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IN TERAPIA NEUROPSICOMOTORIA - Dal senso di onnipotenza al principio di realtà

Indagare sullo sviluppo del bambino e della relazione precoce, in particolare del passaggio da un’illusione onnipotente ad una progressiva disillusione che porta a tener conto della mente dell’altro, delle regole di gioco e di quelle sociali, mi ha portato a chiedermi quali conseguenze possano esserci se una o più delle tappe suddette venga a mancare o se, a causa di gravi patologie, vengano alterati alcuni passaggi. Tra i casi clinici osservati ne ho allora scelti due che potessero servire da punto di riferimento per contestualizzare i dubbi e le domande che via via si sono creati nella mia mente.

Il primo caso, un bambino di ormai 11 anni vissuto legato al letto di un orfanotrofio per i primi due anni, mi ha mostrato le conseguenze non solo di un precocissimo abbandono, ma di una carenza di cure affettive proprio negli anni cruciali per lo sviluppo fisico e psichico.

Il secondo caso, una bambina tetraplegica di 11 anni, mi ha portato a riflettere sulle conseguenze psicoaffettive e relazionali di una patologia neuromotoria.

 

PRIMO CASO: LUCA, 11 ANNI

Presentazione del caso

Luca nasce in Bulgaria 11 anni fa, ma passa i primi due anni di vita in un orfanotrofio, finché i suoi attuali genitori (adottivi) si recano sul posto con l’intenzione di adottare un bambino. Rispetto ai primi due anni di vita di Luca si hanno queste informazioni:

  • Alla nascita è abbandonato dai genitori naturali;
  • L’orfanotrofio Bulgaro ospita molti bambini che, per una miglior gestione (!), sono tenuti legati al letto;
  • Luca (all’epoca il suo nome è Manol) apprende ben presto che per essere nutrito deve “spiccare” rispetto agli altri bambini, fare in modo cioè che le inservienti guardino lui per primo, assicurandogli così il cibo. Per questo all’arrivo dell’inserviente in stanza, Luca fa grandi sorrisi;
  • Lo stesso sorriso agisce da “calamita” nei confronti dei genitori adottivi che lo  scelgono tra i  tanti dell’orfanotrofio, proprio dopo che i  responsabili glielo hanno indicato come “Il bambino che sorride di più”.

Luca è inviato in terapia psicomotoria nel 2000 all’età di 5 anni, a causa d’incapacità di gestione in situazioni pubbliche e ripetute aggressioni a coetanei in ambito scolastico. Inizialmente è preso in carico da una terapista poi, nel dicembre 2003, avviene il passaggio a quello che è invece l’attuale terapista.

L’ospitalismo e il maltrattamento: generatori di impotenza

Il lavoro principale di Spitz1 è stato quello di evidenziare come la presenza di cure igienico-dietetiche senza errori, ma che manchino di qualunque contatto umano caloroso per gran parte della giornata, provochi nel bambino la cosiddetta reazione da ospitalismo: piagnucolamento, poi grida acute, poi perdita di peso e arresto dello sviluppo, infine ritiro e rifiuto del contatto. Ma questa reazione da carenza affettiva è associata a numerosi altri sintomi: frequenti disturbi psicosomatici, “attaccamento al pollice” (succhiato con espressione assente per lunghi periodi), difficoltà di incrociare lo sguardo dell’adulto, incapacità di tollerare la minima frustrazione, aggressività nelle interazioni sociali. Può inoltre succedere che, se la carenza viene protratta a lungo, si sviluppino quadri patologici più gravi, inscrivibili nel registro di una disarmonia evolutiva, di una prepsicosi o di una malattia depressiva a lungo decorso.  La carenza affettiva è dunque una forma di maltrattamento del bambino.

Se questa forma di carenza è già un dato d’allarme per lo sviluppo del bambino, (sia di quello istituzionalizzato che di quello in famiglia maltrattante), quali altri campanelli d’allarme si possono attivare se il bambino è stato precocemente abbandonato, viene posto in orfanotrofio e qui subisce maltrattamenti sia dell’ordine della carenza affettiva che di tipo fisico?

Per inquadrare il caso da me scelto, elencherò di seguito alcuni dati, riportati da Amnesty International1, relativi a casi di maltrattamento in orfanotrofi Bulgari:

  • All'inizio del 2000, due bambini sono morti a causa di gravi negligenze in un centro statale per bambini con handicap mentale.
  • Tra il 31 gennaio e il 27 febbraio 1997 sette bambini di un istituto sono morti per malnutrizione e ipotermia. Circa il 20% dei minori ospiti del centro erano costretti a letto o in qualche modo immobilizzati, con poche coperte per ripararsi dal forte freddo.
  • Secondo il "Bulgarian Helsinki Committee", nelle strutture gestite dallo stato, il livello medio dello stanziamento per la fornitura di cibo per ogni bambino è di circa 45 stontiki al giorno (0.45 marchi tedeschi = 25 centesimi di euro) e per la maggior parte dei casi gli approvvigionamenti sono mantenuti ad un livello minimo da aiuti e da donazioni caritative. Pericolosamente basso sarebbe il livello di fornitura del cibo nelle strutture geograficamente isolate o in quelle in cui gli amministratori non sono sufficientemente attivi nel sollecitare donazioni esterne. Si riscontrano quindi molti problemi strutturali, fra cui il personale poco addestrato e sottopagato e una cronica mancanza di risorse. I minori che vi si trovano rinchiusi possono, per tali motivi, essere soggetti a condizioni crudeli, inumane e degradanti o rischiare la vita per abusi o negligenza.

