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Approcci terapeutici e sviluppo del bambino straniero

Verso un dispositivo di metissage e cosmopolita

L'Etnopsicoanalisi è una disciplina nuova, in corso di formazione e attualmente assai polimorfa. Tale tipo di approccio terapeutico risulta essere una pratica psicoterapica ad orientamento psicanalitico che integra nella comprensione e nella risoluzione dei suoi conflitti i dati culturali propri del paziente, e ciò in modo complementarista, in altre parole in maniera imprescindibile, ma non simultanea. L'Etnopsicoanalisi è innanzitutto una pratica del legame della molteplicità e della diversità che chiarisce in modo differente le questioni legate all'identità poste alla nostra società e quindi anche alla scuola e al sistema di cura. Nel tentativo di uscire dal dibattito riguardo all'etnopsicanalisi che si è iniziato a parlare di clinica transculturale, allargandone le prospettive ed inserendola nel dialogo con altre discipline e con l'intera società. Risulta quindi necessario de-centrarsi, ovvero mettersi al posto di chi parla e accettare di capire partendo dalle proprie logiche, sia culturali che psicologiche. Pertanto per costruire un nuovo sentiero, è necessario accettare l'idea che il sapere dell'altro sia una realtà. Il de-centramento presuppone quindi che si accetti di moltiplicare le chiavi di lettura di un determinato fatto e che si cerchi di co-costruire con il paziente la sua lettura, attualizzata nella relazione. La questione culturale è stata posta per lungo tempo, dalla psicanalisi. Freud in tutte le proprie opere ha analizzato il ruolo della cultura nel funzionamento intrapsichico del soggetti; altri studiosi hanno dedicato opere e ricerca nell'ambito della possibile correlazione tra cultura e salute. Si è quindi giunti attraverso lavori sia di ricerca che clinici a definirla come problematica centrale alla sofferenza dei pazienti migranti e dei loro figli, ma è anche determinante per la creazione di dispositivi di cura pertinenti ed efficaci.

Approccio Psicoanalitico di Acouturier e Lapierre

Bernard Acouturier e Andrè Lapierre hanno sviluppato un approccio di tipo psicanalitico partendo dalle intuizioni e teorie sviluppate dalla scuola anglosassone di Winnicott e quella francese di Dolto. Sia Acouturier che Lapierre hanno mutato il proprio approccio iniziale (più vicino alla psicologia di Piaget), verso aspetti puramente cognitivi della motricità. Alla base della loro tecnica di terapia ed educazione psicomotoria sta la relazione corporea simbolica con il soggetto (l'altro), fondata essenzialmente sul corpo e sulla comunicazione non verbale. Entrambi concepiscono i comportamenti motori spontanei in ciascun soggetto (sia esso bambino che adulto), come dotati di un particolare significato simbolico che il terapista deve comprendere. Per loro il corpo è un luogo in cui risiedono desideri, piaceri o dispiaceri, dunque fantasmi originari. Il riconoscimento del corpo come luogo del desiderio e di scambio affettivo porta Acouturier a ipotizzare che il terapista debba formarsi sia come psicomotricista, ma che sviluppi anche un'attenzione speciale per la Psicanalisi, così da essere in grado di riconoscere i significati profondi della relazione corporea che va ad instaurare con il bambino in terapia. Lo psicomotricista deve essere in grado di padroneggiare le proprie pulsioni e le proprie reazioni toniche, così come dev'essere consapevole delle situazioni simboliche che la relazione d'aiuto genera.

Andrè Lapierre ha invece dato vita alla Psicomotricità relazionale, che prenderà poi il nome di Analisi Corporea della Relazione. Così come Acouturier, anche Lapierre assume un'ottica psicanalitica nello sviluppare il proprio metodo di lavoro. Egli sostiene che il gioco libero che il bambino porta in terapia, sia alla stregua dell'associazione libera psicanalitica e, addirittura, del sogno stesso. Lapierre sottolinea però l'importanza del desiderio fusionale all'interno del processo di analisi corporea della relazione, andando a sfatare così il "tabù psicanalitico" del contatto corporeo. Egli insiste molto sul simbolismo degli oggetti del setting terapeutico, che considera alla stregua di recettori di significazioni rappresentazionali delle dinamiche intra ed inter personali. Il punto comune e di maggiore interesse è quello legato ai fantasmi inconsci che il bambino e l'adulto vivono, e che sono alla base dell'orientamento del loro agire. I fantasmi sono fortemente legati al vissuto immaginario del corpo, in particolar modo nella relazione che questi ha con l'altro o col mondo. Nel corso delle loro ricerche, i due autori sono stati in grado di distinguere tra fantasmi propri dell'adulto (ovvero appartenenti alla natura umana), e l'aspetto differenziale – culturale di ciascun gruppo di partecipanti alla terapia. Dalle loro ricerche si può giungere ad una separazione tra un aspetto naturale, biologico del fantasma corporeo, ed un aspetto culturale dei vari soggetti. Sorge ora spontanea una domanda: cosa succede nel momento in cui i fantasmi di un bambino – paziente, proveniente da un contesto culturale differente da quello del terapeuta, si incontrano con quelli dello psicomotricista stesso? Ogni esperienza e il relativo contenuto simbolico devono essere interpretate dal terapeuta andando ad analizzare le variazioni toniche di ciascun soggetto; ne risulta quindi che la loro interpretazione, dovrà fare i conti con il differenziale culturale evidenziato dagli stessi Acouturier e Lapierre.

