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Il Disturbo dello Spettro Autistico

 

INDICE PRINCIPALE 

 INDICE

Presentazione della patologia

I Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) rappresentano una disabilità neuroevolutiva complessa caratterizzata da deficit della comunicazione e nell’interazione sociale e da interessi ristretti e ripetitivi. Questa patologia è stata descritta per la prima volta nel 1943 da Leo J. Kanner, il quale aveva identificato un gruppo di bambini che presentavano sin dai primi anni di vita un estremo isolamento, anomalie della comunicazione nell’interazione e il desiderio ansiosamente ossessivo che tutto fosse mantenuto invariato.

Oggi l’Autismo è definito come una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. I Disturbi dello Spettro Autistico, pertanto, si configurano come una disabilità “permanente” che accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se le caratteristiche del deficit sociale assumono un’espressività variabile nel tempo. (SINPIA, 2005)

I Disturbi dello Spettro Autistico rappresentano una categoria diagnostica che è stata sottoposta a numerose ristrutturazioni nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V), redatto dall'American Psychiatric Association, il principale repertorio diagnostico internazionale. In seguito alle ristrutturazioni operata nell’ultima edizione del DSM-V, la categoria Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, che comprendeva il Disturbo Autistico, la Sindrome di Asperger, il Disturbo Disintegrativo e la Sindrome di Rett, è stata abolita e sostituita dalla macrocategoria dei Disturbi dello Spettro Autistico. Secondo i revisori del DSM, una disabilità così complessa è meglio rappresentata dal concetto di Spettro dell’Autismo (Autism Spectrum), definibile in base alla posizione che l’individuo assume in un continuum. Il concetto di Spettro, sembra essere più indicato per la rappresentazione delle competenze compromesse e conservate, e per la quantità di supporto richiesto all’ambiente. (Fontani, 2016)

All’interno del DSM-V il Disturbo dello Spettro Autistico rientra nei Disturbi del Neurosviluppo, e per la diagnosi devono essere soddisfatti i seguenti criteri:

A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo generalizzato dello sviluppo e manifestato da tutti e tre i seguenti punti:

  1. Deficit nella reciprocità socio-emotiva; che può essere un approccio sociale anormale e un fallimento nella normale reciprocità della conversazione o una ridotta capacità di condivisione di interessi, emozioni, affetto; oppure anche l’incapacità di iniziare o continuare interazioni sociale.
  1. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l'interazione sociale; che va dalla scarsa integrazione tra comunicazione verbale e non verbale ad anomalie nel contatto visivo e nel linguaggio corporeo, o deficit nella comprensione e nell'uso della comunicazione non verbale, fino alla totale mancanza di espressività facciale o della gestualità.
  1. Deficit nello sviluppo e mantenimento di relazioni appropriate al livello di sviluppo (escluse quelle con il caregiver); che vanno da difficoltà nell’adattare il comportamento ai diversi contesti sociali attraverso difficoltà nella condivisione del gioco e nel fare amicizie fino all’apparente assenza di interesse nei confronti delle persone.

B. Pattern di comportamenti, interessi o attività ristretti e ripetitivi manifestati da almeno due dei seguenti aspetti:

  1. Linguaggio ripetitivo, movimenti stereotipati o uso di oggetti in maniera stereotipata o ripetitiva (es. semplici stereotipie motorie, ecolalia, uso ripetitivo di oggetti, o frasi idiosincratiche)
  2. Insistenza nella sameness: eccessiva osservanza alla routine, comportamenti verbali o non verbali ritualizzati o eccessiva intolleranza ai cambiamenti.
  3. Interessi altamente ristretti e fissati, anormali in intensità o argomenti, come attaccamento o interesse per oggetti insoliti, interessi eccessivamente persistenti o circostanziati.
  4. Iper- o Ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente, come apparente indifferenza al caldo/freddo/dolore, risposta avversa a suoni o consistenze specifiche, eccessivo annusare o toccare gli oggetti, attrazione per luci o oggetti roteanti.

C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia (ma possono non diventare completamente manifesti finché le esigenze sociali non superano i limiti delle capacità, o possono essere mascherate da strategie apprese successivamente).

D. I sintomi causano compromissione clinicamente significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti

E. Queste alterazioni non sono meglio spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo.

Sulla base di tali criteri sono state elaborate una serie di Questionari, Interviste strutturate e Scale di valutazione standardizzate, ormai ampiamente utilizzate a livello internazionale con finalità diagnostiche.

Considerando un piano clinico-descrittivo si evidenzia che nei diversi pazienti il comportamento autistico presenta variazioni sia in termini quantitativi, per quanto concerne il grado di severità della sintomatologia, che in termini qualitativi, attraverso modalità espressive differenti a seconda del soggetto. Grazie al DSM-V è ora infatti possibile aggiungere la presenza di specificatori di gravità (intesa come livello di supporto necessario) con la consapevolezza che può variare nei diversi contesti e oscillare nel tempo; e la presenza di comorbidità aggiunte alla diagnosi. È quindi necessario specificare se associato a compromissione intellettiva o linguistica, a una condizione medica o genetica nota, o a un altro disturbo del neurosviluppo, mentale o comportamentale.

Il 70-80% dei pazienti autistici presenta disabilità intellettiva, che si può presentare in forma lieve, moderata o grave. Per poter effettuare diagnosi di comorbidità di DSA e di disabilità intellettiva, il livello di comunicazione sociale deve essere inferiore rispetto a quanto atteso per il livello di sviluppo generale di quel soggetto. Il 50% dei pazienti autistici non sviluppa alcuna forma di linguaggio, mentre l’epilessia è associata nel 30-40% dei casi.

Esistono inoltre quadri atipici di autismo con un interessamento più disomogeneo delle aree caratteristicamente coinvolte o con sintomi comportamentali meno gravi o variabili, a volte accompagnati da uno sviluppo intellettivo normale.

 

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Epidemiologia

L’autismo non sembra presentare prevalenze geografiche e/o etniche, in quanto è stato descritto in tutte le popolazioni del mondo, di ogni ambiente sociale; presenta, viceversa, una prevalenza di sesso, in quanto colpisce i maschi in misura da 3 a 4 volte superiore rispetto alle femmine, una differenza che aumenta ancora di più se si esaminano i quadri di sindrome di Asperger, una delle forme dei disturbi dello spettro autistico. Una prevalenza di 10-13 casi per 10.000 sembra la stima più attendibile per le forme classiche di autismo, mentre se si considerano tutti i disturbi dello spettro autistico la prevalenza arriva a 40-50 casi per 10.000. (ISS-SNLG, 2011)

I disturbi dello spettro autistico interessano circa 2 milioni di individui negli Stati Uniti e decine di milioni in tutto il mondo.  Per quanto riguarda l’Italia, l’osservatorio Autismo della Regione Lombardia, indica una prevalenza minima di 4,5 casi per 10000, ma per la fascia corrispondente alla scuola elementare il dato sale sopra il 7 su 10000.

Inoltre le statistiche mostrano che i tassi di incidenza annuali sono aumentati dal 10 al 17% ogni anno. Non c’è una spiegazione condivisa di questo continuo aumento; un fattore che viene spesso citato, però, riguarda il miglioramento del processo diagnostico (IESCUM, s.d.) .