Pur non avendo potuto visionare una documentazione scritta riguardo alla situazione di Luca negli anni di permanenza in orfanotrofio, questi pochi dati riportati da Amnesty International, m’inducono a pensare che le informazioni verbali ricevute siano -purtroppo- portatrici di verità.

Nell’ambito del riconoscimento all’altro del suo poter agire, cioè di fare o non fare, e quindi del suo più ampio e profondo  diritto/potere di essere/esistere come individuo, ritengo che l’abbandono, l’istituzionalizzazione e i maltrattamenti subiti da Luca, lo abbiano posto fin dall’inizio in una condizione d’impotenza.

Nessuna illusione

Come abbiamo detto in precedenza un datore di cure si occupa, fin dal primo giorno di vita neonatale, della regolazione fisiologica del bambino, affiancando istintivamente comportamenti “sociali” (quali cullare, calmare, parlare, cantare, fare rumori e smorfie) che sono utili sia per la suddetta regolazione, che per lo stabilirsi di una relazione interpersonale1. L’immediatezza delle risposte regolatrici e affettive da parte della madre (datore di cure) nei primi mesi di vita abbiamo poi detto essere il motore che genera nel bambino l’illusione di essere onnipotente2, cioè di poter generare lui stesso la risposta al suo bisogno.

Possiamo ragionevolmente ipotizzare che Luca non abbia sperimentato niente di tutto questo: se il metodo di gestione dei bambini in orfanotrofio è stato quello di legarli ai lettini, com’è possibile immaginare che le cure fisiologiche e affettive siano state adeguate? Risulta assai arduo pensare che ci sia stata una risposta al pianto (tanto meno una risposta immediata!), cioè una regolazione  degli stati negativi del bambino, e nemmeno un’amplificazione degli stati emozionali positivi 3. Ma un’ulteriore domanda è: il bambino ha potuto sperimentare degli stati emozionali positivi in assenza di un prolungato contatto corporeo, visivo, uditivo, olfattivo con un datore di cure? Si pensi per esempio all’alimentazione: quasi con certezza si può affermare che Luca non si sia rispecchiato negli occhi di qualcuno che lo nutriva, che non sia stato ammirato incondizionatamente, riconosciuto, amato, accettato, valorizzato per il solo fatto di esistere 4. Anzi, ha dovuto ben presto imparare a farsi riconoscere, con il sorriso, per avere un’attenzione in più, per essere nutrito per primo e non aspettare, forse invano a volte, un vitale biberon di latte.

Doppia impotenza all’azione

La possibilità di azione di Luca è stata fisicamente negata nei primi due anni (si ricorda che in Orfanotrofio legavano i bambini ai loro letti). Ma non si tratta “solo” di impotenza fisica ad agire. Precedentemente si è detto che il “ritardo nella gratificazione”, cioè quelle piccole “mancanze” che una madre può permettersi, porterebbe alla creazione di un desiderio1, quindi di un pensiero, di un tempo in cui “tendere verso...” e di uno spazio per l’azione (pianto, vocalizzi, parole, gesti, lancio di oggetti). Ora, chi come Luca non ha mai visto/avuto la sua “stella” (la madre/il datore di cure), come può sperimentarne  la mancanza e arrivare a de-siderare (si ricorda che in latino il termine stella è reso con sidus/sideris)? Se non c’è formazione di desiderio (si ricorda che i bambini osservati da Spitz finivano per non piangere più e ritirarsi), come si possono creare pensiero, spazio, tempo d’attesa, piacere consumatorio, volizione e quindi, azione?

Alterazioni cerebrali

La mancanza di “momenti di risonanza” nei primi anni di vita, riscontrabile nella completa assenza di allineamento (Simpatico)- non allineamento (Parasimpatico) - riallineamento (Simpatico, ma con livelli di arousal più appropriati), determina un ridotto sviluppo delle zone deputate alla mediazione dei processi di sintonizzazione affettiva, che Shore  localizza  nell’emisfero  destro,  in  particolare   nelle  regioni  orbito-frontali 2. L’individuo avrebbe quindi ridotte capacità di sviluppare una teoria della mente, di riconoscere espressioni facciali e di rispondere a stati mentali di altri individui 3. Mancherebbe cioè la funzione autoregolativa necessaria per modulare emozioni e comportamenti in funzione del contesto sociale. Si può pensare che questo sia alla base di situazioni prepsicotiche in cui dominano “un’aggressività mal contenuta” e il frequente passaggio all’atto auto o eteroaggressivo, modo quest’ultimo privilegiato per evacuare la tensione psichica 4.