I contributi di Jerome Bruner e Howard Gardner

Jerome Bruner è stato il fondatore della Psicologia culturale che si è sviluppata a partire dagli anni '80, inaugurando un filone post – Deweyano che mirava al superamento del paradigma dell'intelligenza artificiale, sviluppatosi nel decennio tra gli anni '60 e '70. Il contributo più grande attribuibile alla figura di Bruner, è stato quello di trovare una correlazione tra conoscenza e relative esperienze. Tale corrispondenza è però mediata in maniera fondamentale dal linguaggio e deve tenere conto anche del contesto culturale in cui essa avviene. Lo studio pluridecennale che Bruner condusse, mirava ad individuare quali mediatori entrassero in gioco nel momento in cui si sviluppavano interazioni tra bambini e adulti, prestando un attenzione particolare alle modalità attraverso cui i bambini si avviano all'utilizzo del linguaggio. L'interesse di Bruner si sposta quindi sugli aspetti culturali che entrano a far parte di queste interazioni; l'autore riesce quindi ad individuare determinati schemi all'interno dei quali sia bambini che adulti, sono in grado di prevedere gli uni i comportamenti degli altri, ad attribuirsi delle intenzioni e in generale, a formare delle interpretazioni di ciò che gli altri dicono o fanno. Nel corso del proprio studio, Bruner si imbatte nel concetto antropologico di cultura: un concetto ricco di sfumature sia per quanto riguarda l'apprendimento, il simbolismo e la capacità di adattamento al contesto sociale. Dopo essersi avvicinato al Costruttivismo di Nelson Goodman, Bruner arriva ad affermare che "esistono diversi "modelli di realtà" a cui la mente umana cerca di adattarsi utilizzando "sistemi simbolici" (J. Bruner). L'autore inizia così una battaglia intellettuale contro il paradigma dell'intelligenza artificiale; egli infatti sostiene che la cultura vada presa sul serio, tanto quanto la biologia nello studio della mente umana. Bruner arriva a sostenere che sia la componente culturale, e non la biologia, a plasmare la vita e la mente dell'uomo, a dare significato all'azione inserendo gli stati intenzionali profondi in un sistema interpretativo.

Howard Gardner, riprendendo parte delle teorie del proprio maestro (Bruner), sviluppa nel corso degli anni una spiccata sensibilità per lo studio delle capacità mentali ed intellettive inquadrate all'interno della fisicità corporea dell'uomo. Gardner, padre della teoria delle intelligenze multiple (formulata compiutamente nel 1983), critica aspramente l'astrattezza della formula del QI (quoziente intellettivo), un numero che pretende di misurare la "quantità" dell'intelligenza posseduta dal soggetto, trascurando quasi del tutto l'aspetto "qualitativo". Sensibile anche alla pluralità di civiltà umane, Gardner sottolinea che lo studio da lui co – condotto (denominato Project Zero), si focalizzi sull'intelligenza in altre civiltà. Il contributo di Gardner alla ricerca in Psicomotricità interculturale, risulta essere fondamentale e decisivo. In primo luogo egli passa dal singolare al plurale: secondo il pedagogista Americano, non esiste una sola intelligenza alla quale tutte le altre debbano andare sacrificate, ma ne esistono diverse forme; in altre parole esistono diversi modi di decodificare la realtà che ci circonda. Parlare di diversi tipi di intelligenza come fa Gardner, significa in qualche modo "democratizzare" le pratiche educativo – pedagogiche della scuola, la quale dovrebbe dare più spazio e valorizzare altre modalità di apprendere la realtà. Il contributo maggiore fornito dal pedagogista Americano alla causa Psicomotoria, è stato il riconoscimento dai 7 tipi di intelligenza, tra le quali ha inserito un intitolata "corporeo – cinestesica" e una "spaziale". Il corpo con Gardner, acquista la "dignità" di essere aggettivato come intelligente in quanto tale, e non solo perchè "portatore" di un cervello, unica struttura deputata a sviluppare l'intelligenza con la I maiuscola. Gardner è consapevole che ciascuna società/civiltà, privilegia l'una o l'altra delle sette intelligenze da lui individuate. Nella cultura Occidentale le intelligenze logico – matematica e linguistica sono quelle assolutamente privilegiate; infatti nelle scuole occidentali si dà molta importanza all'uso di tecnologie e di sistemi simbolici astratti, mentre le altre forme di conoscenza (di tipo spaziale, musicale o corporeo – cinestesica), sono per lo più trascurate. Risulta quindi evidente come, un soggetto proveniente da civiltà di tipo tradizionale e analogico, manifesti delle difficoltà nel passare rapidamente al sistema occidentale di istruzione. Consapevole di come la cultura sia importante per determinare il senso di identità di ogni uomo (oltre che di appartenenza), Gardner per quanto concerne l'intelligenza personale – ovvero la conoscenza di sé stessi e degli altri -, sottolinea il fatto che "l'esaltazione del Sé è una scelta culturale che è stata fatta in ambienti Occidentali contemporanei, ma che non è in alcun senso un imperativo umano. Le culture si trovano di fronte alla necessità di scegliere il Sé individuale, la famiglia nucleare o la comunità; attraverso questa scelta le culture determinano la misura in cui l'individuo guarda all'interno verso se stesso o guarda all'esterno verso gli altri" (Gardner, Formae Mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, 1997).

Già nell'approccio Etno-psichiatrico/psicanalitico di Tobie Nathan, si è visto come si ponga il problema del dis – equilibrio di potere che esiste tra ammalato e terapeuta. Inoltre, analizzando l'approccio psicanalitico della Psicomotricità di Lapierre ed Acouturier, ci si è imbattuti sulla questione del rapporto simbolico, fusionale della relazione fra terapeuta e bambino.

Si supponga di trovarsi in una situazione in cui un soggetto indio-nativo dei Paesi del Sud America giunga in Occidente; tale soggetto porterà con sé la propria cultura d'origine che risulterà alquanto diversa da quella del Paese ospitante, nonostante le modificazioni che il processo migratorio ha comportato nell'attuale cultura Occidentale. Il malessere adattivo portato dal soggetto immigrato all'interno di un ambiente terapeutico come la stanza di psicomotricità, porta il terapista a ricercare e a trovare degli espedienti ad hoc per superare quel senso di inadeguatezza nella sua stessa preparazione professionale di fronte a quel particolare tipo di malessere. In queste situazioni, l'operatore mette in atto delle competenze che esulano dalla pura formazione professionale e teorica; in altre parole ciascun terapista attinge dalle proprie competenze personali, in modo da aiutare il soggetto portatore del malessere adattivo. Il senso di inadeguatezza che all'inizio si genera nel terapista, lascia un impronta indelebile che rimane viva nel tempo, nonostante alla fine l'operatore riesca a fornire un aiuto adeguato alle necessità del soggetto in difficoltà.