Il passaggio dall’utilizzo del DSM VI al DSM V ha però abbassato le stime di prevalenza da 11,3:100 a 10:100 grazie all’aumentata specificità del manuale, che ha diminuito il numero di criteri da 12 a 7, e ha ridotto a due il numero dei domini concettuali (deficit della comunicazione sociale, comportamenti ristretti e ripetitivi)

 

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Eziopatogenesi e ipotesi interpretative

Le cause che portano al Disturbo dello Spettro Autistico sono ancora oggi sconosciute, complesse e oggetto di grandi ricerche e discussioni. Come tutti gli altri disturbi del neurosviluppo, è impossibile trovare un’unica causa chiara della patologia. Inoltre data la complessità del disturbo, che è definito in termini comportamentali, e che coinvolge i difficili rapporti mente-cervello, non rende possibile il riferimento al modello sequenziale eziopatogenetico comunemente usato in medicina.

Fattori causali (etiologia)

Geni e ereditarietà

Mentre fino agli anni settanta del secolo scorso si credeva che i fattori relazionali e psicologici fossero la causa di questo disturbo, ora si ritiene che essi dipendano sostanzialmente da causa genetiche.

L’autismo è infatti una patologia psichiatrica con un alto tasso di ereditabilità; lo studio di gemelli monozigoti (concordanza della malattia nei due gemelli attorno al 60-90%) contro i gemelli eterozigoti (con una concordanza inferiore al 10%) ha permesso di capire che le cause sono di origine genetica piuttosto che relazionale (Fabbro, 2012) . I genitori di un bambino autistico hanno un rischio di avere un altro bambino autistico (ricorrenza), che risulta da 50 a 100 volte maggiore rispetto al rischio per la popolazione generale (prevalenza). Inoltre alcune condizioni patologiche ereditate geneticamente, come la Sindrome da X Fragile e la Sclerosi Tuberosa, si presentano spesso in comorbidità con l'autismo. (Coglitore, 2009)

Alla luce di questi dati, ma non conoscendo ancora il percorso patogenico che porta a questo disturbo, la ricerca si sta inoltre orientando a cercare il ruolo dei fattori epigenetici e sull’interazione gene-ambiente. Viene indagata quindi anche la parte non codificante del nostro genoma (istoni), che è dimostrato avere degli effetti modulatori sul nostro comportamento e nello sviluppo neurobiologico.

L’evidenza più forte che è emersa da tali ricerche è che non esiste “il gene” dell’Autismo, ma esistono piuttosto una serie di geni che contribuiscono a conferire una vulnerabilità verso la comparsa del disturbo (Bailey et al., 1996; Szatmari et al., 1998; Folstein et al., 2001) (SINPIA, 2005)

Cause acquisite

Nonostante studi che individuano una maggiore prevalenza di complicanze in gravidanza e durante il periodo neo o perinatale in soggetti autistici rispetto alla popolazione normale, non esiste una chiara evidenza causale e non esiste una significativa associazione tra l’insorgenza dell’autismo e delle possibili noxae patogene.

Le basi neurobiologiche (anatomia patologica)

Negli ultimi anni molte ricerche si stanno concentrando sullo studio del cervello tramite tecniche di neuroimaging, sia strutturale sia funzionale, alla ricerca di possibili anomalie cerebrali comuni. Si vanno ad indagare quindi le basi neurobiologiche, ovvero l’anatomia patologica del disturbo analizzando strutture anatomiche e/o circuiti disfunzionali coinvolti nella genesi del quadro clinico-comportamentale.

Le linee guida del 2005 riportano le conclusioni di studi morfologici del sistema nervoso, tramite TAC e RMN, che hanno rilevato anomalie in strutture cerebrali, quali: il cervelletto – che spiegherebbe le difficoltà di pianificazione e coordinazione motoria, emotiva e cognitiva-; il sistema limbico, con particolare riferimento all’amigdala e all’ippocampo -che spiegherebbero sintomi quali l’ansia, i deficit dell’immaginazione, dell’empatia e nella coerenza centrale.-; anomalie del lobo frontale, associato alle funzioni esecutive, all’attenzioni di tipo visivo e alle implicazioni della teoria della mente; anomalie dei lobi temporali, correlato a un deficit emozionale e percettivo (Fabbro, 2012) .

Ancora, con tecniche di neuroimaging funzionale, nello studio “The Nature of Brain Dysfunction in Autism: Functional Brain Imaging Studies” (Mishew & Keller, 2010) si ipotizza che i neuroni corticali siano l’unità di disfunzionamento nell’autismo; la disregolazione dello sviluppo precoce del cervello è un’evidenza nei disturbi nello sviluppo neurobiologico, in particolar modo nell’organizzazione neuronale.

Sempre nelle linee guida, si presuppone che anche anomalie quantitative o qualitative -a livello recettoriale o nei neurotrasmettitori attivi nel sistema fronto-striatale - possano essere coinvolte nel determinismo del disturbo autistico.

I modelli interpretativi della clinica (patogenesi)

Nel corso di questi ultimi anni le ipotesi interpretative che sembrano riscuotere i maggiori consensi, rientrano nei seguenti modelli:

  • Teoria Socio-Affettiva (Hobson, 2003)

Questa teoria, si basa sulla convinzione che l’essere umano ha una predisposizione innata ad interagire con l'altro (Hobson, 1993). Tuttavia nel soggetto autistico abbiamo un deficit in questa predisposizione, che porta all’incapacità biologicamente determinata di interagire emozionalmente con l’altro. Questa incapacità reca al soggetto dei deficit linguistici, della cognizione sociale, la compromissione dei processi di simbolizzazione e la difficoltà nel riconoscere le emozioni e gli stati mentali nell’altro.

  • Teoria della Mente (Baron Cohen et al., 2000)

Questa teoria prevede dei precursori già nei primi anni di vita che spiegano come la teoria della mente sia già presente nel bambino, e si dimostra attraverso le abilità di attenzione condivisa, gioco simbolico, sguardo referenziale, la cui maturazione porterà alle future capacità di leggere progressivamente le emozioni, i desideri e gli stati mentali dell’altro, arrivando a ottenere delle metarappresentazioni, ovvero le rappresentazioni mentali degli altri. Queste abilità risultano però mancanti o carenti nei bambini con autismo, che quindi avranno difficoltà nell’ immaginare, prevedere e comprendere il comportamento degli altri e quindi anche a modulare il proprio comportamento in base alle risposte dell’altro. Questo deficit viene spesso definito come “situazione di cecità mentale” nel soggetto con autismo.

  • Teoria della debolezza della coerenza centrale (Frith et al.,)

Si intende per coerenza centrale la capacità di sintetizzare le informazioni recepite dal nostro sistema sensoriale in un tutto coerente e globale, ovvero in un sistema di conoscenza, tutte le molteplici esperienze parziali che ogni soggetto compie. Questa funzione risulta carente nel bambino autistico, che rimane invece ancorato a dati esperienziali parcellizzati, con un’incapacità di cogliere il significato dello stimolo nel suo complesso, una fissazione sul particolare che gli impedisce di accedere al senso generale, e un’attenzione continua e esasperata su frammenti di esperienza.

  • Deficit delle funzioni esecutive (Pennington et al., 1996)

Nei soggetti con autismo è presente un deficit cognitivo di natura generale legato all’incapacità di organizzare e pianificare i comportamenti, al fine di risolvere i problemi: avremo quindi un’incapacità di ridirezionare in maniera flessibile l’attenzione, un deficit nell’inibire risposte impulsive, nel considerare i feed-back e nel formulare mentalmente un piano di azione.