Se alcuni ritengono che le alterazioni delle strutture neurobiologiche cerebrali (emisfero destro, aree orbito-frontali), conseguenti ad una completa assenza di relazioni d’attaccamento in età precoce, siano irreversibili, altri invece ritengono che nuove esperienze d’attaccamento dopo i primi anni di deprivazione, possano - entro certi limiti - generare un nuovo sviluppo di strutture e funzioni cerebrali (plasticità cerebrale)1.

I genitori adottivi

Ciò che più colpisce nella storia adottiva di Luca, è la modalità con cui la coppia d’attuali genitori lo abbia scelto tra i tanti bambini presenti in orfanotrofio. Aver ascoltato il parere favorevole dei responsabili dell’istituto (“E’ il bambino che sorride di più”) e avere personalmente visto sorridere il bambino tra tanti altri che – probabilmente – erano “assenti” e ormai nemmeno si lamentavano, è stata una consolazione per questa coppia. Ma si saranno chiesti cosa celava Luca dietro a quel sorriso e se davvero si trattasse di sorriso?

Da incontri con la coppia sono emersi questi dati:

  • Il padre adottivo ha avuto un passato problematico. Racconta, infatti, di esser stato considerato “ritardato” a causa d’insuccessi scolastici, ma di essere “uscito” da questa situazione, ottenendo anche buoni risultati, grazie all’aiuto di uno zio che ha investito sui suoi talenti.
  • Per i due anni successivi all’adozione, il comportamento di Luca è stato “autistico”, cioè di totale chiusura alla relazione, con tratti autolesivi. E’ stato il padre a farsi completamente carico della situazione, riuscendo ad aprire il bambino alla relazione attraverso il riconoscimento dei suoi talenti, del valore e della sensibilità.
  • Il quadro che si è allora delineato, è stato di adeguatezza in famiglia (il padre riferisce la passione che Luca avrebbe per la musica, in particolare per il pianoforte), ma  di pesante inadeguatezza a livello  sociale (comportamenti aggressivi a scuola, ingestibilità). Inoltre Luca ha continuato con gli atti autolesivi, divorandosi le dita delle mani.

Si può pensare che il padre, in virtù del suo passato, abbia sentito d’essere responsabile della “salvezza” di Luca e che l’unico modo per attuare ciò sia stato il riconoscimento dei talenti.  C’è del positivo in questo, ma il dubbio che sorge è se il dolore, all’interno di questa famiglia, abbia o meno uno spazio in cui possa essere dichiarato. Si ripensi al sorriso di Luca. Puntare su quel tipo di sorriso (il discriminante per la scelta del bambino da adottare), e quindi sull’adeguatezza e sul positivo, senza lasciar spazio ad un dolore che tra l’altro Luca porta da solo e con cui nemmeno per lui è facile entrare in contatto, non significa forse violare ancora una volta il diritto all’esistenza di questo bambino?

L’impossibilità della coppia adottiva di far emergere il proprio dolore e quindi di lasciar spazio a Luca per dichiarare il suo, sembra fare da rinforzo, per il bambino, ad un sorriso che aderisce al desiderio altrui negando la possibilità di star male, quasi sia l’unico mezzo a disposizione per farsi accettare e tenere dalla famiglia, e all’inevitabile passaggio all’atto (aggressività, comportamenti inadeguati) che emerge in contesti diversi da quello familiare.

Nell’ultimo periodo di tirocinio è emerso un nuovo dato, che può confermare la difficoltà della coppia (in particolare del padre) di lasciar spazio al dolore e all’aggressività che quest’ultimo suscita: il terapista, telefonando a casa del bambino per accordarsi su una seduta da recuperare, è testimone di una scena molto violenta del padre nei confronti di Luca. Questo comportamento paterno sembra dichiarare al bambino la sua pesantezza e inadeguatezza per non saper ripagare a sufficienza colui che si è invece prodigato per salvarlo. Probabilmente il padre riconosce sé stesso nell’inadeguatezza di Luca e non riesce a lasciargli lo spazio per una necessaria aggressività proprio perché anche lui, a sua volta, non ha potuto sfogarla.

E’ chiara tuttavia la difficoltà che chiunque si troverebbe ad affrontare di fronte a un bambino con un passato simile e per questo non voglio cadere nel facile errore di criticare l’operato della coppia; sarebbe tuttavia un errore grossolano  far  finta che i  problemi suddetti non esistano, assegnando in tal modo ai genitori di Luca un potere salvifico improprio e al bambino l’ambiziosa etichetta di salvato.