Andando ad analizzare il ruolo che il corpo riveste all'interno delle civiltà più antiche, si osserva che nella cultura Africana, così come in quella Indiana, la corporeità abbia un ruolo fondamentale. Si pensi ad esempio ai riti tipici delle tribù africane in cui l'aspetto cerimoniale, che comprende la coloritura, il tatuaggio e l'ornamento del corpo, riveste un ruolo fondamentale. In secondo luogo si consideri la cultura Indiana, in cui è radicata fin da tempi antichi una cultura del corpo che risulta quasi del tutto sconosciuta ai soggetti Occidentali. In tutti questi casi si è osservato come tutte le diverse "culture del corpo" (Indiane o Africane che siano), siano più aperte e disponibili al dialogo con la cultura del corpo di matrice Occidentale. Per quanto riguarda la cultura del corpo nelle culture Orientali come quella Cinese o Giapponese; è opinione diffusa all'interno degli ambienti clinici, affermare che i soggetti provenienti dalla Cina, siano fra tutti quelli meno disponibili ad un confronto. La mancanza di scambio e dialogo tra la cultura del corpo Orientale e quella Occidentale, sarebbero da ricercare all'interno delle teorie relative al rapporto anima - corpo (ne è un esempio la teoria taoista dello Yin – Yang), in cui quest'ultimo viene concepito attraverso ascendenze filosofiche anti e metafisiche; tali teorie si presentano come psico – logicamente ardue da comprendere per la mentalità Occidentale e tendono ad essere considerate come teorie pure e perfette.

 

I genitori e il trauma migratorio

La migrazione determina in maniera indiretta, una rottura a livello del quadro culturale interiorizzato dal paziente. In effetti la migrazione, è innanzitutto un avvenimento sociologico iscritto in un contesto storico e politico. Le ragioni per le quali un soggetto o più soggetti migrano, sono numerose; talvolta si è obbligati a farlo per motivi politici, altre volte per ragioni economiche. Le motivazioni sono quasi infinite, ma si deduce che al vissuto della migrazione si può sommare quelle delle circostanze che hanno spinta a compiere questo viaggio. Ogni migrazione è un atto coraggioso che impegna la vita di ciascun individuo e provoca delle modificazioni nell'insieme della storia familiare. Qualunque sia la motivazione, l'atto migratorio spesso può risultare traumatico. Risulta quindi necessario distinguere le diverse dimensioni del traumatismo migratorio: "Il traumatismo classicamente descritto dalla teoria psicanalitica potrà definirsi come un improvviso afflusso pulsionale non elaborabile e non suscettibile di essere rimosso poiché al momento della sua comparsa non esisteva una situazione d'angoscia " (Nathan T, La fonction psychique du trauma, 1987). La psicanalisi classica riconosce tre significati differenti alla nozione di traumatismo: quello di uno shock violento, quello di una violenza, quello conseguente all'insieme dell'organizzazione. In aggiunta a queste tre diverse chiavi di lettura del traumatismo migratorio, Nathan ne differenzia altri due: il cosiddetto traumatismi "intellettuale", o traumatismo del non senso, il cui modello è fornito da G. Bateston nella sua definizione di double bind (doppio legame); infine egli ne riconosce un terzo tipo, il traumatismo della perdita del quadro culturale interno, a partire dal quale si innesca il processo di decodifica della realtà esterna. Nel caso del traumatismo migratorio, si tratta generalmente di un traumatismo del "terzo tipo", che però potrebbe essere associato agli altri due tipi, in quanto le dimensioni affettive, cognitive e culturali intervengono con interazioni necessarie e complesse. 

Figli di immigrati ed il meticciato

I genitori, ovvero coloro che hanno compiuto il viaggio sia materiale che psicologico, accettano il ruolo di "immigrato in via d'integrazione" che la società ospitante gli riserva. Questi lo accettano in quanto si trovano inseriti all'interno di un processo d'acculturazione che li fa in qualche modo sperare di vedere i propri figli inseriti in questo nuovo mondo, con la possibilità di raccogliere i frutti del loro "sacrifico". Il prezzo dell'acculturazione risulta però talvolta molto pesante, conducendo questi soggetti in qualche occasione, alla cancellazione della propria identità. I figli dei migranti cosiddetti di "prima generazione", sono ormai fuori dalla dinamica del viaggio. La sfida che li coinvolge va quindi a modificarsi: il viaggio è una parte costituente della loro esistenza, sia che quella esperienza sia stata raccontata oppure no. Questi soggetti cercheranno quindi un altro cammino, quello che gli spetta, ovvero la via del metissage. Questa è la vera sfida della migrazione, un gioco che si ripete dalla notte dei tempi: inserirsi nel nuovo mondo, partendo dall'universo genitoriale, porta ad un dinamico mescolamento di persone e pensieri, così come di divenire. Col termine metissage si intende che tutte le forme sono possibili, così come in genetica; con questa parola ci si riferisce a tutto ciò che non è circoscrivibile all'interno di una o dell'altra categoria, ma ricopre uno spazio intermedio tra le due. I bambini che si trovano in situazione di metissage oscillano tra due poli più o meno identificati: quello della memoria e dello del desiderio – memoria, talvolta conflittuale, che che però soddisfa sempre un desiderio di riconoscimento o d'inizio. Tale discorso affonda le proprie radici teoriche in diverse discipline, tra cui l'antropologia, la pedagogia e in maniera particolare nella Psicanalisi. In alcuni casi questi figli dell'oggi, cercano di cancellare o dimenticare le proprie radici (trasmesse per via verticale dai propri genitori), sentendosi degli esseri in cerca di un identità e di un'"autore". In altre situazioni, questi soggetti cercando di recuperare l'onore familiare perduto, attraverso atti violenti che hanno come scopo quello di proclamare l'umanità perduta dei propri genitori, soggiogati in situazioni nelle quali è riconosciuta solo una parte della loro identità (ad esempio in ambito lavorativo).

