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Sindrome di Down: contributi scientifici

In questo capitolo si illustreranno le caratteristiche della Sindrome di Down che costituiscono l’oggetto di questo lavoro. Di seguito saranno esposti gli studi scientifici, da Piaget ai neuroni mirror, a supporto delle modalità di funzionamento ed evoluzione integrata dagli indici espressivi non verbali mediati dall’azione. Questo impianto teorico costituirà la base su cui si è impostata la metodologia di ricerca e d’intervento.

La sindrome di Down è la più comune sindrome congenita associata a ritardo mentale, con alle spalle più di un secolo di storia ed una ricca tradizione di ricerche comportamentali e studi genetici. È stata descritta per la prima volta nel 1866 da H. Langdon Down, un medico inglese che lavorava in un asilo a Earlswood, in Inghilterra.

Essa si manifesta in media in un caso ogni 700/1000 nati, sia nei maschi che nelle femmine di qualsiasi etnia e status socio-culturale. È causata dalla presenza di una copia in più (del tutto o solamente in parte) del cromosoma 21; la maggior parte dei casi di Sindrome di Down non è familiare e i genitori hanno una probabilità relativamente bassa di concepire un secondo bambino con la sindrome.

Gli individui con questa sindrome sono in una condizione di rischio superiore alla norma per tutta una serie di condizioni mediche associate: difetti cardiaci congeniti, disturbi dell’udito e della vista, problemi gastrointestinali, dentali, tiroidei, instabilità delle ossa del rachide cervicale. D’altro canto, la durata media della vita, anche se rimane più breve dello standard della popolazione, nel corso del ventesimo secolo si è quintuplicata.

Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, nonostante i livelli di QI varino da persona a persona, la maggior parte degli individui con sindrome di Down ha una forma di ritardo mentale medio, nella fase evolutiva della vita. Il declino si riscontra nelle età successive, con un quadro di regressione nell’andamento dello sviluppo intellettivo e con un rallentamento progressivo delle funzioni.

Tornando all’infanzia, oggetto di questa tesi, si rileva che uno dei punti di forza caratteristici è costituito dalle abilità recettive visive, migliori rispetto a quelle uditive: in vari studi (Hodapp et al., 1992; Powell, Houghton, Douglas, 1997;

Pueschel, Gallagher, Zartler, Pezzullo, 1987) è stato riscontrato che il bambino con sindrome di Down si manifesta più abile in compiti che valutano l’elaborazione visiva in opposizione a quella uditiva. Anche in età precoce i bambini sembrano mostrare una propensione a ricordare i movimenti della mano e altri gesti visivi.

Il linguaggio invece costituisce un punto di debolezza. Una grande quantità di ricerche (Chapman, 1995; Fowler, 1995; Rondal, 1995; Miller, 1988, 1992; Buckley,

1993a, 1995; Stoel-Gammon, 1997) è stata dedicata alla descrizione dello sviluppo della parola e del linguaggio dei bambini con questa sindrome, da cui sono emerse le seguenti caratteristiche principali:

  • le capacità di parola e di linguaggio sono rallentate rispetto alle capacità non-verbali di ragionamento;
  • la produzione della parola è meno sviluppata rispetto alla comprensione. Infatti, anche se per i più piccoli le tappe di acquisizione vedono un ritardo nella comprensione delle parole, successivamente, una volta acquisita la capacità espressiva riferita ad un numero di oltre due vocaboli, la capacità di produrre delle frasi risulta inferiore rispetto alla sua comprensione. Nello studio di Miller, si riscontrò che il 64% dei bambini con sindrome di Down in età prescolare mostrava abilità recettive tre mesi o più al di sopra dei livelli espressivi. Inoltre, questa maggiore competenza nella recezione del linguaggio diventa sempre più evidente nel momento in cui i soggetti crescono;
  • la grammatica è un’area di particolare difficoltà e, mentre acquisiscono regolarmente la padronanza di morfemi connessi, spesso mancano ancora le parole di stretta categoria grammaticale o funzionali. Questa lenta ed incompleta padronanza della grammatica dà origine ad un discorso piuttosto “telegrafico”;
  • di norma l’intelligibilità del loro eloquio è insufficiente: la gran parte dei soggetti ha difficoltà nel produrre parole chiare a causa di problemi di articolazione.

La maggior parte dei bambini con sindrome di Down risulta però possedere nel complesso buone capacità di comunicazione: ciò è dovuto alla messa in campo di abilità non-verbali come il contatto visivo, il sorriso e l’uso di gesti o segnali per essere compresi quando il loro discorso verbale non è riuscito a comunicare il messaggio.