Storia della relazione terapeutica con l’attuale terapista

In terapia neuropsicomotoria si è cercato di aprire uno spazio (di gioco) in cui tutto ciò che il bambino è, potesse essere espresso e anche regolato, proprio come nel rapporto primitivo con una madre. Solo grazie ad uno spazio “possibile” di dichiarazione del proprio dolore, della rabbia, dell’aggressività auto ed eterodiretta, dell’impotenza, Luca ha potuto permettersi dei brevi pianti senza il falso velo del sorriso e potrà forse darsi la possibilità di agire in base a desideri e non a impulsi aggressivi, costruire spazi di cura e difesa per sé stesso e accettare la condivisione di questi spazi contrattando con l’altro le regole per abitarli.

In questo paragrafo, in conformità a una raccolta di testimonianze, vedremo i passaggi più importanti della terapia e della relazione con l’attuale terapista (dall’ingresso del nuovo terapista all’inizio del mio tirocinio). In quelli successivi, invece, l’attenzione sarà volta all’oggi, cioè a quello che ho potuto osservare nei mesi di tirocinio, e al domani, cioè agli obiettivi a cui punta la terapia.

Passaggio di terapista

Durante l’incontro di passaggio (tra dicembre 2003 e gennaio 2004), svolto in co- conduzione dalla prima terapista di Luca e dal nuovo e attuale terapista 1, Luca costruisce un gioco di affidamento-cura, già precedentemente sperimentato, in cui permette al nuovo terapista di avvicinarsi a lui nel ruolo di medico-ambulanza (ambulanza = materassino su cui Luca si sdraia).

Onnipotenza magica in terapia

Durante il primo periodo di terapia individuale col nuovo terapista, Luca mette in evidenza le differenze rispetto al percorso precedente: “Questo gioco Gabriela1 non l’ha mai visto perché ora sono diventato grande”. Le terapie di questo periodo sono caratterizzate da giochi sensomotori legati a disequilibri e dondolii, che portano Luca a fare vere e proprie capriole con l’ausilio delle palle grandi (che per convenzione chiamerò "pallone"). Dalla prima seduta Luca non si presenta come “Luca”, ma come “Cavaliere Magico”. Il terapista, nelle vesti di “signore del circo”, incita ed esalta il Cavaliere per ogni sua straordinaria impresa (rotolamenti sempre più complessi sulle palle grandi e sui cubi, arrampicata e salti dai gradoni, palleggi con due palle contemporaneamente, passaggi attraverso i cerchi in movimento) rinforzando in tal modo l’azione, la coordinazione e il movimento di Luca, fin dall’inizio inadeguati all’età. Nonostante il bambino non possa agire da “Luca” ma da “Cavaliere Magico” e non possa accettare la presenza reale del terapista, ma quella del “signore del circo”, sta avvenendo, attraverso il gioco, ciò che invece (nella realtà) non è successo dalla nascita ai 2 anni: l’illusione magica dell’onnipotenza, dell’essere il più bravo di tutti, il più bello, ecc…2

Dov’è l’aggressività di Luca?

Con l’andare del tempo sono potute emergere parti più aggressive, ma ancora non in modo diretto. Il tema di questo periodo (all’interno del primo anno di terapia col nuovo terapista) è la difesa di Luca (Cavaliere Magico) che il terapista deve attivare in risposta ad aggressioni di fantomatici nemici che dicono al Cavaliere parole cattive o lo fanno sparire. Si possono individuare quattro tipologie di gioco:

  • Il gioco di persecuzione/cura: Luca cade dall’autoambulanza (materassino o telo) che lo sta portando in ospedale e le autoambulanze (rappresentate ora dai teli) iniziano ad aggredirlo e a soffocarlo (in un’occasione Luca dice “Guarda Claudio3, l’autoambulanza mi lega i piedi, aiuto come faccio?”- riferimento all’essere legato al letto?). Luca allora delega Claudio a picchiare le autoambulanze e, ad ogni colpo inferto, ride e in un’eccitazione generalizzata si tocca strusciandosi sul materassone.
  • Lo scontro con le pallone: ognuno tiene una palla grande davanti alla pancia e cerca di colpire l’altro. E’ uno spazio di gioco che il terapista crea per dare sfogo all’aggressività di Luca, ma il tentativo fallisce perché il divertimento di Luca risiede nel ritirarsi all’ultimo momento, subito prima dello scontro con la palla di Claudio, facendo rimbalzare il terapista contro il muro.
  • Gioco con le spade (quelle blu galleggianti per intendersi): anche queste non sono usate per scontrarsi direttamente con il terapista. Ognuno ha la sua spada e deve correre contro al muro tenendola dritta avanti a sé. Luca si ferma sempre a quella giusta distanza dalla parete che gli permette di affermare il potere della sua spada (“la mia spada non si piega”). Al contrario la spada del terapista deve sempre piegarsi ed essere quindi meno forte. Le spade divengono poi “spade cattive” dalle quali il terapista deve salvare Luca, o meglio il Cavaliere.
  • Le onde cattive: sono nemici rappresentati da materassini (rosso, blu, giallo). Luca si distende e il terapista porta le onde verso di lui, cercando di fare pressione sul corpo del bambino in modo da ottenere una reazione aggressiva di qualche tipo. Luca non associa il terapista all’onda, infatti questa rimane cattiva mentre il terapista a volte, su richiesta di Luca, diviene la fonte d’aiuto. La modalità d’aiuto trovata dal terapista è di buttare l’onda verso sé stesso e chiedere a sua volta aiuto al bambino. In questo modo Luca riesce a verbalizzare la sua necessità/volontà di spaccare il cuore alle onde cattive e a saltare effettivamente sopra di esse (i materassini) per annientarle (è la prima volta che nomina parti dei cattivi che devono essere colpite per annullarli e che agisce direttamente per sconfiggerli).