La costruzione di una propria identità in situazioni di metissage

Punto centrale della costruzione dell'identità di questi bambini è la questione della differenza e, più precisamente, il sentimento legato all'alterità. In effetti, risulta essere difficoltoso per la popolazione "ospitante" pensare la differenza, rispettarla ed iscriverla nei propri modi di fare, sia nelle istituzioni scolastico – educative, sia nelle strutture sanitarie. Le reazioni che si possono generare di fronte a tale differenza possono essere inquietanti e pericolose: l'intolleranza, il razzismo, la paura per giungere perfino al terrorismo. Filosoficamente parlando, si è dibattuto per diverso tempo sulla natura fondante dell'identità; sono andate quindi a formarsi due correnti di pensiero: la prima concepisce l'identità come sostanza, mentre la seconda (più in linea e vicina alla Psicanalisi), definisce l'identità come processo. In questa seconda chiave di lettura, l'identità è una costituzione dinamica che va rinnovata continuamente attraverso la relazione con l'altro. Risulta necessario constatare che, per costruire la propria identità è necessario riconoscere e tenere presente quella dell'altro. L'identità presuppone quindi il concetto di alterità; in altre parole l'essenza altrui non è la sua alterità, bensì la singolarità e il legame che lo lega all'altro. Rifacendosi ai filosofi del secolo scorso, si nota come questi cerchino di mostrare come sia necessario stabilire con rigore che le relazioni all'altro possono effettivamente essere fondate su una reciprocità creatrice e diventare così la sorgente e la base, il mezzo e la fine di un'etica autentica, in altre parole di una dottrina della libertà felice.

Neonati e bambini di qui

Ciascun bambino nasce in una determinata culla culturale ed innesca una serie di interazioni affettive, comportamentali e fantasmatiche con i genitori, i fratelli e/o sorelle, e col passare del tempo, anche col mondo circostante. Crescere è un percorso complesso in cui è necessario che il soggetto si inscriva in modo simultaneo nella propria filiazione e affiliazione. Questo processo risulta particolarmente difficile nelle situazioni migratorie cui questi bambini sono protagonisti attivi. Il modo in cui si pensa la natura di un bambino, i relativi bisogni, attese, malattie, o il tipo di educazione e di cure da fornirgli, risultano largamente determinanti dalla società alla quale egli appartiene. Il primo ad argomentare tale formalizzazione è stato George Devereux, il quale ispirandosi e influenzato dal culturalismo Americano (di cui la Mead è stata una delle rappresentanti), ha cercato di illustrare come si articolino da un lato le rappresentazioni della natura prodotte nell'infanzia, e dall'altro il modo di crescere dei bambini. Andando ad analizzare più specificatamente le modalità di accudimento e di presentazione della malattia, è stato osservato come, sia nel caso di malattia somatica che psichica, nelle società tradizionali si è osservato come il corpo e la psiche siano intimamente legati, così come l'individuo è intimamente legato al proprio gruppo culturale. Nel corso di una conferenza tenutasi nel 1968, Devereux dimostrò come la personale concezione culturale dell'infanzia, influenzi i modi di essere e di agire nei confronti del bambino. Riportando il proprio studio basato sull'analisi di due civiltà differenti (i Sedang, una popolazione del Vietnam del Sud e i Moavi degli Stati Uniti), Devereux dimostrò come le visioni che gli adulti hanno dell'infanzia, ovvero le "idee che essi hanno della natura e della psicologia del bambino, determinano i comportamenti nei suoi confronti, andando ad influenzarne così lo sviluppo" (Devereux, 1968). Ai fini di comprendere l'impatto delle rappresentazioni sul comportamento degli adulti e il relativo sviluppo del bambino, Devereux suggerì di considerare due livelli di realtà: il reale (ciò che è mostrato) e la realtà psichica (ciò che è pensato e vissuto). Lo Psichiatra di origini Rumene, introdusse una dicotomia tra ciò che del comportamento è infantile (la maturazione di un organismo biologico e fisico non ancora avvenuto), e ciò che è puerile, in altre parole il comportamento sociale ed individuale che dal bambino viene appreso. Al fine di differenziare ciò che è infantile da ciò che è puerile, Devereux ha utilizzato l'esempio del periodo di latenza; tale periodo non esiste nelle popolazioni Sedang e Moavi, ma è presente nella società Occidentale (momento in cui la curiosità del bambino è investita nell'apprendimento scolastico). Al contrario, i comportamenti legati allo stadio orale, anale, fallico o edipico sono collegati al registro infantile. Utilizzando tale espediente, Devereux mostrò come l'immagine che la società ha dell'infanzia e l'esperienza di vissuto che questa determina, influenzino marcatamente il pensiero psicologico generale dei membri stessi della società, con effetti visibili e tangibili sulle modalità di sviluppo e di cura del bambino. Tutto questo discorso è espandibile anche alle culture Occidentali; si potrebbe considerare infatti il nuovo nato come un essere che in principio è totalmente dipendente dalla madre. Successivamente il padre (o un terzo), separa il bambino da lei, dando inizio al processo di individualità; tutta l'educazione sarà quindi fondata su questa nozione di individualità. Nell'Africa Occidentale invece, il bambino viene considerato come un nuovo – nato straniero che i genitori devono accogliere, imparare a conoscere, umanizzare e "adottare".