 

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Decorso e prognosi

Essendo il disturbo dello spettro autistico un disturbo pervasivo e permanente, nonostante le modifiche e i miglioranti procurati dal trattamento, resta in ogni caso una patologia invalidante da cui “non si guarisce”. Data l’estrema varietà della patologia, anche la sua evoluzione futura risulta molto variabile. I sintomi sono generalmente più marcati nell’infanzia o nell’età scolastica, mentre tendono invece a migliorare con un guadagno evolutivo nella tarda infanzia, per proseguire nell’adolescenza e nell’età adulta, almeno in alcune aree (es. aumento di interesse per le interazioni sociali).

Unico elemento stabile che determina un forte impatto sulla prognosi futura è il livello del funzionamento cognitivo. Lo sviluppo di un linguaggio funzionale, in particolar modo se avviene entro i 5 anni, sembra indicare una prognosi migliore sul disturbo. La maggior parte degli adulti con autismo non risultano autosufficienti e hanno bisogno di uno sostegno quasi costante. Studi di follow-up hanno evidenziato che un QI di 70 o più (almeno nei test non verbali), pur rappresentando un indicatore molto forte per un outcome positivo non protegge con certezza da uno scarso adattamento sociale in età adulta. (SINPIA, 2005)

Ci sono però alcuni casi di soggetti diagnosticati come disturbo dello spettro autistico che assumono traiettorie di sviluppo molto bizzarre, i “bloomers”. Sono bambini che inizialmente partono con un profilo molto negativo per poi evolvere in quadri di normalità, “perdendo” quindi la diagnosi di autismo, non rientrando più nei criteri diagnostici. Dal 3 al 25% dei casi (in generale entro il 10%) perde la diagnosi di autismo e rientrano nel range di normalità di abilità cognitive, adattive e sociali; generalmente entro i 6 anni di età. L’errore nella formulazione della diagnosi non giustifica un numero così elevato (10%): è una categoria che pone delle criticità nello studio dell’evoluzione del disturbo, data la sconvolgente evoluzione sia nella comunicazione, che nell’interazione sociale, nelle stereotipie.

I bloomers non sono un fenomeno solo riferito al disturbo dello spettro autistico ma possono essere presenti anche all’interno di altre patologie, come i late talkers nel disturbo del linguaggio.

I fattori predittivi positivi nei bloomers sono la presenza del linguaggio ricettivo, la capacità di imitazione verbale e motoria, un QI nella norma; sono solitamente figli di genitori con un buon livello cognitivo e una buona condizione socio-economica, oppure diagnosticati con un disturbo pervasivo NAS (non altrimenti specificato), ovvero quei bambini già erano al limite dello spettro. Nell’evoluzione di questi soggetti quindi l’autismo non è più sintomatico ma negli anni alcune caratteristiche continuano a rimanere nelle competenze meta-comunicative.

Fattori invece sfavorevoli per la prognosi del disturbo sono la presenza di disabilità intellettiva, epilessia e l’associazione a altre sindromi genetiche.

 

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Neurosviluppo tipico e atipico: difficoltà dei DSA fin dai primi mesi e anni di vita

Essendo questa tesi focalizzata sui disturbi dello spettro autistico in bambini molto piccoli, per comprendere più a fondo chi è il bambino con autismo e come si comporta già a partire dai primi mesi e anni di vita, prendendo spunto dai libri “L’autismo a scuola” (Cottini) e “Movimento e gioco al nido” (Cartacci) sono state riassunte nelle tabelle 1.1,1.2,1.3 le capacità di comunicazione e di interazione sociale, -quest’ultima rispetto alle abilità di gioco e allo sviluppo dell’intersoggettività - sia nello sviluppo tipico che nello sviluppo atipico di un bambino con DSA. Sono stati approfonditi questi aspetti in quanto particolarmente deficitari nei soggetti con questo disturbo e in quanto sono i punti cardine della riabilitazione del bambino con autismo in età precoce, in particolar modo della metodologia che verrà analizzata (ESDM). Queste anomalie che possono essere presenti nel neurosviluppo di bambini con DSA possono essere indici precoci di questa patologia.

 

INTERAZIONE SOCIALE: INTERSOGGETTIVITA’

 

Sviluppo tipico

Sviluppo bambino con DSA

Orientamento (primi giorni)

 

Orientamento al gesto, allo sguardo, alla voce e al volto umano (soprattutto quello della madre), da cui è attratto e ai quali dedica una vera e propria contemplazione. 

Non viene osservato un orientamento preferenziale verso gli stimoli sociali (es.volti) rispetto a quelli non sociali o agli oggetti.

Attenzione condivisa e regolazione (0- 3 mesi)

 

Interesse tranquillo e risposte intenzionali a stimoli visivi, sonori e tattili, al movimento e a altre esperienze sensoriali.

Assenza di attenzione prolungata a una serie di stimoli visivi o sonori. Comportamento autostimolatorio o afinalizzato

 

Imitazione (1-6 mesi)

 

Già a poche settimane di vita si osservano le prime forme di imitazione, che giocano un ruolo chiave nello sviluppo di processi di attenzione condivisa.

Risultano compromesse le capacità di imitazione precoce e di discriminazione del movimento umano rispetto a altre forme di movimento. Questo crea dei deficit nelle possibili interazioni reciproche con i caregivers.

Gesti comunicativi (9-12 mesi)

 

Comparsa di gesti che esprimono intenzioni specifiche, che possono essere richiestive o dichiarative; nelle ultime il bambino indica un oggetto e guarda l’adulto con l’interesse di condividerlo, di catturare anche la sua attenzione verso il materiale.

I gesti richiestivi vengono spesso evitati (indico o allungo le mani per ottenere un oggetto) creando spesso difficoltà negli adulti nella comprensione delle loro richieste e bisogni. I gesti dichiarativi sono rari in quanto non vi è interesse di condividere con altri l’attenzione verso l’oggetto (es. difficile che indichino per mostrare immagini su un libro).

Social reference (12 mesi)

 

Tendenza del bambino a controllare la reazione della madre e a reagire in relazione di questa quando si trova di fronte a un oggetto, persona o situazione nuova.

Comportamento non osservato

Attribuire scopi e intenzioni all’altro (15 mesi- 4 anni)

 

Quando un adulto compie un’azione senza portarla a termine, il bambino coglie i suoi scopi e intenzioni e non imita l’azione vista, bensì la porta a termine. Capacità di distinguere tra quello che l’adulto fa e tra quello che intende fare.

Incapacità di ripetere l’azione dell’adulto completandola, a causa del deficit nell’attribuzione di intenzioni e stati mentale agli altri.

Teoria della mente (3-4 anni)

 

Sono in grado di cogliere le prospettive intenzionali degli altri individui, che sono il prerequisito per prevedere il comportamento degli altri.

Deficit primario nella costruzione della teoria della mente, nella capacità di attribuire stati mentali agli altri, che rende difficile lo sviluppo del gioco simbolico e di finzione sociale.

