LA DISABILITÀ VISIVA: CECITÀ E IPOVISIONE - L’ORIENTAMENTO E LA MOBILITÀ AUTONOMA

Capitolo 1: LA DISABILITÀ VISIVA - CECITÀ E IPOVISIONE

Capitolo 2: L’ORIENTAMENTO E LA MOBILITÀ AUTONOMA

INDICE PRINCIPALE

INDICE

LA DISABILITÀ VISIVA: CECITÀ E IPOVISIONE

La Classificazione delle minorazioni visive

La Legge Nazionale n° 138/2001 “Classificazione e quantificazione delle minorazioni visive e norme in materia di accertamenti oculistici” definisce le forme di disabilità visiva con riconoscimento giuridico, precisando i criteri per la determinazione dei diversi livelli di gravità della minorazione stessa.

Il riferimento normativo, attualmente in vigore e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 93 del 21 aprile 2001, suddivide la disabilità visiva in cinque classi, definite secondo i parametri di acuità visiva e di ampiezza del campo visivo.

Articolo 2

Ai fini della presente legge, si definiscono ciechi totali:

  1. coloro che sono colpiti da totale mancanza della vista in entrambi gli occhi;
  2. coloro che hanno la mera percezione dell'ombra e della luce o del moto della mano in entrambi gli occhi o nell'occhio migliore;
  3. coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 3 per cento.

Articolo 3

Si definiscono ciechi parziali:

  1. coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
  2. coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 10 per cento.

Articolo 4

Si definiscono ipovedenti gravi:

  1. coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi o nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
  2. coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 30 per cento.

Articolo 5

Si definiscono ipovedenti medio-gravi:

  1. coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 2/10 in entrambi gli occhi o nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
  2. coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 50 per cento.

Articolo 6

Si definiscono ipovedenti lievi:

  1. coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 3/10 in entrambi gli occhi o nell'occhio migliore, anche con eventuale correzione;
  2. coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 60 per cento.

La svolta significativa rappresentata dalla Legge 138/2001 consiste nella considerazione non solo della visione centrale (acuità visiva), ma anche di quella periferica (campo visivo). La Legge ha riconosciuto che “la disabilità visiva non equivale alla mancanza completa della vista, né alla sua drastica riduzione quantitativa […], va tenuto conto non solo della quantità di visus residuo posseduto, espressa sotto forma di frazione, ma anche della percentuale del campo perimetrico disponibile.” (Caldin, 2006).

Pertanto, a differenza della precedente Legge n° 382/1970, viene introdotta in modo esplicito la condizione di ipovisione, garantendo a chi ne è affetto le stesse provvidenze e facilitazioni fornite ai soggetti ciechi.

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La funzione vicariante dei sensi residui

Qualora un’informazione ambientale non sia reperibile attraverso un organo di senso specifico, a causa di una menomazione dello stesso, l’individuo avrà l’opportunità di supplire a tale insufficienza, ricorrendo ad un altro canale sensoriale. Quanto appena esposto si definisce funzione vicariante dei sensi (Guth et al., 2010).

In presenza di disabilità visiva, i principali sensi vicarianti sono udito e tatto. La vista costituisce per l’individuo il canale preferenziale di conoscenza della realtà, perché è una sensorialità di analisi-sintesi, che, attraverso una percezione sincretica e simultanea degli stimoli ambientali, permette di ottenerne un’immagine analitica e globale (Brambring, 2004).

L’udito e il tatto, invece, consentono di cogliere la realtà esterna nei suoi particolari. L’udito offre la possibilità di percepire il mondo a distanza, quando gli elementi in esso presenti emettono dei suoni. Il tatto, è il canale percettivo che rileva le informazioni dello spazio prossimo. Questi sensi non sono in grado di compensare per intero la carenza visiva, a causa della loro modalità non integrale di percepire l’ambiente (Brambring, 2004). Tuttavia, la percezione dei dati sensoriali risulterà frammentata ed impedirà all’individuo di costruire rappresentazioni d’insieme dello spazio circostante, solo nel caso in cui la capacità di sintetizzare le singole informazioni non sia sufficientemente efficace. Questo limite è sopperito dal fatto che i sensi vicarianti non operano in modo isolato, ma vengono coinvolti simultaneamente e sinergicamente nella maggior parte delle volte.