Mentre nella rappresentazione del bambino nella civiltà Occidentale, risulta centrale la questione della separazione madre – figlio e quindi dell'identità individuale, nelle civiltà dell'Africa dell'Ovest assume primaria importanza l'aggregazione del bambino al gruppo, e quindi la sua iscrizione in un legame che collega i viventi, gli antenati ed il mondo invisibile. Un parametro da non dimenticare e porre in secondo piano, risulta essere quello dell'investimento che precede la percezione del bambino da parte dei genitori. A tale rappresentazione si aggiungerà poi la dimensione culturale che interviene a dare nuova forma alla primitiva iniziazione fantasmatica ed affettiva.

Vulnerabilità nello sviluppo dell'infanzia

I figli dei migranti sono particolarmente vulnerabili in quanto appartengono ad un gruppo a rischio. Osservando i risultati di alcune ricerca, si può affermare che il primo momento di vulnerabilità di questi bambini è quello della fase postnatale, in cui sia il neonato che la madre devono adattarsi l'uno all'altro. Il secondo periodo critico è stato individuato nella fase dei primi importanti apprendimenti scolastici quali il calcolo, la lettura, la scrittura, ovvero il momento in cui il bambino viene inserito nella società di accoglienza. Il terzo ed ultimo periodo vulnerabile è senza ombra di dubbio quello dell'adolescenza, momento in cui si pone la questione della filiazione e dell'appartenenza. La vulnerabilità psicologica è un concetto sviluppato dal pedopsichiatra Americano Anthony nel 1978; altri clinici (tra cui Anna Freud) analizzarono e cercarono di spiegare il concetto di vulnerabilità psicologica: "Non si può spiegare la vulnerabilità con le caratteristiche individuali del bambino, ma bisogna interpretarla in termini più generali ed impersonali. Penso ora che il progresso del bambino lungo le linee di sviluppo verso la maturità dipenda dall'interazione tra numerose influenze esterne favorevoli e i talenti innati favorevoli, e un'evoluzione favorevole delle strutture interne" (Freud A, L'Enfant dans sa famille. L'enfant vulnérable, 1982). La vulnerabilità è dunque una nozione dinamica, riguardante un processo di sviluppo. Il funzionamento psichico del bambino vulnerabile è tale che una minima variazione, interna o esterna, genera una disfunzione, una sofferenza talvolta tragica, un arresto, un'inibizione o uno sviluppo al minimo del suo potenziale. In altre parole il bambino vulnerabile è un soggetto che "possiede la minima resistenza ad ogni fattore nocivo e alle aggressioni" (Tomkiewicz S. et Manciaux M, La vulnérabilité, 1987).

Presentare il mondo

Al fine di comprendere la genesi di tale vulnerabilità, è necessario partire dalle prime interazioni tra madre e figlio. La madre in casi di migrazione, partorisce da sola, in un Paese straniero, con tutte le incertezze ed i rischi che ne derivano. Dovrà in seguito adattarsi al proprio bimbo e apprendere ad essere madre senza l'aiuto delle "commadri" (madre con), diversamente agli usi delle società tradizionali in cui il gruppo accompagna tutti i momenti inziatici, quali risultano essere la gravidanza e la nascita del bambino. Attraverso i primi scambi, il neonato assorbirà tutto il bagaglio culturale che la madre porta con sé: una lingua, delle maniere di essere o di fare, il rapporto col mondo circostante... Nel corso di questo periodo la madre è messa di fronte a doveri contraddittori: proteggere il bambino, riconoscergli un ruolo, amarlo a modo suo, ma allo stesso tempo deve prepararlo all'incontro con il mondo esterno, di cui lei stessa non conosce tutte le logiche di funzionamento. Ai fini di una maggior chiarezza ed esposizione, risulta necessario recuperare alcune delle nozioni classiche elaborate da Winnicott, il quale distingue tre tipologie di atti nelle cure prestate al bambino dalla madre: lo holding (contatto fisico con la madre), lo handling (stimolazioni sensoriali provocate dalla madre), l'object – presentering (modo di presentazione dell'oggetto). Così lo stesso Winnicott esprimeva la propria concezione del rapporto tra madre – figlio e mondo esterno: "... Penso che ognuno cresca come se, all'inizio, avesse avuto una madre capace di fargli scoprire il mondo a piccole dosi […]. La madre condivide con il suo piccolo un pezzo a parte del mondo intero, conservandolo sufficientemente piccolo perchè il bambino non entri in confusione, ampliandolo progressivamente per soddisfare la crescente capacità del bambino di gioire del mondo" (Winnicott D.W, Le monde à petite dose, 1975).

La madre percepisce il mondo secondo categorie determinate dalla propria cultura d'origine. La sua esperienza del reale è "frazionata e limitata" dai suoi strumenti culturali. Ciò che lei percepisce del mondo, per mezzo della propria matrice di lettura, non sono gli oggetti in quanto tali, bensì l'interazione di questo sistema di lettura (strutturato secondo la propria cultura), e gli oggetti esterni. E' a questo livello, principalmente col mondo esterno, che il processo migratorio introduce una rottura brutale: il sistema referenziale non è più lo stesso, così come le categorie utilizzate, tutti i riferimenti vacillano. Le principali conseguenza sulla madre, risultano essere due: ella perde la sicurezza che aveva acquisito sulla stabilità del quadro esterno, ciò che sta al di fuori non è più sicuro ed entra in confusione il suo modo di percepire il mondo. Così, potenzialmente, potrebbe trasmettere al figlio una percezione caleidoscopica del mondo che può essere generatrice d'angoscia ed insicurezza. La realtà del bambino si costruisce a partire dall'involucro esterno costruito dalla madre attraverso le prime interazioni madre – figlio. Tale involucro è costituito da una serie di atti operativi materiali (tecniche di cura), atti corporei e sensoriali (interazione madre – figlio), di atti di linguaggio (verbale e non), e di atti psichici. Tutti questi elementi prendono parte alla genesi e alla possibilità che il bambino possa risultare vulnerabile.