Tabella 1 . 1 : Tappe dello sviluppo dell’interazione sociale - INTERSOGGETTIVITA'

 

INTERAZIONE SOCIALE: SVILUPPO DEL GIOCO

 

Sviluppo tipico

Sviluppo bambino con DSA

Gioco tonico-emozionale (2-6 mesi)

 

Partecipazione interattiva a giochi col caregiver, mantenendo il contatto oculare, un’interazione faccia a faccia, sorridendo, vocalizzando attivamente, ricercando il contatto corporeo.

Le interazioni faccia a faccia risultano disturbate, scarsa responsività agli stimoli sociali, uso anormale del contatto oculare, mancanza di espressioni facciali, fastidio al contatto corporeo.

Gioco sociale (6-12 mesi)

 

Individuano un ritmo negli scambi di gioco, aspettano il turno e danno loro inizio alle sequenze di gioco. Finalità di interagire con l’adulto, comprensione degli stati emotivi dell’altro.

Compromesso per le difficoltà a comprendere le regole sociali convenzionali e a effettuare alternanze dei turni. Raramente intraprendono giochi sociali spontanei.

Gioco funzionale (13-15 mesi)

 

Utilizzo appropriato degli oggetti come copie vere in miniatura, non fittizie. Capacità di raggruppare oggetti in base alle loro proprietà funzionali.

Modalità rigida, stereotipata e ripetitiva di manipolazione di oggetti; uso meno vario e flessibile, con grande difficoltà a generalizzarlo in contesti o con materiali differenti.

Gioco sociale coi coetanei (15-18 mesi)

 

Prime interazioni sociali con le regole essenziali. Offrono e scambiano giocattoli con altri bambini, li manipolano reciprocamente, si imitando vicendevolmente.

Possono giocare vicino a altri bambini, ma senza interessarsi a loro. Modalità di interazione coi coetanei con schemi poco convenzionali e interattivi. A volte anche la vicinanza può non essere tollerata per deficit sensoriali.

Gioco simbolico (18-30 mesi)

 

Nel gioco di finzione semplice compiono attività simboliche che fanno riferimento alle proprietà convenzionali degli oggetti. Successivamente, nel gioco di finzione avanzata (2-3 anni) inventano situazioni e copioni attribuendo significati diversi da quelli originali agli oggetti. È necessaria la capacità di evocare stati mentali negli altri e di metarappresentazione.

Il gioco di finzione semplice appare ripetitivo e letterale, non sostenuto da gesti o dal linguaggio. Difficile risulta il processo di immaginazione spontanea, se creano dei giochi di finzione avanzata sono spesso rappresentati sempre nelle stesse condizioni, con variazioni minime e con assente o limitata attribuzione di stati mentali ai protagonisti.

Gioco di finzione sociale (età prescolare)

 

Condividono con altri bambini le cornici immaginarie e interpretative che hanno creato, e sono in grado di attribuire e coordinare dei ruoli nel gioco.

Difficoltà nella partecipazione ai giochi condivisi coi compagni per il deficit a condividere la prospettiva altrui.

Tabella 1 . 2 : Tappe dello sviluppo dell’interazione sociale - SVILUPPO DEL GIOCO

 

COMUNICAZIONE

 

Sviluppo tipico

Sviluppo bambini con DSA

Comunicazione non verbale

 

Comunicano in maniera efficace i loro bisogni, nei primi 9 mesi generalmente rivolgendosi all’obiettivo/oggetto stesso, dopo dirigendosi verso gli adulti, con gesti strumentali che poi diventeranno convenzionali (indico, allungo braccio, mostro). Successivamente producono gesti espressivi, che tendono ad esprimere stati affettivi emozionali (es. abbraccio).

Acquisiscono con ritardo i primi comportamenti comunicativi, ed è difficile che riescano a coordinare i gesti comunicativi con il contatto oculare o vocalizzi. Inoltre tendono a non seguire la linea dello sguardo dell’adulto, ad avere un uso ridotto dei gesti espressivi, a non utilizzare una comunicazione con intento protodichiarativo (condividere un’esperienza con l’altro e influenzarlo).

Linguaggio verbale

 

A 2 mesi vengono emessi i primi suoni vocalici consolidati.

Questa capacità viene acquisita molto in ritardo, spesso con schemi anomali di produzioni (ringhi, schiocchi di lingua) e/o con intonazione atipica.

A 6-8 mesi iniziano le prime conversazioni vocaliche con cambio di ruolo e intonazioni del balbettio.

Persistenza di un pianto difficile da interpretare. Il balbettio è limitato e inusuale, senza imitazione dei suoni.

Dai 12 mesi compaiono le prime parole, usate per commentare, mostrare oggetti e fare richieste-

Circa la metà dei bambini con DSA non utilizza linguaggio verbale, e quelli che lo possiedono sono caratterizzati da intonazioni strane e meccaniche. Il ritardo nell’acquisizione del linguaggio è coerente al livello di sviluppo mentale.

A 16-18 mesi il vocabolario raggiunge in media 50 parole, a 20 mesi circa 150.

Le prime parole se si manifestano sono usate in maniera non finalizza e appropriata al contesto.

Dai 2 anni si accelera lo sviluppo grammaticale e si utizzano frasi telegrafiche (combinazione di 2-5 parole).

Il vocabolario resta carente, con meno di 15 parole, che in alcuni casi compaiono per poi scomparire.

Dai 3 anni vengono prodotte frasi semplici con l’utilizzo di molti morfemi grammaticali. Vengono poste molte domande e la comprensione del linguaggio è adeguata.

Rara la produzione di frasi, spesso non è presente il linguaggio creativo ma ecolalia immediata (il soggetto ripete quanto ha appena sentito) o differita (ripetizione di parole o frasi udite tempo prima). La comprensione è molto carente, e nella produzione tendono a enfatizzare la sintassi piuttosto che il contenuto semantico.

Pragmatica

 

Comprendono precocemente l’utilità, gli scopi e le funzioni del linguaggio, e la relazione che esiste tra linguaggio e contesto comunicativo: ovvero come la lingua debba essere usata e modificata per comunicare in modo adeguato e funzionale.

Qualunque sia il livello raggiunto delle capacità fonologiche, sintattiche e semantiche, il livello della pragmatica sarà sempre inferiore. Anche se il linguaggio risulta funzionale, non sono capaci di utilizzarlo in maniera adeguata nella conversazione, non comprendendone il corretto utilizzo. Hanno difficoltà nell’utilizzo corretto dei pronomi, nella prosodia, nell’intonazione e nel processo di comprensione del linguaggio (metafore, modi di dire…) che vengono presi nel loro significato letterale.

Tabella 1 . 3 : Tappe dello sviluppo della comunicazione

Alla luce delle caratteristiche cliniche dei soggetti con disturbo dello spettro autistico nei primi anni di vita, analizziamo quali sono quindi i bisogni di un bambino con questa patologia. La rete di intervento che si muove attorno al bambino con autismo, che comprende quindi il nucleo familiare, la scuola e la comunità in cui è inserito, devono collaborare per promuovere nel bambino:

  • Lo sviluppo della comunicazione (favorire gli aspetti socio-comunicativi e l’intenzionalità comunicativa, fornire strumenti efficaci per la comunicazione)
  • La reciprocità sociale (insegnare a leggere le situazioni sociali e le leggi emozionali che regolano le interazioni sociali)
  • Le abilità di gioco (sperimentazione e esplorazione di materiali e giochi differenti, favorendo un uso più funzionale e generalizzabile; sostenere la condivisione del gioco con l’altro)
  • L’adattamento al contesto (modificare l’ambiente utilizzando un contesto che crei continuità, coerenza e linearità).