Sarà quindi fondamentale incentivare lo sviluppo dei sensi vicarianti e, ove sussista, del residuo visivo (www.uiciechi.it), ai fini di un utilizzo ottimale delle risorse disponibili.

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Il flusso percettivo durante gli spostamenti nello spazio

La retina di un individuo in movimento riceve un flusso ininterrotto di immagini, provenienti dall’ambiente circostante. Questa successione di “fotografie” è definita flusso percettivo ottico ed origina direttamente dagli spostamenti nello spazio della persona (Warren et al., 2001).

L’elaborazione degli stimoli visivi permette di dedurre quali siano, in ogni istante, la posizione spaziale occupata dall’individuo e l’orientamento del suo corpo rispetto alle disposizioni ambientali (Guth et al. 2010).

Una persona con disabilità visiva in movimento riceve anch’essa informazioni continue da parte dell’ambiente circostante, prevalentemente però uditive e vibrotattili (Guth et al., 2010).

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L’ORIENTAMENTO E LA MOBILITÀ AUTONOMA

Le definizioni di Orientamento e Mobilità

L’orientamento e la mobilità sono competenze che l’individuo acquisisce gradualmente durante la crescita. Lo sviluppo e l’apprendimento delle suddette capacità sono direttamente correlati alle esperienze di esplorazione dello spazio e di progressiva conquista dello stesso, in età evolutiva.

L’orientamento è un processo percettivo-cognitivo che consente al soggetto di rappresentarsi mentalmente la posizione che egli stesso occupa nello spazio, in relazione agli elementi in esso presenti. In altre parole, è conoscenza e consapevolezza del proprio corpo, inserito nell’ambiente (Guth et al., 2010).

La mobilità è la capacità di attraversare lo spazio, sia conosciuto che sconosciuto, in autonomia, sicurezza e nel modo più economico possibile (Guth et al., 2010).

Se il soggetto è in grado di orientarsi ma non di muoversi, come potrà giungere a destinazione? Viceversa, se riesce a muoversi attraverso l’ambiente ma non è capace di orientarsi, dove andrà?

L’orientamento e la mobilità sono funzioni indispensabili e complementari che consentono ad un individuo di organizzarsi all’interno dello spazio, così da potersi muovere adeguatamente in ogni direzione (Gargiulo, 2005).

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Lo sviluppo dell’orientamento

Alla base dell’orientamento vi sono processi percettivo-cognitivi che permettono di ottenere informazioni ambientali significative e di elaborarle, al fine di creare una rappresentazione stabile della realtà (Gargiulo, 2005).

I sistemi di riferimento egocentrico e allocentrico [Sezione A]

Per effettuare una corretta decodifica delle informazioni di natura spaziale, è necessario ricorrere a sistemi di riferimento definiti da un insieme di coordinate (Palmiero, 2011).

Si prendano in considerazione un soggetto percipiente, ovvero in grado di cogliere le informazioni ambientali e lo spazio in cui egli si muove.

Il sistema di riferimento egocentrico si avvale di coordinate che hanno come origine il corpo del soggetto percipiente. Tali coordinate garantiscono un aggiornamento continuo del flusso di informazioni spaziali, in relazione agli spostamenti che il soggetto compie nell’ambiente. In altre parole, la collocazione nello spazio di un elemento, o più genericamente di un punto, è definita dalla prospettiva del soggetto percipiente (Berthoz, 1998).

Il sistema di riferimento allocentrico è invece costituito da coordinate che si basano su punti di riferimento non appartenenti al soggetto e sulle loro relative collocazioni nello spazio. In tal caso, un punto è descritto a partire da coordinate esterne al soggetto percipiente, indipendenti dalla posizione che egli occupa (Berthoz, 1998).

La posizione di un punto nello spazio è pertanto relativa, perché varia a seconda del sistema di coordinate a cui si fa riferimento per descriverla (Palmiero, 2011).

L’impiego dei sistemi di riferimento egocentrico e allocentrico consente di “navigare attraverso” l’ambiente. Il termine navigazione si riferisce alla capacità di decodificare e utilizzare le informazioni sensoriali allo scopo di determinare la propria posizione spaziale ed il percorso da intraprendere per giungere ad una destinazione desiderata (Cuturi, 2016).