Pensare il mondo

I bambini crescono in un ambiente relativamente protetto, fin quando stanno nel mondo materno. Successivamente incontrano il mondo esterno e l'istituzione scolastica; talvolta i genitori migranti trovano delle difficoltà ad insegnare ai propri figli il "mondo a piccole dosi" come suggerito da Winnicott. Conseguentemente i figli incontreranno ogni giorno il mondo esterno in modo "traumatico". E' proprio in questo contesto che il bambino cresce ed è portato a separarsi dall'ambito familiare (mondo del dentro), per inserirsi nell'ambito scolastico (mondo esterno e dello straniero). Questo passaggio avviene in modo brutale in quanto il bambino è eccessivamente protetto all'interno, e non abbastanza preparato all'uscita verso il mondo esterno. I figli dei soggetti migranti si confrontano col mondo esterno senza possedere alcuna preparazione preliminare. Risulta quindi traumatizzante l'inserimento nelle scuole, o più spesso l'avvio dell'apprendimento che ne costituisce il reale inizio. Per questi soggetti il mondo esterno è vissuto spesso in modo escludente. Trovare il proprio posto all'esterno e al tempo stesso conservare quello che è stato dato all'interno, risulta essere difficoltoso in quanto le due alternative non possono coesistere nella propria rappresentazione. L'ambito scolastico è il secondo tempo della prevenzione necessaria, prima che si scateni una serie di avvenimenti a catena che potrebbero portare ad un fallimento scolastico irreversibile. Attraverso la scrittura e la lettura i bambini si inseriscono nelle logiche del mondo che li ospita (esterno). Alcuni di questi soggetti vivono tale momento come una sorta di scelta necessaria tra due mondi. Alcuni meccanismi che potrebbero essere messi in atto da questi bambini potrebbero essere la sospensione della parola, del pensiero se non addirittura il loro stesso essere. Così facendo nascondono il proprio potenziale creativo sotto la maschera dell'inibizione, accompagnata da disequilibri nelle restanti aree dello sviluppo. Questo momento risulta essere fondamentale in quanto determina il posto che egli stesso andrà ad occupare all'esterno.

Spostando l'attenzione sul piano strettamente cognitivo, risulta interessante analizzare i lavori svolti da Gibello, il quale ha stabilito un legame di altra natura tra la situazione transculturale e i disturbi dello sviluppo cognitivo, proponendo l'ipotesi dei "contenitori culturali". Tali contenitori sarebbero veicolati in maniera implicita dalla cultura e condivisi da tutti i membri dello stesso gruppo. Questi partecipano quindi al buon funzionamento dei processi razionali e della comunicabilità dei contenuti del pensiero all'interno del proprio gruppo: "la tradizione conduce i membri di una medesima cultura a dare un doppio senso alle loro percezioni: un senso banale ed un senso culturale" (Gibello B, Contenants de penseé, contenants culturels. La dimension créative de l'échec scolaire, 1988). Nel momento in cui si passa da una cultura ad un altra, i contenitori culturali impliciti variano e, nonostante col tempo riescano ad essere percepiti, i nuovi non vengono interiorizzati. Tocca quindi al bambino apprendere questi nuovi contenitori culturali; risulta quindi intuitivo affermare che la trasformazione dei contenitori culturali si può accompagnare a differenti disordini della funzione di "simbolizzazione", così come dell'apprendimento cognitivo, scolastico o socio-culturale. Qualunque siano le difficoltà dei bambini ad inserirsi nel mondo esterno, spesso questi ne sanno ben più dei propri genitori. Viene quindi a crearsi una situazione paradossale che non rispetta l'ordine generazionale o che mette in crisi l'ordine creando, talvolta, una vera e propria inversione delle generazioni; in altri termini è come se i bambini fossero autosufficienti. Questi bambini (così come gli altri), necessitano comunque dei propri legami parentali ed affettivi. L'inversione generazionale infatti è per il bambino anche sorgente di forza, ammesso che sia presa per ciò che realmente è, ovvero una finzione che accompagna il bambino nella situazione di metissage.

 

Il bambino esposto

Al fine di capire i rischi dell'inserimento nel mondo esterno, Nathan nel 1986 ha ipotizzato l'esistenza di una "strutturazione culturale" quale processo indispensabile, al fine di spiegare la genesi della cultura interiorizzata dal bambino. I bambini acquisiscono in modo concomitante, la struttura psichica (l'Io) e la strutturazione culturale, in cui si presuppone una certa distanza dalla strutturazione culturale dei genitori. Entrambe le strutturazioni risultano essere dipendenti l'una dall'altra. Il loro profondo legame si organizza nel periodo infantile, ma resta viva e funzionante durante tutta l'esistenza grazie all'omeostasi risultante dagli scambi permanenti tra individuo e il proprio contesto culturale. Il figlio di migranti che cresce in situazione transculturale acquisisce in maniera implicita una strutturazione culturale formata su una divisione, ovvero una netta separazione tra due mondi di natura differente che talvolta possono entrare in conflitto tra loro. Effettivamente il figlio di migranti, per poter crescere, deve costruire con pazienza una scissione tra il mondo legato alla cultura familiare (mondo degli affetti), e il mondo esterno, in primis quello scolastico (il mondo del pragmatismo e della razionalità). Questa scissione dell'Io quasi obbligata, si accompagna al processo di negazione cui i bambini migranti sono perennemente obbligati a ricorrere. Studi condotti da Nathan con la collaborazione della Dottoressa Moro (1989), hanno mostrato come il principale oggetto di rifiuto sia la filiazione, condiviso anche dalla famiglia stessa. In effetti, nelle famiglie il figlio migrante è percepito come "estraneo". Entrano quindi in scena dei fantasmi, rappresentazioni provenienti da miti o leggende che vanno a giustificare il senso di estraneità generatosi. I figli dei migranti sono esposti al rischio del transculturale (quello del passaggio da un mondo all'altro), come gli eroi della mitologia che sono esposti al rischio di vita, Perseo, Edipo, Mosè... Questi però, se riescono a controllarlo (attraverso l'aiuto dei clinici), saranno in grado di costruire legami tra questi due mondi, andando quindi a guadagnare delle qualità fuori dal comune (così come accaduto agli eroi della mitologia). La strutturazione culturale e la strutturazione psichica dei bambini meticci sono quindi edificate su una scissione e su conflitto, in un contesto instabile e di molteplicità.