Essere desiderato e cercato, ma non trovato

Questo è un altro tema cruciale del primo anno di terapia con l’attuale terapista. Si individuano due modalità di gioco:

  • Gioco del mare: il mare è rappresentato dal materassone blu situato sulle due pallone. Il terapista muove il materasso in varie direzioni creando disequilibri per Luca che vi si trova sopra. Ad un certo punto Luca cade e chiede di essere pescato come un pesce, ma non si attacca mai alle corde che il terapista gli lancia per recuperarlo. Dal punto di vista simbolico, il mare rappresenterebbe la madre (rimando al liquido amniotico), ma in un senso più ampio il datore di cure, e le corde, una bianca grande e una blu più piccola, sarebbero rispettivamente la figura materna e l’identità di genere maschile. Il mare che espelle equivarrebbe  ad una madre che non tiene, che perde il bambino o che lo abbandona. In questo senso Luca non può aggrapparsi né alla corda bianca, perché il suo legame, anche corporeo, con la madre non esiste (s’intende qui sia la madre naturale che un suo sostituto nel periodo da 0 a 2 anni), né a quella blu perché se non esiste la madre, anche il bambino, con la sua identità viene annullato.
  • Essere morto: Luca chiede d’essere cercato dall’adulto, ma inserisce anche un elemento di impossibilità che è la morte (dice infatti: “Sono in paradiso” e utilizza un cerchio come aureola). La ricerca cui il terapista dà seguito, mostrando disperazione e un crescente dolore nel non trovarlo, scatena l’ilarità di Luca.

Crisi del terapista

Gennaio 2005 segna l’inizio della crisi del terapista dovuta, nei primi tempi, all’incapacità di vedere il bambino all’interno del gioco, sentendolo come aggressore- mostro reale. Accade, infatti, che durante il gioco di varie sedute, Luca attacchi ripetutamente una culla che il terapista ha costruito per i suoi bambini. Il terapista si trova nella posizione di non saper come fare a salvare i suoi figli senza uccidere simbolicamente Luca; fa cioè fatica a trovare una soluzione che non sopprima l’aggressività del bambino . Questo tipo di gioco va avanti sempre nello stesso modo, definendo uno spazio di non funzionamento dello stesso. Per questo motivo il terapista decide di fare un passo indietro, proponendo giochi precedenti e funzionanti (le spade, il mare, il circo, le autoambulanze), ma il bambino segnala chiaramente di non volere e, all’inizio di ogni seduta, dichiara sia la sua assenza che quella del Cavaliere Magico (“Oggi Luca non è venuto … E non c’è nemmeno il Cavaliere Magico…”). Inizia allora un gioco che possiamo definire “Il mondo al di là dello specchio”, gioco che permette al terapista di relazionarsi solamente con l’immagine del bambino riflessa nello specchio. E’ a questo punto che il terapista riesce, per la prima volta, a costruire uno spazio (letto accogliente) per il bambino dello specchio e, indirettamente anche per Luca, che tuttavia, come lui stesso ha detto, “oggi non è venuto”. Sembrerebbe un passo avanti, ma la crisi del terapista invece si accentua giacché si aggravano segni evidenti di sofferenza del bambino: divorarsi le unghie, martoriandosi le dita, e rimanere di fronte allo specchio con “sguardo psicotico” (come l’ha definito il terapista).

L’uscita dalla crisi avviene in seguito ad un colloquio con i genitori adottivi di Luca che riferiscono di una volta in cui il bambino avrebbe portato in stanza un pupazzetto, che poi non ha più riportato a casa. Questa per il terapista è la chiave. Non accorgersi di quel pupazzetto, evidentemente nascosto dal bambino in stanza di terapia, gli ha fatto sentire di non essere compreso dal suo alleato ed ha scatenato le reazioni aggressive, il suo ritiro (lo sguardo psicotico e la frase “Oggi Luca non è venuto”) e gli atti autolesivi. .

Alessandro, il doppio di Luca

A questo punto il terapista, nel tentativo di ristabilire un  contatto con Luca,  gli propone di portare in terapia una sua musica (forte dell’informazione  paterna sulla passione di Luca per quest’ultima) e il bambino invece porta una cassetta vuota, su cui registra la terapia. Durante quella seduta emerge il nome di un “piccolo” che “è triste perché è stato da solo per tanto tempo”: Alessandro. Il pupazzetto che Luca aveva nascosto non si saprà mai quale fosse perché il nome “Alessandro” viene dato da Luca ad un pinguino di peluche appartenente alla sala di psicomotricità, ma questo non ha importanza.