Le anomalie spesso presenti della struttura uditiva e orale contribuiscono a causare le difficoltà articolatorie del linguaggio espressivo sopra descritte. Una percentuale compresa tra il 60% e l’80% di bambini presenta lesioni all’interno delle orecchie (Pueschel, 1990) che implicano perdita dell’udito, dovuta a canali auricolari stenotici, a una nasofaringe piccola, a trombe di Eustachio disfunzionali, adenoidi e tonsille ipertrofiche (Roizen, Walters, Nicol, Blondes, 1993). Sono inoltre comuni problemi alla bocca, che includono malformazioni della lingua, della cavità orale e dei muscoli facciali (Bersu,1981).

La grammatica e l’articolazione, come precisato sopra, risultano relativamente povere e sembrano costituire un singolo “pacchetto” che funziona separatamente dagli aspetti semantici e pragmatici. Queste componenti sembrano più legate ai livelli complessivi di età mentale. Infatti, nonostante i soggetti con sindrome di Down strutturino un numero minore di parole rispetto ai bambini normodotati di pari età mentale, il loro vocabolario generalmente si sviluppa con l’aumentare dell’età mentale (Miller et al., 1995). In aggiunta, i bambini con questa sindrome, nelle loro prime espressioni linguistiche, producono parole in modo simile ai bambini normodotati. Come i coetanei, si rendono conto che le prime parole oggetto della madre usualmente si riferiscono ad un oggetto intero (ovvero che quando la madre indica un oggetto e dice “macchina”, si riferisce all’automobile intera, non alle ruote o ai finestrini della macchina). Nel contesto di un semplice gioco quale nascondere un oggetto, un bambino con sindrome di Down acquisisce le etichette di un oggetto dopo una singola esposizione con gradi di successo simili a quelli dei bambini normodotati di pari età mentale (Chapman, Kay-Raining Bird, Schwartz, 1990). Inoltre esistono varie ricerche sul cervello (Jernigan et al., 1993; Golden, Hyman, 1994), sia attraverso la risonanza magnetica che attraverso studi di tipo neuropatologico, che hanno evidenziato nei soggetti con sindrome di Down un volume cerebrale ridotto, in particolare con ipoplasia delle regioni del lobo temporale, mentre il volume corticale posteriore è risultato abbastanza preservato. Tali dati possono essere correlati alla relativa forza nei compiti visuo-spaziali e alle difficoltà della memoria uditiva a breve termine. Wang, Doherty, Hesselink e Bellugi (1992) hanno riscontrato nei soggetti con sindrome una minor ampiezza in una specifica area del corpo calloso. Questa osservazione, insieme all’ipoplasia del lobo frontale, può essere legata alle difficoltà linguistiche che caratterizzano tale sindrome, specialmente nei compiti di linguaggio espressivo e di fluenza verbale, che richiedono il lavoro coordinato delle due regioni frontali del cervello.

Per quanto riguarda il comportamento adattivo, come nello sviluppo intellettivo, i bambini con sindrome di Down manifestano un rallentamento dello sviluppo che aumenta all’aumentare dell’età cronologica. In generale, questi soggetti mostrano livelli di comportamento adattivo (ad esempio nel mangiare, nella cura personale, nell’impersonare i ruoli, nell’andare d’accordo con gli altri) più elevati rispetto allo sviluppo intellettivo.

Quanto alla questione dell’apprendimento, si è visto che, nel secondo anno di vita, attraverso uno specifico training prelinguistico strutturato mediante una sistematica combinazione di segni gestuali e di parole si possono favorire notevolmente le acquisizioni lessicali e le precoci acquisizioni combinatorie nella maggior parte dei bambini. Inoltre, grazie alle sollecitazioni riabilitative-educative in tal senso, diminuisce il periodo di tempo per il passaggio tra il funzionamento prelinguistico e il linguaggio, un periodo che nel passato poteva durare oltre i due, o perfino tre anni, conducendo molti genitori alla disperazione.