Competenza, resilienza e creatività

La situazione transculturale in alcuni casi permette delle uscite spesso inattese. Questo è un aspetto tendenzialmente poco rilevato e studiato; a tal proposito, risultano interessanti le ricerche sull'integrazione dei migranti nel territorio Francese, sviluppate dal sociologo Dominique Schnapper. Analizzando il destino dei figli di migranti, circa la "sovra-selezione" alla quale sono sottoposti, l'autrice conclude: "Coloro che la superano, ne traggono un beneficio aggiuntivo nella logica dell'affermazione di sé e nella ricerca della distinzione, ma il rischio di fallimento è statisticamente elevato per quelli che non hanno gli stessi atout individuali e sociali" (Schnapper, La France de l'intégration. Sociologie de la nation en 1990, 1991).

La Dottoressa Marie Moro è riuscita ad individuare 3 diversi profili tra la popolazione di figli di migranti che ottengono buoni risultati a scuola; nel primo caso il bambino usufruisce di un clima sufficientemente rassicurante e ricco di stimoli di ogni sorta. Nel secondo profilo si fan rientrare quei bambini che trovano nell'ambiente degli adulti, degli iniziatori (delle guide nel mondo nuovo). Nell'ultimo caso invece, i bambini sono dotati di capacità singolari e di una considerevole stima di sé. Nei primi due profili la situazione di disequilibrio iniziale (legata alla migrazione), trova alcuni elementi contestuali che consentono di stabilire un nuovo ordine, favorendo quindi lo sviluppo delle potenzialità creatrici del bambino. Nel terzo caso la sorgente è localizzata nel bambino stesso; si potrà quindi parlare di una sua apparentemente "invulnerabilità". Intervengono infatti numerosi fattori nella genesi di possibili vulnerabilità, siano essi legati all'essenza stessa del bambino, sia dovuti al nucleo familiare o sociale. Di fronte a una tale situazione di metissage, bisogna considerare 4 fattori che intervengono nel processo di sviluppo di questi bambini. Il primo fattore è la vulnerabilità, la quale rappresenta le capacità di difese passive del bambino o dell'adolescente (vulnerabilità intesa come conseguenza ad avvenimenti di vita e a fattori di rischio). Nonostante questo fattore risulti fondamentale, è necessario citare anche la competenza, ovvero la capacità di adattamento attivo del lattante e del bambino rispetto al contesto in cui è inserito; la resilienza è un fattore che descrive i fattori di protezioni interni o dell'ambiente circostante. Ultimo fattore, ma da non dimenticare, è la creatività, la quale da conto della potenzialità che hanno determinati bambini di inventare nuove forme di vita partendo dall'alterità o dal trauma. I bambini meticci potrebbero risultare in anticipo rispetto agli altri, solo nel caso in cui si presentino fattori interni o esterni che rendano possibile il realizzarsi della creatività innovativa, tra loro o con i loro genitori.

La cultura dall'interno

Attingendo dalla tradizione filosofica moderna, la cultura viene definita come una prospettiva razionale per concepire il mondo. Ciascun cultura crea e definisce delle categorie che consentono di leggere e osservare la realtà, dando quindi un senso agli avvenimenti. Tali categorie risultano quindi arbitrarie, nel senso che variano da una cultura all'altra; queste possono essere considerate come una sorta di schemi culturali trasmessi e trasmissibili in modo implicito. Rappresentarsi è come "tagliare nel reale", ovvero scegliere alcune categorie comuni in modo da percepire il mondo in modo ordinato. Ognuno di questi mondi condivisi, vanno a costituire il riferimento delle rappresentazioni per un determinato gruppo culturale. Un sistema culturale si costituisce di una lingua, un sistema di parentela, tecniche di cura, un corpo di tecniche e di modi di fare, tecniche di cura materne... La totalità di questi elementi trovano una struttura coerente nelle rappresentazioni culturali. Queste funzionano come interfaccia tra l'interno e l'esterno, sono quindi il risultato dell'appropriazione da parte degli individui del sistema di pensiero proprio della cultura d'origine. Il soggetto incorpora le rappresentazioni, andando poi a rielaborarle, a partire però dalle proprie dinamiche, dai propri conflitti interni e dalle caratteristiche del proprio essere. Andando a focalizzare l'attenzione sul ruolo della cultura nella vita del singolo individuo, essa mette a disposizione del soggetto una griglia di lettura del mondo circostante. All'interno dei sistema culturali, sempre molto complessi e in perenne movimento, è necessario identificare gli elementi utili per comprendere e successivamente curare la sofferenza psichica in situazione transculturale.

L'essere, il senso, il fare

Qualsiasi teoria eziologica chiamata in campo riabilitativo implica una particolare tecnica di cura. L'accoppiata vincente è rappresentata dalla presenza di una teoria eziologica associata ad una tecnica terapeutica corrispondente. Risulta quindi palese la funzione dinamica delle teorie eziologiche: esse non hanno la pretesa di rilevare la causa della malattia, ma contribuiscono a definire e in qualche modo "impongono" l'adozione di una specifica "procedura". Si è osservato che sono 3 i livelli da esplorare con maggiore attenzione per co-costruire un quadro culturale appropriato:

  1. Livello ontologico, l'essere; consiste nella rappresentazione della natura dell'essere, della sua origine, della sua identità o funzione.
  2. Livello eziologico, il senso; si cerca di dare un senso a ciò che accade all'individuo o all'interno di quel particolare gruppo culturale.
  3. Logiche terapeutiche, il fare; si va ad individuare la logica di cura più idonea da intraprendere con quel particolare soggetto.