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Dalla permanenza dell’oggetto alla definizione dei rapporti spaziali

Una persona, per accedere alle rappresentazioni mentali di quanto la circonda, deve prima comprendere che gli elementi dell’ambiente esistono a prescindere da lei. Questa consapevolezza inizia intorno all’ottavo mese di vita e conduce il bambino all’acquisizione del concetto di permanenza dell’oggetto, che si consolida durante il secondo anno di vita. Egli, ovvero, realizza che gli elementi ambientali sono entità esistenti anche quando non vi è conoscenza e consapevolezza di essi (Vianello et al., 2012).

Nel corso del primo anno di vita, invece, il bambino agisce come se le persone e gli oggetti del mondo esterno siano presenti unicamente quando vengono percepiti. Tale modalità di concepire l’esistenza delle cose evolve progressivamente e, una volta appreso il concetto di permanenza dell’oggetto, il bambino potrà costruirsi un’immagine rappresentativa del mondo esterno.

In tal modo verrà a conoscenza delle relazioni che intercorrono fra lui e gli elementi circostanti, sviluppando un po’ alla volta i concetti topologici spaziali come, ad esempio, vicino/lontano, davanti/dietro (Brambring, 2004).

La conoscenza di questi concetti dipende anche dall’avvenuta o meno strutturazione dello schema corporeo e dalla consapevolezza dello spazio occupato da ciascun distretto che lo costituisce (Gargiulo, 2005).

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La consapevolezza delle relazioni spaziali persona-oggetto e oggetto- oggetto

La conquista dei concetti spaziali presuppone che il bambino concepisca l’esistenza di uno spazio circostante e nel quale si trova.

In tal modo vengono a crearsi i primi abbozzi di mappe cognitive spaziali, originate adoperando il sistema di riferimento egocentrico, che prevede la rappresentazione di sé come origine dello spazio conosciuto (Gargiulo, 2005).

Solo in un secondo momento, il bambino comincia a percepire e comprendere i rapporti spaziali oggetto-oggetto, accedendo ad una rappresentazione dell’ambiente esterno che prescinde dalla sua posizione. I rapporti spaziali definiti dal sistema allocentrico non mutano al variare del punto nello spazio dove si trova il soggetto percipiente. La relazione oggetto-oggetto, dunque, rimane invariata anche se l’individuo si sta spostando (Gargiulo, 2005).

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L’integrazione dei sistemi egocentrico e allocentrico

La scoperta dei rapporti spaziali oggetto-oggetto conduce all’acquisizione di una nuova competenza cognitiva che permette al bambino di compiere rotazioni astratte degli oggetti, su ognuno degli assi che definiscono lo spazio tridimensionale. L’apprendimento di questa abilità avviene parallelamente allo sviluppo di capacità cognitive superiori di elaborazione dei dati (Gargiulo, 2005).

All’inizio il bambino, quando percorre un tragitto di andata da un luogo ad un altro, percepisce la sequenza degli oggetti incontrati e il loro orientamento diversamente rispetto a quanto avviene nel tragitto di ritorno, come se i percorsi effettuati siano distinti e separati. Egli, ovvero, non coglie quelle caratteristiche, dette costanti percettive, che definiscono le proprietà invarianti di un dato elemento (Vianello et al., 2012).

Con il successivo consolidamento delle capacità cognitive, il bambino comprende che percorso di andata e di ritorno sono semplicemente l’uno l’inverso dell’altro. Saranno invertiti non solo l’ordine di apparizione delle cose ma anche le relazioni spaziali, perché, ad esempio, ciò che prima era a destra o davanti, poi sarà a sinistra e dietro (Gargiulo, 2005).

In assenza della vista, la funzione di orientamento è consentita grazie all’interpretazione delle informazioni uditive e tattili (Cuturi et al., 2016).

Anche l’olfatto, seppur in misura minore, è un organo di senso coinvolto nella funzione di orientamento. Gli odori forniscono utili indizi rispetto al luogo in cui ci si trova, conosciuto o meno che esso sia. Gli stimoli olfattivi, in presenza della vista, forniscono informazioni per lo più aggiuntive. Al contrario, quando sussiste un deficit visivo, gli odori fungono da marcatori di luoghi e ambienti. Un esempio comune è il profumo intenso di fiori ed erba, che rivela la presenza di un parco pubblico nelle vicinanze (www.uiciechi.it).

