 12 anni) ha rilevato una 6MWD media di 664 m con una differenza di 38,2 m circa tra maschi e femmine (680,9 m vs 642,7 m). Inoltre sono stati determinati alcuni fattori che potrebbero influenzare drasticamente la 6MWD come l’altezza, ritenuta la misura antropometrica più influente e la frequenza cardiaca prima e dopo l’esecuzione del test. Un secondo studio condotto da Ralf Gieger e colleghi ha cercato di definire anch’esso dei riferimenti standard per il 6MWT in età pediatrica, utilizzando una versione modificata che vedeva l’introduzione di una ruota misuratrice per aumentare l’aspetto motivazionale. La popolazione campione prevedeva 280 maschi e 248 femmine suddivisi in più gruppi per fasce di età: i raggruppamenti erano rispettivamente costituiti da soggetti di 3-5 anni, di 6-8 anni, di 9-11 anni, di 12-15 anni e di 16-18 anni. Secondo quanto emerso dallo studio a differenza degli adulti, nella popolazione pediatrica l’età risultava essere un fattore significativamente positivo. L’andamento della 6MWD negli anni subiva un incremento esponenziale nella fascia di età tra i 3 e gli 11 anni sia nei maschi che nelle femmine; successivamente, mentre nei maschi la 6MWD continuava ad aumentare con l’età passando da un media di 667,3 m ad un valore di 727,3 m, nelle femmine veniva raggiunto uno stadio stazionario (plateau) nel quale la misurazione rimaneva costante (da 655,8 m a 660,9 m). In letteratura è disponibile un prezioso studio sull’affidabilità del 6MWT in soggetti con PCI in età pediatrica svolto da Maher CA e colleghi nel 2008. La popolazione campione era rappresentata da 41 soggetti con diagnosi di PCI, di cui 26 maschi e 15 femmine tra gli 11 ed i 17 anni che sapessero deambulare autonomamente e pertanto riconducibili ai livelli I, II e III del GMFCS. Nonostante la presenza di alcuni adattamenti, come l’utilizzo di una corsia di 10 m anziché 30, il relativo marcamento delle distanze ogni 2 metri e l’esecuzione di 2 test intervallati da un recupero di 30 minuti, la procedura è stata svolta seguendo quanto più fedelmente possibile le linee guida elaborate dall’ATS. Da questo studio è emersa una 6MWD media di 448 m ± 96,9 m nella prima prova e di 449,5 m ± 102,1 m nella seconda: la lunghezza della corsia rispetto ai riferimenti standard è risultato un fattore influente e non sono state trovate sostanziali differenze in relazione al sesso ed all’età. Lo studio di Maher CA e colleghi ha avuto il merito di provare con dati statistici che il 6MWT è uno strumento affidabile anche per i soggetti con PCI. La validità del 6MWT è stata sperimentata anche nelle patologie neuromuscolari. McDonald e colleghi riportano un minor valor medio di 6MWD nei soggetti con distrofia muscolare di Duchenne rispetto al gruppo di controllo (366 ± 83 vs 621 ± 68) con l’utilizzo di una versione modificata del test (McDonald et al.,2010). Nello studio di Montes e collaboratori invece sono stati valutati soggetti ambulatoriali con diagnosi di SMA di tipo III: dai risultati sono emersi dati interessanti riguardanti la decrescente velocità del cammino nei 6 minuti (57.7 m di media nel primo minuto vs 48 m di media nel sesto minuto) e la correlazione tra il suddetto test ed altre misure di outcome quali l’Hammersmith Functional Motor Scale (HFMSE), la capacità vitale forzata (FVC), il 10-m walk/run e la valutazione di forza dei flessori del ginocchio tramite dinamometro (Montes et al.,2010). In entrambi i casi il 6MWT si è dimostrato uno strumento affidabile, riproducibile ed utilizzabile nei trials clinici di questi pazienti.

 

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