E’ invece necessario che emerga la storia di quel piccolo Alessandro, abbandonato e rimasto solo per tanto tempo. La relazione col terapista si ristabilisce.

Con Alessandro, Luca riesce a realizzare la possibilità di far perseguitare, buttare nel rusco, smarrire, un bambino piccolo (“ha due anni” dice Luca) da “altri cattivi”. Questi “altri cattivi” sono mossi da Luca, mentre il terapista  agisce sia come aiutante  di Alessandro (cercandolo, difendendolo, salvandolo), sia come Alessandro stesso (facendo la sua voce e facendolo agire). Un episodio rilevante è stato quello in cui il terapista, nelle vesti di Alessandro rifiuta di essere ucciso da un “cattivo” (“L’amico del Cavaliere Magico”, impersonato da Luca) e lo colpisce a bastonate (bastoni di gomma). Luca si piega a 90 gradi e chiede di essere colpito ancora (sado-masochismo).

Luca ha bisogno di rivivere l’abbandono attraverso Alessandro, che diventa quindi un suo doppio (fig. 4.1). E’ interessante notare che - etimologicamente - il nome del bambino significhi uomo mentre “Alessandro” protettore dell’uomo. Probabilmente è una coincidenza, ma fa al caso nostro perché Alessandro, assumendo su di sé la parte inaccettabile di Luca, l’essere stato abbandonato, “buttato nel rusco”, reso impotente, in qualche modo lo protegge da un dolore annientante.

Figura 4.1 Alessandro, il pinguino di peluche

Figura 4.1 Alessandro, il pinguino di peluche

Madre della nebbia

Il tema materno emerge quando il terapista racconta a Luca la storia di Alessandro e dei genitori che lo hanno abbandonato. Il bambino, infatti, facendo parlare Alessandro, dichiara di non riuscire a non pensare alla mamma e in tal modo chiede implicitamente che questo tema sia affrontato. Il terapista allora si traveste da “mamma”, usando un telo marrone (precedentemente usato per le ambulanze) per fare i capelli lunghi e scrive una lettera ad Alessandro in cui spiega d’essere molto dispiaciuta per averlo abbandonato e di non aver potuto fare diversamente. Luca nomina questa figura “la madre della nebbia” e ascolta la lettura della lettera, accanto ad Alessandro, in un letto che Claudio ha costruito per loro.

Nonostante questo gli atti persecutori nei confronti del piccolo Alessandro non cessano, quindi il terapista decide di far scomparire la madre nella nebbia (“è sempre più lontana… è un puntino sempre più piccolo…non si vede più…”) e di far dire ad Alessandro “peste e corna” su di lei. Nel frattempo Luca piange.

Osservazione neuro-psicomotoria 1

Seguirà ora ciò che ho osservato durante il periodo di tirocinio per dare un idea del bambino oggi.

Quando vedo Luca per la prima volta in terapia, la reazione è di timore per la sua imponenza e la violenza con cui si scaglia, nel gioco (e nella realtà – episodi di violenza a scuola), contro i bambini più piccoli, che rappresentano la sua parte maltrattata.

Competenze del bambino

Motorie

I principali passaggi posturali sono eseguiti con una discreta facilità; nell’alzarsi in piedi da in ginocchio sopra un cubo di legno, tuttavia, fa più fatica e appoggia prima entrambi i piedi sul cubo poi sale gradualmente aiutandosi con le mani e il muro d’appoggio. Generalmente salta dall’alto (dal cubo appunto), senza slancio, lasciandosi cadere sul materassone.

Il cammino e la corsa non sono molto coordinati (ma certamente di più rispetto a video di sedute passate) e l’appoggio del piede sinistro a volte non è completo (appoggia la punta del piede). Osservando l’appoggio del piede si direbbe quindi che il tono sia alto ma il resto del corpo dice invece il contrario.

La modalità di prensione di oggetti piccoli, come il tappo del pennarello, è a pinza inferiore (fig. 4.2).

La coordinazione occhio-mano è adeguata, anche se a volte (ad esempio mentre disegna) non guarda quello che sta facendo e sembra poco impegnato nel concludere l’attività. Quella occhio-piede è adeguata.

Non sono diagnosticate patologie neuromotorie.

Partendo da sinistra sono rappresentate la modalità di prensione a pinza inferiore (11 mesi) e quella a pinza superiore (13 mesi). (da Fedrizzi E., I disordini dello sviluppo motorio, p. 43).

Figura 4.2

Partendo da sinistra sono rappresentate la modalità di prensione a pinza inferiore (11 mesi) e quella a pinza superiore (13 mesi). (da Fedrizzi E., I disordini dello sviluppo motorio, p. 43).

Linguistiche

Quando è stato adottato, a 2 anni, non parlava. Ha cominciato a 5.

La costruzione della frase ora è corretta, ma non sono presenti suoni diversi dalle parole, la lettera r a volte diventa l, il tono di voce è spesso acuto, in assenza di grida o lamenti (da me non osservati).