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Lo sviluppo della mobilità

L’acquisizione  delle competenze grosso-motorie è concepita come un processo in cui percezione visiva ed esecuzione dei movimenti si influenzano reciprocamente (Brambring, 2006).

La vista è fonte di grande motivazione alla conoscenza, perché incentiva comportamenti di avvicinamento ad oggetti che suscitano interesse. Il bambino con deficit visivo, se non opportunamente sollecitato, presenterà una ridotta iniziativa di esplorazione e attraversamento dello spazio, che si ripercuote sfavorevolmente sulle sperimentazioni motorie spontanee ed ostacola la conquista dell’ambiente circostante (Celani, 2006). A tal proposito, la Celani (2005) cita nel suo articolo un’affermazione di Mazzeo M.: “Finché il bambino non ha elaborato uno spazio esterno oggettivo, stabile e permanente, non può spostarsi da solo volontariamente, perché non ha nessun luogo dove andare”.

Al canale visivo si attribuisce inoltre una funzione rassicurativa. Quando il bambino affronta una nuova situazione, indirizza lo sguardo verso colui che lo accudisce, come a domandare se la sua intenzione sia adeguata. A seconda dell’espressione che leggerà sul volto dell’altro, egli adatterà il suo comportamento, proseguendo o rinunciando all’azione. A causa della disabilità visiva, non è possibile instaurare un contatto oculare interattivo. Il bambino, dunque, non riceverà feedback circa l’azione che è in procinto di eseguire (Brambring, 2004), a meno che l’adulto non intervenga dall’esterno attraverso altre sensorialità.

L’assenza di una valida motivazione al movimento e di un’esplicita supervisione rispetto alle proprie azioni, condiziona negativamente la motricità. Si assiste infatti, nella maggior parte dei bambini con cecità, ad un’acquisizione rallentata delle competenze grosso-motorie, rispetto alle tappe dello sviluppo fisiologico (Cuturi, 2016).

Tuttavia, è l’atto motorio stesso che permette al bambino di conoscere l’ambiente in cui si trova immerso. Attraverso prove ed errori egli apprenderà le strategie più corrette per spostarsi nello spazio, comprenderne l’organizzazione e crearne una rappresentazione mentale (Celani, 2006).

È importante sottolineare, a tal riguardo, quanto il raggiungimento della deambulazione in assenza della vista sia un processo complicato. Solitamente, le informazioni di ritorno visive guidano la motricità del bambino, permettendogli di effettuare un controllo costante sull’allineamento e sugli aggiustamenti posturali, così come sulla qualità e sulla coordinazione dei movimenti. Il bambino cieco, invece, è costretto ad affidarsi unicamente agli indizi provenienti dai sistemi vestibolare e propriocettivo-cinestesico (Celani, 2006).

Lo sviluppo motorio procede parallelamente a quello del sistema nervoso e, quando la funzione degli organi di senso è preservata, il bambino è in grado di acquisire spontaneamente competenze sempre più evolute. Tuttavia, in assenza delle informazioni visive, è fondamentale che si avvii un intervento precoce atto a sostenere e facilitare l’apprendimento delle competenze grosso-motorie (Brambring, 2006).

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L’autonomia

Il concetto di autonomia

“Autonomia” è un vocabolo ricco di significati, che si estendono dal campo giuridico a quello della meccanica, o ancora all’individuo, in quanto essere pensante e agente. La definizione di “autonomia” qui più consona ai contenuti di questo elaborato è “l’essere libero di pensare e di agire o, anche, in grado di provvedere alle proprie necessità; indipendenza; autosufficienza” (Garzanti, 2017).

La forma di autonomia a cui si farà riferimento d’ora in avanti, riguarda le funzioni fondamentali di orientamento e mobilità, aspetti di vita quotidiana pregiudicati dalla disabilità visiva (Quatraro, 2001).

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Fra dipendenza e indipendenza negli spostamenti

Nella popolazione di persone con deficit visivo, si osservano diversi comportamenti, talora contrastanti, rispetto al desiderio di esercitare la propria mobilità autonoma (Welsh, 2010).