Una delle figure più adatte che può aiutare la “rete” a rispondere a questi bisogni, è il Terapista della Neuro Psicomotricità dell’Età Evolutiva (TNPEE). La sua figura infatti si inserisce negli interventi per l’autismo come promotore di uno sviluppo armonico e globale, in linea coi processi evolutivi tipici, date le sue conoscenze specifiche sia pratiche che teoriche sullo sviluppo.

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INTERVENTI TERAPEUTICI PER L’AUTISMO

L’importanza della diagnosi e del trattamento precoce

A causa della maggior frequenza della patologia riscontrata negli ultimi anni, la diagnosi precoce è ormai una necessità e un’esigenza epidemiologica. La letteratura scientifica internazionale è concorde nel sottolineare l’importanza di effettuare una diagnosi precoce già tra i 12 e i 13 mesi e comunque prima dei 3 anni di età.

Grazie agli studi sugli indici precoci del disturbo, alle linee guida, alla maggior diffusione delle informazioni e dei campanelli d’allarme tra gli specialisti, i pediatri e i genitori, dagli anni 2000 si è effettuato un sensibile abbassamento dell’età della diagnosi. Il ruolo dei genitori nell’identificazione dei primi sintomi è cruciale, e generalmente, sono loro che si accorgono del ritardo nell’acquisizione di alcune tappe evolutive fondamentali o delle caratteristiche comportamentali atipiche nella risposta del proprio bambino agli stimoli, ai richiami, in generale nella comunicazione e nella relazione con gli altri, e decidono di effettuare una visita di approfondimento. Un grande contributo nell’individuare i sintomi precoci è stato dato anche dagli studi coorte effettuati sui fratelli dei bambini autistici. Inoltre nel 2012 in Italia è stato istituito il Network italiano per il riconoscimento precoce dei disturbi dello spettro autistico (NIDA Network) mirato all’individuazione precoce di atipie evolutive in una popolazione a rischio di DSA, al fine di prevenire o attenuare le successive anomalie socio-comunicative e comportamentali. L’obiettivo è quello di creare un protocollo clinico-osservazionale per il monitoraggio dello sviluppo in neonati e bambini a basso e ad alto rischio. (ISS; Scattoni Marialuisa, 2017)

Mentre negli anni 70-80 la diagnosi più precoce veniva effettuata a 3 anni, ora dai 24 mesi uno specialista può essere già in grado di effettuare una diagnosi certa e stabile. La scala ADOS (Autism Diagnostic Observation Schedule, Lord e al., 1999), strumento diagnostico specifico per il disturbo dello spettro autistico, può essere effettuata già a partire dai 12 mesi: attraverso un’osservazione di gioco standardizzata si ottiene infatti un punteggio collocabile al di sopra o al di sotto di un cut off per la diagnosi. In bambini dai 12 ai 24 mesi possiamo però parlare solo di rischio di diagnosi, attraverso l’individuazione di “sintomi negativi”, ovvero la mancanza o la riduzione di comportamenti che rappresentano tappe evolutive fondamentali nello sviluppo del bambino: il sorriso sociale, il contatto oculare e l’utilizzo dello sguardo, l’imitazione, il dialogo corporeo, la coordinazione di segnali comunicativi (gesti, mimica, vocalizzi, paroline). A quest’età infatti il bambino è ancora troppo piccolo per poter individuare sintomi più evidenti o comportamenti atipici come l’isolamento, l’ecolalia, gli interessi ristretti, la ripetitività o le stereotipie (Colombi, 2017) . 

Un nuovo studio del Centro di ricerca sull’autismo Olga Tennison ha confrontato i risultati di coloro che hanno ricevuto una diagnosi precoce con quelli di coloro che hanno ricevuto una diagnosi più tardiva. Essi includevano: l’accesso a un maggior numero di interventi, un miglior livello verbale e di apprendimento in età scolare, maggiori probabilità di frequentare la scuola statale (e non le scuole speciali) e la necessità di un sostegno meno costante in seguito. (Clark, et al., 2017)

La segnalazione di sintomi precoci consente di accedere agli interventi terapeutici in maniera sempre più tempestiva ed efficace, fondamentali per massimizzare il margine di recupero e di ridurre quindi l’impatto del disturbo sullo sviluppo globale, attraverso un’attenta osservazione del bambino che possa definire le sue potenzialità e i suoi interessi (Gison, et al., 2012) .

L’intervento precoce consente una presa in carico in una fase della vita in cui il cervello è dotato di una certa plasticità e consente quindi di ottenere una maggiore modificabilità e efficacia per quanto riguarda il funzionamento adattativo dell’individuo, contrastando l’eventuale acquisizione di comportamenti disfunzionali. Inoltre alcuni autori hanno discusso sul fatto che il secondo anno di vita sia particolarmente critico nel processo di sviluppo del bambino con autismo per vari motivi. Per prima cosa, il secondo anno di vita è un periodo dinamico nello sviluppo del cervello poiché aumenta il volume cerebrale e le connessioni atipiche che sono state associate con l’autismo; ma è anche un periodo di considerevole plasticità neurale che offre un maggiore potenziale per alterare il corso dello sviluppo. Inoltre, una parte di bambini con disturbo dello spettro autistico manifesta una regressione nel secondo anno di vita, sia dal punto di vista sociale, comunicativo, comportamentale, sia per quanto riguarda le tappe dello sviluppo tipico. (Zwaigenbaum, et al., 2015)

Quindi intervenire precocemente in questo periodo critico significa contrastare le disfunzioni correlate al disturbo dello spettro autistico prima che si manifestino pienamente, e impedendo che i sintomi divengano maggiormente disabilitanti. Infatti gli studi che indagano i benefici di un trattamento precoce in soggetti con autismo rilevano un miglioramento significativo sul piano sociale, emotivo e cognitivo: la riduzione del gap rispetto allo sviluppo normotipico è dimostrato non solo attraverso la diminuzione dei comportamenti atipici e una maggior sviluppo delle capacità adattive, ma anche attraverso un incremento del quoziente intellettivo (QI) e delle capacità comunicative-linguistiche. Questi progressi si riscontrano dopo uno o due anni di intervento precoce e intensivo, e la maggioranza dei bambini presi a carico (73 %) accede ad un linguaggio funzionale alla fine del periodo d’intervento (in generale attorno ai 5 anni), e i benefici del trattamento tendono a rimanere costanti in seguito. (Rogé, 2003)

Molti interventi comportamentali per i DSA si concentrano esclusivamente sui risultati cognitivi, comportamentali e linguistici. Ma l’obiettivo degli interventi precoci è quello di potenziare tutti i processi di sviluppo, ed essere mirati anche sugli aspetti della comunicazione sociale -elemento comunque fondamentale per la diagnosi di questo disturbo-, sulla disregolazione emotiva e sensoriale, sulle abilità motorie e sul processo di simbolizzazione.

In un articolo pubblicato su Pediatrics “Early Intervention for Children With Autism Spectrum Disorder Under 3 Years of Age: Recommendations for Pratice and Research” (Zwaigenbaum, et al., 2015) e in un altro documento precedente, dal titolo “Educating Children with autism” del USA National Reserch Council del 2001, sono state sintetizzate le caratteristiche ideali e raccomandate degli interventi corretti, mirati ed efficaci per ridurre la sintomatologia del disturbo dello spettro autistico, anche attraverso delle reviews di articoli a proposito di interventi per soggetti con età inferiore ai 3 anni.