Questi tre livelli (l'essere, il senso ed il fare), vanno ad interagire tra loro nella costruzione del pensiero di una determinato individuo, in un preciso momento della sua storia personale. La cultura risulta quindi un insieme dinamico di rappresentazioni mobili in perenne trasformazione, incastrate le une nelle altre, un sistema aperta e coerente con il quale il soggetto è in costante interazione. Oltre alla presenza di tale dimensione di appartenenza culturale, bisogna aggiungere la dinamica dell'avvenimento migratorio, le conseguente potenzialmente traumatiche per l'individuo, senza però dimenticare l'acculturazione secondaria sempre prodotta dalla migrazione.

 

Indice

 
RIASSUNTO
 
PREMESSA

 

CAPITOLO 1: Storia e basi teoriche della "Clinica Transculturale"Il fenomeno della globalizzazione culturale; Storia e principi della Psicomotricità - La pratica psicomotoria incontra la Psichiatria transculturale; George Devereux: principi e nascita della Psichiatria transculturale - Inconscio della personalità etnica & Inconscio idiosincratico - L'influenza dell'osservatore sull'oggetto osservato & il principio di complementarità - Il complementarismo; Tobie Nathan e l'Etnopsicoanalisi - La psicoanalisi e le teorie intermedie - I saperi tradizionali come scienze esatte - I meccanismi terapeutici; Marie Moro e il ritorno alla Psicanalisi Freudiana - Le ipotesi di fondo - I Principi della Clinica Transculturale - Il dispositivo di cura.

CAPITOLO 2: Approcci terapeutici e sviluppo del bambino stranieroVerso un dispositivo di metissage e cosmopolita - Approccio Psicoanalitico di Acouturier e Lapierre - I contributi di Jerome Bruner e Howard Gardner; I genitori e il trauma migratorio - Figli di immigrati ed il meticciato - La costruzione di una propria identità in situazioni di metissage - Neonati e bambini di qui - Vulnerabilità nello sviluppo dell'infanzia, Presentare il mondo, Pensare il mondo; Il bambino esposto - Competenza, resilienza e creatività - La cultura dall'interno - L'essere, il senso, il fare.

CAPITOLO 3: Il caso clinico di G.Presentazione del caso clinico; Storia personale di G, Aspetti socio culturali salienti; La presa in carico - Valutazione psicomotoria - Diagnosi e stesura del progetto riabilitativo - Presa in carico e sviluppi terapeutici; Modificazione della terapia e del progetto - La questione del “segreto” - L'importanza della “storia” - Un innovativo esperimento terapeutico; Risultati, sviluppo e progressione della terapia.

CAPITOLO 4: Contenuti della ricerca; 

  • Materiali e metodi(1); Costruzione e progettazione del questionario - Da quanti anni svolge tale professione - Numero di pazienti attualmente in carico - Con quali patologie lavora prevalentemente - Elencare il numero di pazienti stranieri - Elenco di nazionalità e il numero di soggetti immigrati in terapia - Quali patologie presentano maggiormente i pazienti stranieri - Con quale tipo di utenza riscontra maggiori difficoltà - Quali fattori influenzano maggiormente la terapia. Casistica(1)Rilevamento dati - Anni di lavoro nell'ambito della riabilitazione psicomotoria - Numero di pazienti in carico - Quadro patologico generale - Numero di pazienti stranieri in carico - Nazionalità e numero corrispondente di pazienti - Quadro patologico nell'utenza straniera - Con quali pazienti trova maggiori difficoltà - Quali sono i fattori che influenzano maggiormente la terapia.
  • Materiali e metodi(2); Presentazione di un servizio di NPI aderente al “Progetto Migranti”; Griglia di rilevamento dati dei genitori e bambini immigrati - Paese di provenienza dei genitori del bambino - Diagnosi del paziente straniero (ICD – 10). Casistica(2); Rilevamento dei dati; Dati relativi all'anno 2011 - Paese di provenienza dei genitori del paziente straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD – 10; Dati relativi all'anno 2012 - Paese di provenienza dei genitori del paziente straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD; Dati relativi da Gennaio a Maggio 2013 - Paese di provenienza dei genitori del paziente straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD – 10; Sintesi della rilevazione dei dati - Paesi di provenienza dei genitori del bambino straniero - Diagnosi del paziente straniero tramite classificazione ICD – 10 87
  • Materilai e metodi(3)La griglia anamnestica per la rilevazione. Casistica(3)Numero totale di  pazienti stranieri presenti nei Servizi di NPI; Altri dati interessanti

CAPITOLO 5: DiscussioniDiscussioni e riflessioni sui dati dei questionari Neuropsicomotori - Esperienza lavorativa & difficoltà terapeutiche con pazienti stranieri - Confronto tra flussi migratori ed accesso a servizi di NPI in Lombardia - I due quadri patologici a confronto - Parametri che influenzano la terapia; Discussione sulla casistica della UONPIA in via Aldini - Le due utenza a confronto - Confronto tra i due quadri patologici; Discussioni su Servizi di NPI partecipanti al “Progetto Migranti” - Servizi di Neuropsichiatria Infantile a confronto. 

CAPITOLO 6: CONCLUSIONIIl “Progetto Migranti” come risposta ai bisogni della nuova utenza; “Progetto Migranti”: Migrazione e disagio psichico in età evolutiva - Perchè è nato il “Progetto Migranti” - Principali obiettivi del “Progetto Migranti” - Il lavoro di rete - Formazione degli operatori, Servizi inclusivi e di comunità, Wrap Around, La Clinica Transculturale - Il ruolo dell'Equipe multidisciplinare - Primi risultati relativi al “Progetto Migranti”; Alcuni spunti per possibili ricerche future; L'utenza straniera e le nuove prospettive in ambito Neuropsicomotorio

 

 ALLEGATI

 BIBLIOGRAFIA
 
Tesi di Laurea di: Livio Giuseppe CAIANIELLO

 

 

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