L’assenza della vista o la sua parziale compromissione diventano, in alcune persone, il pretesto per assumere abitualmente condotte di dipendenza che, un po’ alla volta, conducono alla rinuncia della propria autonomia.

Altri individui, al contrario, rifiutano categoricamente qualsiasi forma di assistenza, quando la condizione di disabilità non viene accettata e alimenta atteggiamenti oppositivi verso persone o strumenti che potrebbero fornire aiuto, come l’accompagnatore, il cane guida o il bastone bianco.

Le situazioni che si creano sono allora diametralmente opposte. Il disabile visivo è costretto, alle volte, a mediare fra il suo bisogno di maggior autonomia e la tendenza della famiglia ad assisterlo più di quanto egli necessiti. In altri casi, sarà lui stesso ad assumere atteggiamenti di marcata dipendenza, nonostante i familiari, provati dall’impegno assistenziale, provino ad incentivare e sostenere la ricerca di una maggior autonomia (Welsh, 2010).

Facendo specifico riferimento all’età evolutiva, in alcune famiglie si incontrano marcate resistenze nell’accettare che il bambino sperimenti la mobilità autonoma. Ciò accade perché, in presenza di un deficit visivo, le probabilità che egli si faccia male aumentano. Il papà e la mamma, guidati dal senso di responsabilità genitoriale, preferiscono tutelare l’incolumità del figlio portandolo in braccio, accompagnandolo per mano o addirittura sostituendosi a lui. Tuttavia, questa modalità di garantire al bambino la sua sicurezza, si rivela spesso dannosa, in quanto induce il bambino ad assumere atteggiamenti di passività e scarsa iniziativa al movimento invece di intraprendere la faticosa ma preziosa strada verso l’autonomia. Fortunatamente, in altre famiglie, vi è la consapevolezza di quanto sia importante sostenere l’indipendenza del bambino. Molti genitori si impegnano per favorire la sua mobilità autonoma, per quanto non esente da rischi, piuttosto di preservarlo da questi ultimi (Gargiulo, 2005).

Il bastone bianco, da un punto di vista operativo, costituisce la soluzione strumentale a questo problema.  Esso  compensa,  nei limiti del possibile, l’impossibilità di anticipare la conoscenza attraverso la vista e di garantirsi l’incolumità (Gargiulo, 2005).

Nonostante il bastone bianco sia  portavoce della disabilità visiva, il messaggio implicito che esso comunica non è tanto “colui che adopera il bastone è una persona cieca”, quanto “colui che adopera il bastone è un individuo autonomo”. A tal proposito, la Gargiulo (2005) invita i suoi lettori a riflettere sulla seguente questione: “Secondo voi, appare connotata più negativamente una persona che, con viso incerto ed insicuro, cammina e magari sbatte da qualche parte o prende una storta per non avere visto un gradino, oppure una persona con espressione serena che cammina dritta e va per la sua strada col bastone bianco in mano?”.

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Il corso di Orientamento e Mobilità

Il corso di Orientamento e Mobilità rientra fra le prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Italiano. Il programma che lo costituisce è volto a promuovere la cognizione dello spazio in tutte le sue componenti e la possibilità, per gli individui con deficit visivo, di conseguire la massima autonomia in termini di orientamento e mobilità (Quatraro, 2001).

Il Corso è condotto da istruttori qualificati che si propongono di formulare programmi di intervento individualizzati, nel rispetto dei bisogni del singolo paziente. Per poter rispondere adeguatamente alle esigenze di ciascuno, il Corso è inoltre individuale, perché prevede un rapporto istruttore-soggetto uno ad uno (www.uiciechi.it).

I programmi proposti mirano a fornire strategie per incentivare ed ottimizzare le prestazioni personali nell’ambito dell’orientamento e della mobilità, in ambienti chiusi e aperti, conosciuti e sconosciuti.

Il Corso è diffuso da decenni a livello internazionale (Quatraro, 2001). In Italia è stato introdotto, nel 1989, dall’U.I.C. (Unione Italiana Ciechi), in collaborazione con l’A.N.I.O.M.A.P. (Associazione Nazionale Istruttori di Orientamento, Mobilità e Autonomia Personale).

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