Innanzitutto si sottolinea il fatto che non si possa proporre a bambini di età compresa tra 2 e 3 anni le stesse modalità e tipologie di interventi pensate per bambini più grandi. Infatti i trattamenti realizzati quando all’epoca le prime diagnosi non avvenivano prima dei 4 o 5 anni, e quando quindi i sintomi del disturbo erano già confermati e con scarse possibilità di insegnamento di comportamenti più adattivi, non otterrebbero gli stessi risultati su bambini piccoli e diagnosticati precocemente. Gli interventi precoci devono essere progettati integrando le best practices dei metodi comportamentali in un quadro di sviluppo basato sullo studio e sull’attuale comprensione scientifica delle modalità di apprendimento dei toddlers, ovvero i bambini con sviluppo normotipico. Infatti nei neonati e nei bambini le relazioni sociali, i processi cognitivi e comunicativi si costruiscono in base all’apprendimento esperienziale nei loro ambienti di vita naturali, e sulle interazioni con l’altro all’interno del gioco sociale che si verifica nel contesto delle attività di cura quotidiane.

L’intervento deve iniziare dalla prima identificazione dei sintomi, con sessioni d’insegnamento in rapporto 1:1 e/o in piccoli gruppi in base ai bisogni del bambino: in ogni caso in questa fascia d’età per essere efficace deve essere intensivo, precoce e curriculare. Con “curriculare” intendiamo che deve seguire le tappe dello sviluppo normotipico e partire dalla valutazione del bambino per stabilire obiettivi specifici e realizzabili. Inoltre l’intervento dovrà avere una chiara programmazione, e sarà sempre necessario un monitoraggio dell’intervento attraverso valutazioni periodiche sull’efficacia del trattamento e sui progressi del bambino, con eventuali modifiche del programma di intervento.

In entrambi gli articoli è stato quindi enfatizzato il ruolo dei genitori, che devono essere attivamente coinvolti nell’intervento, il quale è  infatti stato pensato per apprendere abilità che possano poi essere utili e generalizzate nelle attività della vita quotidiana, nel proprio contesto di vita familiare, focalizzandosi e offrendo consigli ai caregivers sui “teachable moments”: i momenti presi dalla vita di tutti i giorni (pranzo, bagnetto…) che possano costituire delle vere e proprie opportunità di apprendimento. Avviene quindi un vero e proprio “parent training” attraverso consulenze e informazioni per come i genitori devono comportarsi nei confronti del loro bambino con patologia.

I servizi devono inoltre considerare le credenze socioculturali della famiglia, il sostegno e le dinamiche familiari, ma anche le possibilità economiche, come fattori che possano modificare, in positivo o in negativo, l’outcome. Infatti, in un intervento che si propone come “family-centered” non si può non tenere in considerazione le priorità e i complessi bisogni dei membri di una famiglia con un bambino con DSA. 

Nell’intervento del bambino con DSA deve esserci quindi una presa in carico globale del bambino, da parte dell’équipe del servizio di Neuro Psichiatria Infantile (NPI), che elabora il programma terapeutico, realizzandolo “direttamente” sul bambino e “indirettamente”, coordinando le attività a scuola e in famiglia. Circa le “caratteristiche” dell’operatore che deve essere direttamente impegnato nell’attuazione del programma, la figura del Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva, in accordo ai più recenti profili professionali, risulta la più idonea.

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Tipologie di intervento

Nonostante negli ultimi trent’anni le conoscenze sul disturbo dello spettro autistico siano aumentate e migliorate, rimangono ancora molte incertezze sui processi di presa in carico e sulle tipologie di trattamento più efficaci. Nella grande quantità di informazioni disponibili su questa patologia, è facile sia per le famiglie sia per gli operatori sanitari coinvolti nei processi di diagnosi e stesura del progetto terapeutico, essere confusi e non sapersi orientare.

È quindi nato nella comunità scientifica e nei clinici l’interesse a creare un po' di chiarezza su questo vasto argomento. In particolare è emersa da parte della Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza l'esigenza di elaborare delle linee guida condivisibili sul territorio nazionale. Le linee guida consistono in una serie di indicazioni, raccomandazioni e suggerimenti clinici, ricavati dalla letteratura internazionale, che si pongono come punti di riferimento per genitori, i pazienti stessi e gli operatori di vario livello: medici di famiglia, pediatri di base, neuropsichiatri infantili, psicologi, terapisti e educatori. Siccome la ricerca continua a produrre evidenze, le linee guida sono state elaborate da un processo di review sistematica basata su prove di efficacia, e sono continuamente sottoposte a revisione. Nascono quindi dal confronto di esperti che verificano quanto emerge dalle nuove documentazioni scientifiche, all’interno di un gruppo responsabile multidisciplinare. (Institute of Medicine delle LG)

 Le linee guida creano un’informazione consapevole per pazienti e famiglie, orientandole nella scelta di interventi di dimostrata efficacia. A prescindere dalla metodologia utilizzata, l’obiettivo della presa in carico è quello di favorire il miglior adattamento possibile del soggetto al suo ambiente, migliorando le aree definite come deficitarie nei criteri diagnostici. Data la complessità e la vastità degli approcci e degli interventi proposti, all’interno delle linee guida vengono riportati dividendoli in due grandi categorie:

  • gli approcci comportamentali (behavioral approaches)
  • gli approcci evolutivi (developmental approaches)

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Approcci comportamentali

Negli approcci comportamentali si parte dal presupposto che le esperienze isolate proprie del bambino non possono essere fonte di apprendimento autonomo in quanto sono ripetitive, con errori e all'origine del suo disturbo. L’operatore deve quindi guidare il bambino a compiere un comportamento in modo adeguato, a far prendere alla sua esperienza una determinata forma in modo che il bambino abbia un auto-apprendimento e una trasferibilità/generalizzazione. Si operano dei comportamenti “manipolatori”, ma all’interno di una cornice metodologica e di schemi di azioni rigorosi che possono portarlo a un’evoluzione. Questi tipi di approcci agiscono secondo una logica di tipo induttivo (“bottom-up”): insegnamento attraverso situazioni di apprendimento strettamente strutturate e progressivamente più complesse, utilizzando tecniche terapeutiche basate sul paradigma del condizionamento e del rinforzo.

Analisi Comportamentale Applicata (ABA)

L’analisi del comportamento applicata(Applied Behavior Analysis= ABA) fonda le sue origini nella Scienza del Comportamento, fondata dallo psicologo americano B. F. Skinner: è l’area di ricerca finalizzata a comprendere le cause, gli antecedenti e le conseguenze di un determinato comportamento in un particolare contesto.

L’ABA nasce come metodologia di intervento per il trattamento delle disabilità evolutive e intellettive, in particolare per l’autismo già a partire dagli anni 70 con i lavori di Lovaas e i suoi collaboratori presso l’University of California Los Angeles.