Negli anni Ottanta, tre squadre di ricercatori (Rynders e Horrobin, 1980; Abery, 1988; Smith, Spiker, Peterson, Cicchetti e Justine, 1984) hanno raccolto abbondanti misurazioni psicoeducative trasversali e/o longitudinali che descrivono le caratteristiche di 171 individui con sindrome di Down dai 6 ai 18 anni, focalizzandosi non solamente sulla loro capacità scolastica, ma anche sui rendimenti scolastici, di linguaggio, cognitivi e motori. I risultati ottenuti mostrano che le capacità accademiche, motorie e di linguaggio generalmente aumentano tutte con l’età, benchè non tutte allo stesso grado e livello. Secondo gli studiosi, questo suggerisce che tali capacità possono essere combinate nel fornire opportunità di apprendimento, in modo integrato e sinergico.

Altre forme di combinazione sembrano promettenti nell’area dell’apprendimento del simbolo, un’area che rappresenta una sfida particolare per gli studenti con tale patologia. Per esempio, combinando l’attività della comunicazione gestuale con quella della comunicazione verbale, Miller et al. (1995) hanno riferito che i bambini con sindrome di Down possono, con adeguata istruzione, acquisire un vocabolario dei segni che amplia sia il loro vocabolario orale che quello mimico. In ogni caso, tali istruzioni non inibiscono in alcuna maniera lo sviluppo del linguaggio orale del bambino.

Intorno ai due o tre anni di età cronologica, i risultati di questi studi suggeriscono che possa essere utile esercitare sia il linguaggio scritto che quello orale allo stesso tempo, facendo uso di metodi appropriati. Tra gli altri vantaggi, questo si dimostra un modo efficiente per promuovere le regolazioni morfo-sintattiche nella sindrome, sfruttando il canale visivo-spaziale preservato in modo migliore in questi bambini, al fine di aiutare quello uditivo-vocale più debole.

Perfino negli studi che assicuravano l’assenza di perdite uditive, i bambini sindromici hanno mostrato migliori capacità nei compiti di elaborazione visivo- spaziale contro quelli di elaborazione uditiva.

Inoltre, a Buckinghamshire, in Inghilterra, è stato attuato un progetto (Hooton e Westaway, 2008) per bambini con sindrome di Down frequentanti la scuola primaria e secondaria con lo scopo di eliminare le barriere che riducono le capacità di verbalizzazione mediante l’utilizzo della CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa). Sono state utilizzate delle tabelle visive con pittogrammi sempre associati al testo, semplici da manipolare. Si è visto che l’uso di queste tabelle produce concentrazione, piacere e indipendenza nel momento in cui viene richiesto ai bambini di interagire, in quanto la comunicazione avviene in modo più chiaro e comprensibile anche per l’interlocutore. È stato dimostrato che tale supporto alla verbalizzazione non comporta una diminuzione dell’investimento del parlato, ma costituisce unicamente un aiuto che rende più facile e meno frustrante la comunicazione.

Anche E. M. Dykens, R. M. Hodapp e B.M. Finucane (2002) sostengono che, se da un lato l’articolazione e l’espressione verbale sono entrambe problematiche per i bambini con questa sindrome, dall’altro i segni manuali possono risultare più semplici da acquisire. In aggiunta, Harris et al. (1997) riscontrarono che i bambini con sindrome di Down sono al 75°-80° percentile per quanto riguarda i comportamenti gestuali-simbolici rispetto ai bambini normodotati della stessa età linguistica. Nel confrontare i bambini con sindrome di Down, a cui è stato insegnato il linguaggio orale, con quelli a cui è stata insegnata la comunicazione totale (orale associata a quella dei segni), Weller e Mahoney (1983) hanno rilevato poche differenze tra i due gruppi per quanto riguarda le misure cognitive e linguistiche, dato che entrambi i gruppi hanno compiuto progressi in egual modo in questi aspetti durante i 5 mesi di durata dello studio. Una differenza evidenziata è stata l’utilizzo di un maggior numero di parole del vocabolario (sia col linguaggio dei segni che prununciate) dal gruppo della comunicazione totale. Anche uno studio di Buckley (1993b) ha constatato che interventi che includono l’uso dei segni riducono le differenze esistenti nell’acquisizione del lessico tra i bambini con questa sindrome e i bambini con sviluppo tipico; così come in uno studio di Abrahamsen et al. (1985), i quattro bambini considerati erano maggiormente in grado di acquisire segni manuali in opposizione a parole verbali nel denominare i loro primi oggetti.

Un’ulteriore ricerca (Stefanini, Caselli, Volterra, 2007) ha rilevato che i bambini con sindrome di Down gesticolano più frequentemente rispetto ai bambini con sviluppo tipico e, in particolare, prediligono l’uso di gesti iconici. Inoltre, tendono ad utilizzare i gesti senza accompagnarli alla parola, differentemente dai bambini con sviluppo tipico. Pertanto, i bambini con sindrome di Down spesso utilizzano spontaneamente i gesti iconici come supporto per comunicare e interagire più facilmente con gli altri.