Luca è sensibile alle variazioni di tono del terapista. Succede, infatti, che quest’ultimo aumenti il tono e l’intensità della voce quando si arrabbia con i “nemici” o con i “genitori” di Alessandro e che Luca di conseguenza aumenti il suo tono muscolare, inneschi un ulteriore attacco nemico e si metta a ridere.

Ciò che Luca e il terapista dicono durante le sedute è inerente al passato reale di Luca e alla storia co-costruita, ma è strettamente legato ad oggetti della stanza che assumono valenze simboliche.

Rispetto al contenuto, il bambino chiama sempre il terapista con il suo nome e spesso gli chiede aiuto; le risposte alle domande ci sono ma sembrano spesso “adeguate”, non coerenti al suo vero stato emotivo (più di una volta il terapista ha cercato di fargli verbalizzare un sentimento di forte malessere, chiedendogli “come stai?” e  ottenendo solamente un falso “sto bene” detto tra le lacrime).

Cognitivo/Relazionali

Alla valutazione psicologica è stato diagnosticato un lieve ritardo mentale, con QI pari a 52.

Nella relazione con l’adulto è presente un breve contatto visivo e poco la relazione corporea con relativo affidamento. Lo sguardo è prevalentemente diretto agli oggetti (che riconosce per colore, forma dimensione e funzione simbolica) e alle conseguenze che le sue azioni provocano.

Nella narrazione terapeutica e nella vita affettiva di Luca, il passato (i genitori che l’hanno abbandonato con tutto quello che n’è conseguito) occupa uno spazio talmente grande da sembrare presente. Ciò che accade dopo determinate azioni (es. uccisione delle pallone-genitori) spesso non è coerente con le azioni stesse (es. i genitori tornano a fare male ad Alessandro). Questo probabilmente è dovuto al peso che il rifiuto genitoriale subito comporta a livello affettivo e all’impossibilità di accettare la morte di questi pur cattivi genitori, pena la morte di sé stesso. Interessante notare che durante una seduta, dopo che il terapista ha ucciso e seppellito i genitori di Alessandro (due pallone prima sgonfiate poi messe sotto il materasso), Luca chiede di essere sepolto assieme a loro.

Caratteristiche del bambino

Categorie psicomotorie

  • Postura: L’assetto posturale è variabile e funzionale allo scopo, anche se ci sono posture che presentano caratteristiche particolari, come la postura seduta cifotica con la testa e lo sguardo bassi o quella sdraiata sul fianco con il pollice in bocca. Spesso quando è in piedi o cammina o si muove, le braccia cadono lungo i fianchi e “vaga” per la stanza con la bocca aperta e/o il pollice in bocca e con lo sguardo un po’ “perso”. Una variazione a questa mimica facciale piuttosto limitata è il sorriso che spesso non è coerente al contesto. Le due posture privilegiate sono quella sdraiata e quella in piedi e i passaggi posturali, eseguiti sempre nello stesso modo, sono lenti e prevedibili.
  • Spazio: gli spazi della stanza di psicomotricità, strutturata come in figura 4.3, sono differenziati principalmente in base agli oggetti: dove ci sono specchio o tunnel c’è il passaggio ad un altro mondo in cui il bambino si perde; i cubi di legno servono da trampolino per lanciarsi sul materasso blu nella dinamica di gioco sensomotorio (il signore del circo e il cavaliere magico); il materasso blu indica lo spazio del mare (dove il bambino viene perduto e non più recuperato), lo spazio di sepoltura dei genitori cattivi (palle grandi) e lo spazio di cura/regressione dove Luca si sdraia sul fianco o supino con tono muscolare basso e pollice in bocca e si lascia curare con palla magica, crema “che sa di magia” e spade buone.

Figura 4.3 La stanza di Psicomotricità e i materiali più usati da Luca.

Figura 4.3 La stanza di Psicomotricità e i materiali più usati da Luca.

Il fatto che Luca usi uno spazio interpersonale spesso distanziato, non accetti il contatto corporeo col terapista (solo ultimamente ha accettato di essere curato/manipolato con la crema) e non costruisca spazi è la necessaria conseguenza della sua esperienza precoce: solitudine corporea e mancanza di esperienze esplorative.