L’ABA prevede l’insegnamento sistematico di piccole unità misurabili di comportamento; i compiti da apprendere, individuati sulla base del profilo dinamico funzionale, sono suddivisi in piccole tappe, ognuna delle quali viene insegnata in sessioni ripetute e ravvicinate, inizialmente con un rapporto uno a uno, attraverso tecniche specifiche e sistematiche L’obiettivo dell’intervento sarà modificare il comportamento del soggetto, attraverso metodiche quali le sollecitazioni (prompt), la riduzione delle sollecitazioni (fading), il modellamento (modeling/shaping), l’adattamento e il rinforzo. Per essere efficace, il rinforzo deve essere conseguente a quanto succede, quindi essere somministrato durante o immediatamente dopo il comportamento bersaglio. Questo approccio terapeutico permette all’individuo l’acquisizione di diverse “abilità”, tuttavia il rischio è un apprendimento di tipo condizionato e poco generalizzabile. (Cottini, 2011) (Moderato & Copelli, 2010)

L’ABA è una metodologia evidece-based, e le Linee Guida riportano l’efficacia del modello in particolare negli outcome di comprensione del linguaggio e dei comportamenti sociali, e un miglioramento del funzionamento intellettivo (QI). Inoltre le ricerche – tra cui (Hardesty & Hagopian, 2014) - dimostrano correlazioni statisticamente significative tra l’applicazione di interventi ABA e una prognosi migliore, in termini di apprendimento di abilità funzionali che possono migliorare la qualità della vita e l’indipendenza delle persone con autismo. (MIPIA, s.d.)

Discrete Trail Training (DTT)

Discrete Trail Training significa insegnamento in sessioni separate, ovvero a tre componenti presentato in serie successive di compiti, con una natura altamente strutturata e ripetitiva sia nella procedura che nel ritmo e nella modalità di presentazione degli stimoli.

Le tre componenti delle procedure di insegnamento sono:

  • istruzione o domanda (SD = Stimolo Discriminante):

lo stimolo antecedente che porterà al controllo del comportamento

  • risposta del bambino (R)

sia corretta oppure negativa o mancata

  • conseguenza alla risposta del bambino (SR= Stimolo di Rinforzo)

che varia in base alla correttezza o meno della risposta, e potrà essere quindi un rinforzo positivo o un rinforzo negativo (per estinguere un comportamento indesiderato o non appropriato).

Il focus del trattamento è la risposta del bambino, e vengono somministrate molte sessioni ripetute, con un rinforzo estrinseco al compito, in un ambiente propizio all’apprendimento eliminando possibili distrattori. Le consegne vengono date una sola volta, in modo breve e chiaro, senza ripetere l’SD senza aver prima atteso la risposta del bambino. Importante è concludere sempre la sessione d’insegnamento con una sessione corretta, non importa quanto male possano essere andate quelle precedenti, e ricordarsi di rinforzare sempre la collaborazione del bambino alle consegne e al trattamento.

Pivotal Response Training (PRT)

È un approccio comportamentale naturalistico, quindi con un approccio meno rigido e più centrato sul bambino, con strategie che gli permettano di apprendere nel suo ambiente naturale. È un metodo comunque nato dai principi di Lovaas e dell’analisi del comportamento, e gli studi single case riportano un’efficacia in termini di apprendimento di svariate competenze comunicative, sociali e di gioco, anche se l’uso di rinforzi intrinseci all’ambiente limita di fatto gli ambiti di impiego (Autismo Italia ONLUS & Vivanti, 2006) .

Centrali all’interno del metodo sono i pivotal behaviours, ovvero le competenze emergenti che, una volta apprese, possono offrire al bambino opportunità di un vasto utilizzo nell’ambiente, di un rinforzo positivo e gratificante legato al successo del comportamento, e una base per nuovi apprendimenti futuri. Per il terapista sarà quindi fondamentale e individuare e scegliere i pivotal behaviours più adatti e che possano determinare ripercussioni positive e un’evoluzione di competenze in altre aree.

I principali pivotal behaviours che si trasformeranno in obiettivi all’interno della presa in carico del soggetto con DSA sono:

  • la motivazione del bambino
  • autonomia personale e iniziativa personale in comportamenti funzionali
  • capacità di considerare varie tipologie di stimoli contemporaneamente.

Tutte abilità che una volta acquisite si prestano a essere utilizzate, gratificate e rinforzate naturalmente nell’ambiente.

Per riferimenti più precisi sulla metodologia si veda il capitolo 3 paragrafo 1.1

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Approcci evolutivi

Questi approcci sottolineano l’importanza della dimensione emotiva e relazionale, incentrando l’intervento sull’interazione diretta e sul gioco. Sono definiti evolutivi in quanto sottolineano l’importanza dell’insegnamento di nuove competenze seguendo le tappe dello sviluppo normotipico. Sono quindi interventi centrati sul bambino, che partono dalla sua iniziativa e partecipazione, sulla sua libera espressione, all’interno del quale si inserisce l’operatore con il suo intervento. Condividono i principi e le strategie degli approcci comportamentali, ma applicate con una metodologia più flessibile e in setting differente: l’insegnamento deve avvenire nei contesti in cui lo stesso si manifesta naturalmente, utilizzando stimoli e rinforzi disponibili nell’ambiente quotidiano di vita.

Gli approcci evolutivi più utilizzati sono il metodo Floor Time e il TEACCH, l’Early Start Denver Model (che verrà analizzato in modo approfondito nel capitolo successivo) e la terapia neuro psicomotoria.

Programma TEACCH

Il programma TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children) per il Trattamento e l’Educazione di Bambini con Autismo e altra Disabilità è stato sviluppato negli anni sessanta da Schopler e i suoi collaboratori presso l’Università della Carolina del Nord nel 1971, ed è il più vasto e influente programma dedicato al trattamento del disturbo dello spettro autistico da parte di un’agenzia statale finanziato da denaro pubblico.

Questo approccio parte dal presupposto che l’autismo sia un disturbo di origine organico, per cui la presa in carico sarà sicuramente una presa in carico globale e a lungo termine, non solo sul soggetto con DSA ma anche sulla sua famiglia, sia in senso orizzontale che in verticale, ovvero in ogni momento della giornata e in ogni periodo della sua vita. L’obiettivo dell’intervento non sarà la guarigione del soggetto e l’avvicinamento alla normalità, ma l’adattamento del soggetto al contesto. La finalità è il raggiungimento del massimo grado di autonomia e l’inclusione sociale nel suo contesto di vita, attraverso un insegnamento strutturato. Si punta quindi a una gestione autonoma delle abilità acquisite, diminuendo sempre la guida o l’aiuto dell’adulto, in modo che vengano usate in modo funzionale e generalizzabile. Nello stesso tempo però, l’adattamento può essere raggiunto attraverso la trasformazione del contesto: l’ambiente può essere semplificato, e soprattutto strutturato, il che aiuta a rassicurare il soggetto con autismo, diminuendo il livello di stress e ansia, favorendo la prevedibilità e l’anticipazione degli eventi.