La stretta relazione tra gesto e parola è sostenuta anche da McNeill (1985, 1989, 1992, 2000) e Kendon (1986). Nello specifico, Kendon definisce il gesto come

«quell’insieme di azioni visibili che i riceventi percepiscono come governati da un intento comunicativo chiaro e riconosciuto». Quindi i gesti ricoprono un ruolo sia a livello dell’elaborazione e rappresentazione concettuale, sia a livello dell’espressione più propriamente linguistica.

McNeill (1985, 1989) afferma che gesto e parola sono correlati in quanto il primo evolve insieme al secondo e lo accompagna sempre: il gesto ha funzioni semantiche e pragmatiche parallele rispetto a quelle del parlato ed è sincronizzato con le unità linguistiche di quest’ultimo.

I recenti studi neurofisiologici dei neuroni a specchio hanno evidenziato l’esistenza di un sistema in grado di trasformare le informazioni percettive durante l’osservazione di un’azione altrui in un formato motorio, simile a quello che è generato a livello endogeno quando eseguiamo attivamente un’azione. Questi studi evidenziano l’esistenza di un sostrato neurale comune tra processi motori e comprensione delle azioni altrui, suggerendo l’esistenza di un legame tra capacità motorie di base e capacità di comprensione sia di natura gestuale che di natura vocale. I risultati di questa ricerca, infatti, confermano che azione e percezione fanno parte di un unicum e costituiscono due facce della stessa medaglia. Inoltre, sono costitutive anche dei nostri processi cognitivi: ne risulta che non abbiamo un cervello che sa le cose del mondo, un cervello che elabora delle rappresentazioni mentali concettuali astratte di queste rappresentazioni del mondo e un cervello motorio che traduce in input ai muscoli le deliberazioni che sono avvenute nella sede centrale. Al contrario, abbiamo un quadro molto più integrato e articolato, in cui la dimensione dell’agito, l’azione, è un elemento costitutivo dei processi cognitivi.

Recentemente è stato pubblicato un lavoro a questo proposito, il Motor cognition (Gallese, Rochat, Cossu, 2009), in cui l’azione viene considerata da un punto di vista ontogenetico. Osservando come il bambino comincia a muoversi nel mondo e a relazionarsi emerge che l’azione svolge un ruolo fondamentale sia da un punto di vista delle procedure prassiche di relazione col mondo, sia da un punto di vista dei circuiti neurali, che sono alla base di questa capacità agentiva e che giocano un ruolo fondamentale nella costruzione di un bagaglio di conoscenze utili al bambino per orientarsi nel mondo.

Inoltre risulta uno strettissimo legame tra dominio dell’azione e dominio linguistico, sia per la ricezione che per la produzione linguistica, in quanto c’è un coinvolgimento sistematico di aree motorie e premotorie.

Gli studi e la ricerca in Italia della Dott.ssa Olga Capirci (Iverson, Capirci, Caselli, 1994; Capirci, Iverson, Pizzuto, Volterra, 1996; Capirci, Cristilli, De Angelis, Graziano, 2011), portano ad attribuire ai gesti tre funzioni: comunicativa, cognitiva ed embodied. Essi infatti sono pragmaticamente soggettivi, sono un qualcosa che consente di pensare e sono abilitati e vincolati dalle possibilità motorie. Il gesto è inscindibile dal corpo ed attraverso di esso trova espressione: perciò è embodied. Inoltre, il gesto dell’indicare permette al bambino di avere un ruolo più attivo

nell’interazione, oltre ad essere un precursore del linguaggio: infatti, è prodotto per fare riferimento ad un oggetto/evento. Funzione che, in seguito nello sviluppo, sarà assolta dal nominare.

Le Boulch (1984) afferma che l’utilizzazione del linguaggio corrisponde al passaggio dall’apprendimento per prove ed errori in senso stretto all’apprendimento per “insight”, cioè attraverso l’improvvisa scoperta di mezzi nuovi in presenza di una situazione-problema. L’utilizzazione del linguaggio per simbolizzare la soluzione cercata è, d’altra parte, preceduta dall’uso di gesti simbolici, che favoriscono la rappresentazione nascente. Tali gesti simbolici sono spesso frutto dell’imitazione differita. Infatti, l’imitazione, l’imitazione differita attraverso l’attivazione della funzione mnemonica e l’utilizzazione del linguaggio costituiscono le diverse tappe che conducono alle possibilità di “insight”. Ciò che Piaget chiama “interiorizzazione degli schemi” è reso possibile soprattutto dal linguaggio, che rinforza considerevolmente l’interiorizzazione.

Ulteriore sostegno e correlazioni si ritrovano nel lavoro dell'appena citato J. Piaget, quando sostiene che l’uso del linguaggio verbale, insieme al gioco simbolico e all’imitazione, sono elementi necessari all’attività rappresentativa e delineano il passaggio dall’intelligenza sensomotoria a quella rappresentativa. Per tale scopo, il corpo e l’azione giocano un ruolo essenziale poiché il bambino, attraverso le esperienze del periodo sensomotorio, dalle reazioni circolari primarie alle terziarie ed infine all’invenzione di mezzi nuovi mediante combinazione mentale, entra nel periodo pre-operatorio: il bambino è in grado di utilizzare simboli, immagini, parole e azioni, che rappresentano altre cose.

L’attività imitativa è considerata da Piaget come un prevalere del momento dell’accomodamento sull’assimilazione ed è presente già al livello della reazione circolare primaria (2°/3° mese), anche se in modo sporadico. Man mano che il coordinamento tra i diversi schemi (tattili, cinestesici, sonori e visivi) si fa più marcato, si determina la possibilità di utilizzare l’imitazione di modelli visivi, tattili o anche sonori. Lo svolgersi di tali attività imitative dimostra la presenza di un vero sforzo di accomodamento. Alla conclusione del periodo sensomotorio si ha la comparsa dell’imitazione rappresentativa o differita: il bambino giunge a imitare subito modelli nuovi senza dover ricorrere a tentativi e per immediata combinazione

mentale dei movimenti necessari; inoltre, riproduce un modello non più soltanto in presenza di questo, ma qualche tempo dopo la sua scomparsa. Perciò l’attività imitativa è una delle attività che favoriscono lo sviluppo delle funzioni rappresentative. La “rappresentazione”, ossia l’immagine mentale di un movimento, di un gesto o di un oggetto, sarebbe, secondo Piaget, una vera e propria ricostruzione mentale dei momenti successivi all’analisi percettiva, che è stata in precedenza realmente compiuta, di quel movimento, gesto o oggetto.

A conferma di ciò, sono stati individuati stretti parallelismi tra le prime produzioni verbali e le produzioni non verbali tra i 12 e i 18 mesi. I gesti rappresentativi, sia quelli convenzionali con forma e significato culturalmente condivisibile (ad es.: ciao, battere le mani, buono), sia quelli iconicamente collegati ad azioni transitive o intransitive eseguite abitualmente dai bambini (come telefonare, dormire, mangiare), vengono appresi durante le interazioni con l’adulto, all’interno di giochi o routines, oppure derivano dall’azione del bambino sugli oggetti. Nelle prime fasi il bambino produce lo schema d’azione sull’oggetto dimostrando di averne colto la funzione specifica. In un secondo momento lo schema diventa gesto, quando la sua funzione diventa comunicativa e simbolica. Quindi, dallo schema d’azione si passa ai gesti rappresentativi, che sono a loro volta precursori delle parole rappresentative.

Uno studio di Caselli et al. (2009) sostiene che la produzione di azioni/gesti segue un andamento evolutivo più simile alla comprensione di parole piuttosto che alla produzione. Ciò sembra suggerire che l’acquisizione dei significati emerga prima di tutto nella comprensione e nella messa in atto di schemi di azione e si consolidi successivamente attraverso la produzione delle etichette verbali corrispondenti. Inoltre, quando i bambini cominciano a produrre più parole, queste parole sono integrate con unità gestuali che svolgono simili funzioni semantiche e pragmatiche. Perciò, nello sviluppo tipico si passa attraverso una prima fase in cui il bambino utilizza più gesti che parole per comunicare; poi, vi è una fase di equipotenzialità tra la modalità vocale e quella gestuale; quindi, quando il vocabolario verbale comincia ad espandersi, le parole sono integrate con i gesti, in combinazioni crossmodali, che preparano e predicono le prime frasi. Nel corso dello sviluppo i gesti non scompaiono, ma si modificano in termini di tipi (deiettici, rappresentativi e pragmatici), funzioni e relazioni (semantiche e temporali) con le parole co-referenziali, modificandosi anche in base ai contesti di osservazione (gioco spontaneo, compiti di naming, narrazione).

 

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