Possiamo riassumere così i punti fondamentali di questo approccio:

  • insegnamento in sessioni separate (simile alle tecniche comportamentali del DDT)
  • utilizzo di strategie comportamentali naturalistiche
  • utilizzo di strategie di comunicazione aumentativa (es. immagini e simboli)
  • intervento sulla comunicazione sollecitando la comunicazione intenzionale e spontanea, rinforzando l’impiego di gesti, mimica o vocalizzi
  • intervento costruito sulla base dei punti di forza e degli interessi del soggetto
  • coinvolgimento dei genitori come partecipanti attivi al trattamento
  • strutturazione dell’ambiente e dell’intervento

Non esistono dati oggettivi sull’efficacia di questo metodo, nonostante si basi su principi scientificamente verificati come le sessioni del DDT, la teoria cognitivo-comportamentale, l’utilizzo delle immagini, il coinvolgimento del genitore, che fanno quindi presupporre che sia comunque un intervento utile ed efficace per l’autismo. Gli studi effettuati infatti sono stati realizzati dagli studiosi che hanno creato e sostenuto l’approccio, e inoltre i dati si basano per lo più su questionar di soddisfazione da parte dei genitori (Cottini, 2011)

FLOOR TIME

Il Floortime, sviluppato da Stanley I. Greenspan e da Serena Wieder, è un trattamento che costituisce le basi e il versante pratico-applicativo sia del modello più generale DIR (Developmental Individual Difference Relationship-Based), sia di un programma globale applicabile precocemente in bambini affetti da disturbi del neurosviluppo, tra cui i DSA. Il termine Floortime significa letteralmente “tempo passato sul pavimento”, che significa appunto l’importanza del tempo che un genitore nella quotidianità o un terapista nella terapia deve passare “a tappeto” col bambino, mettendosi al suo livello e condividendo e interagendo con lui per circa 20 o 30 minuti alla volta. L’utilizzo di un materiale morbido come un tappeto, o l’utilizzo del pavimento e di alcuni materiali selezionati, aiutano a promuovere l’interazione e lo scambio tra adulto e bambino, determinando un contesto educativo naturale, spontaneo, divertente e che crea molte possibilità di apprendimento. ll Floortime viene infatti definito come una tecnica d’intervento basata sul gioco e sull’interazione spontanea fra adulto e bambino. (Tonnini, 2004)

In questo metodo l’autismo è considerato come una patologia determinata biologicamente nella quale le difficoltà di processazione sensoriale ostacolano il normale sviluppo delle competenze comunicative, sociali e cognitive.

Tra gli obiettivi del metodo Floortime infatti troviamo:

  • seguire l’iniziativa spontanea del bambino
  • identificare e adeguarsi al livello di sviluppo funzionale ed emotivo raggiunto dal bambino.
  • il sostegno al bambino per superare le difficoltà sensoriali (problemi di comprensione uditiva, pianificazione motoria, modulazione sensoriale, etc) per poter recuperare il contatto affettivo interpersonale con l’ambiente e con l’altro
  • aprire e chiudere circoli comunicativi, condividendo attività e mantenendo un fluido scambio interattivo
  • creare un contesto di gioco stimolante
  • sviluppare competenze emotive e funzionali in linea con le normali tappe evolutive: capacità di attenzione e regolazione, capacità di interazione reciproca, capacità di sviluppare una comunicazione complessa, capacità di simbolizzazione, acquisizione del pensiero logico

(Greenspan & Wieder, 2006)

Nella metodologia Floortime/DIR si prevedono ripetute sessioni di lavoro di 20-30 minuti ciascuna. Ciò che contraddistingue questo metodo dagli altri tipi di approccio è principalmente la “lezione emotiva” che precede quella cognitiva, ovvero l’importanza delle relazioni sociali interattive che sono necessarie e alle basi dello sviluppo delle capacità cognitive e intellettive del bambino. (Greenspan & Wieder, s.d.)

Nonostante condivida le principali caratteristiche di altri trattamenti empiricamente validati, in particolare di interventi naturalistici come il PRT, il Floortime non è mai stato validato in modo sistematico, anche per la difficoltà del rendere oggettivo questo metodo e la sua valutazione.

APPROCCIO NEURO E PSICOMOTORIO

La pratica neuro psicomotoria rientra negli approcci evolutivi per il trattamento del disturbo dello spettro autistico, essendo questo per definizione un disturbo pervasivo dello sviluppo, che necessità quindi di un sostegno in tutte le aree e le tappe evolutive. Il ruolo fondamentale del TNPEE è proprio quello di conoscere il bambino dai primi mesi di vita e di instaurare un intervento riabilitativo che lo possa accompagnare in tutta l’infanzia, affinché venga attuata una presa in carico globale che preveda la promozione delle prime tappe dello sviluppo neuro psicomotorio. Nella sua modalità di intervento, il TNPEE si concentra sull’intersoggettività, sui processi di comunicazione e interazione sociale, e sulle capacità adattive. Grazie alle sue caratteristiche, nel progetto terapeutico del bambino con DSA ha il compito di occuparsi del:

  • disturbo dell’interazione sociale e della comunicazione del bambino:

in particolar modo lavorando sull’attenzione congiunta e sul processo di simbolizzazione;

  • la scarsa modulazione degli stati emotivi:

aiutando il bambino attraverso una “regolarità” che possa essere per lui rassicurante, creando routines e organizzando l’ambiente e la giornata in modo facilmente prevedibile e regolando di conseguenza le interazioni e i comportamenti degli adulti.

  • il disorientamento dei genitori:

accompagnandoli nel percorso terapeutico che coinvolgerà la loro famiglia, fornendo informazioni sulla patologia, sulle cause, sulle tipologie di interventi disponibili, sulla prognosi del disturbo. Importante inoltre illustrare ai genitori caratteristiche e funzionamento del loro bambino, coinvolgendoli all’interno dell’intervento e spiegandogli possibili strategie educativi per aiutarli nella gestione del loro bambino nella quotidianità.

In conclusione nelle linee guida viene sottolineato come non esiste un intervento standardizzato che sia adeguato alla varietà di tutti i soggetti con autismo, in quanto ognuno porta potenzialità, caratteristiche e bisogni molto differenti e specifici, soprattutto in riferimento alle varie fasce d’età. Proprio per questo nella descrizione dei programmi di intervento vengono suddivisi in quattro fasce d’età, in cui le caratteristiche dell’intervento devono assumere connotazioni peculiari e differenti.

Anche l’Associazione Italiana Terapisti della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva (AITNE), e l’Associazione Nazionale Unitaria Psicomotricisti e terapisti della neuro e psicomotricità Italiani (ANUPI) si pongono a favore della peculiarità dell’intervento per ogni singolo soggetto con DSA:

“L’intervento, lungi dal poter essere lo stesso per tutti, si fonda sulla valutazione del bambino, sulla rivelazione dei nuclei del disturbo, sull’analisi dell’intreccio tra profilo della patologia e profilo di sviluppo, sull’individuazione del profilo di funzionamento […] e sulla costruzione di un programma riabilitativo mirato, tagliato sulle esigenze del singolo bambino in rapporto all’età, ai sottotipi clinici, e in considerazione delle esigenze di intensità, modulazione e tempistica degli interventi.” (AITNE, 2016)

“Ogni bambino con DSA si presenta con il proprio stile interattivo, le proprie caratteristiche funzionali, psicomotorie e cognitive, e l’intervento che proponiamo ha l’obiettivo di rispondere a queste esigenze diversificate, attraverso un approccio altamente individualizzato. […] L’intervento abilitativo procederà seguendo la traiettoria evolutiva di quel singolo bambino.” (Gison, et al., 2012)

Relativamente alle caratteristiche del TNPEE spiegate e che verranno poi maggiormente approfondite, nel capitolo successivo verrà descritta una proposta d’intervento che ben si integra nel modello e nella pratica professionale di tale figura: L’Early Start Denver Model.

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