  • Tempo: Dall’inizio della seduta il bambino propone verbalmente il gioco “dell’altra volta” e, fino alla fine, vi si mantiene all’interno. Ci sono stati tuttavia momenti in cui Luca ha tentato di uscire dalla stanza o ha detto “basta”, cercando di interrompere un gioco che scatenava  in  lui  una  tensione  emotiva  insopportabile.   Di  solito  non  accetta  la sconfitta/morte dei nemici e la salvezza dei bambini (Alessandro e il piccolo cilindro), riproponendo sistematicamente un nuovo attacco ai piccoli con relativa richiesta di difesa. Direi quindi che il tempo d’attesa non esista per Luca, perché in lui permangono contemporaneamente un senso di vuoto dato dall’abbandono di quei genitori cattivi (e dei datori di cure “assenti” dell’orfanotrofio) e un senso d’annullamento se i genitori cattivi muoiono (dopo aver seppellito le due pallone sgonfie/genitori cattivi morti, chiede di essere seppellito anche lui in quel luogo e poi prende le due pallone tentando un nuovo attacco ad Alessandro)
  • Tono muscolare: In assenza di patologie neuromotorie o sindromiche diagnosticate, il tono di base presenta differenze tra i vari segmenti corporei. Se la bocca sempre aperta e le braccia penzolanti individuano un tono basso, i piedi spesso in punta sono indice di tono alto degli arti inferiori. Il tono globale dell’azione di Luca aumenta nei momenti in cui il terapista, nelle vesti di Alessandro, picchia i genitori cattivi (le pallone) e li manda via e diminuisce quando si trova sul materassone blu. Nell’interazione col terapista il tono varia a seconda del contatto corporeo (tono alto se c’è contatto, più basso se non c’è contatto). Solo in occasione della crema “che sa di magia” Luca si lascia manipolare dal terapista senza aumentare troppo il tono muscolare e sottrarsi.
  • Voce: Volume e tono di voce sono generalmente modulati e l’intonazione è spesso discendente (ascendente in corrispondenza dell’aumento di tono muscolare); sembra però di sentir parlare un bambino piccolo perché il tono di voce è prevalentemente acuto e le r quasi assenti (“Io sono un Cavaaliee Maagico”).
  • Oggetti: sono usati in modo quasi esclusivamente simbolico. Tuttavia durante la parte iniziale della seduta e in altri brevi momenti assumono una connotazione sensomotoria (dondolamenti sulla palla) o funzionale (far andare delle macchinine). L’uso dell’oggetto simbolico è sempre accompagnato da voce, parola e sguardo. I principali oggetti usati e il relativo significato sono:
    • Pallone blu e verde: sono i genitori cattivi di Alessandro, quelli che lo hanno abbandonato e hanno permesso che fosse rinchiuso in orfanotrofio.

Figura 4.4 Originariamente la stanza era dotata di palla verde e arancione

poi quest’ultima è stata sostituita con una palla più grande blu

Figura 4.4 Originariamente la stanza era dotata di palla verde e arancione, poi quest’ultima è stata sostituita con una palla più grande blu. Il significato attribuito da Luca (verbalmente) alle palle grandi comunque non cambia. Le due immagini sono state ricavate dal video di una seduta in cui i genitori cattivi simbolici sono stati uccisi (palle sgonfie).

  • Tunnel: in un primo tempo è il luogo di passaggio da un mondo (dove ci sono Alessandro e il terapista) a un altro (che è quello del trauma, dove Luca si perde). Il terapista di solito manda Alessandro attraverso il tunnel (assicurato ad una corda blu) per trovare Luca e poche volte lo segue nell'impresa. Il tunnel però ha la caratteristica di “far perdere” chi lo attraversa e per questo rimanda all’idea del mare/madre che contiene, poi espelle e perde il bambino. Infatti, dopo alcune sedute in cui Luca vi passa attraverso (e si perde) - e così anche Alessandro (che non può perdersi perché è ben legato alla corda) e il terapista (che non si perde) - è proprio Luca a dire che “dal tunnel esce il Piccolo (il cilindro)” e che “il tunnel fa male a tutti”. Se però inizialmente sembrava che il tunnel fosse di nuovo un rappresentante simbolico della madre cattiva, poi assume una connotazione più generale: diventa il male, il trauma, il vuoto, l’assenza,  che divora i bambini, li rende impotenti e in tal modo li uccide. Durante una seduta, in cui il tunnel sembra diventare vivo ed estremamente cattivo (il terapista tenendo un capo della corda, legata al termosifone all’altra estremità, muove il tunnel, lo anima, secondo la forza che simbolicamente rappresenta), Luca tenta di sconfiggerlo lanciandogli le due pallone (da notare che le volte precedenti le pallone erano i due genitori cattivi e ora sono usate contro il male), poi cerca di far entrare il Piccolo dentro, affinché gli sia fatto del male (e se ci riesce ride e aggiunge “guarda è morto” con tono sarcastico, ma decisamente calmo), infine si piega per due volte a 90 gradi, facendosi colpire sul sedere e ridendo di questo! Dopo questi tentativi sadici e masochistici di farsi del male e di fare male ai bambini che lo rappresentano, il terapista decide di dichiarare sempre più esplicitamente che il tunnel sia il “male” (la forza, il trauma o come lo si voglia chiamare) che Luca ha dentro e che lo fa agire sadicamente (uccidere ridendo) verso i piccoli, cioè verso sé stesso. Tiene cioè il tunnel sulla sua spalla e lo fa agire sadicamente verso Luca come se fosse uno specchio interiore (cerca di inglobarlo, di soffocarlo, di ucciderlo; ridendo). In questo modo Luca vede il suo “male” esplicitato e sente su di sé il sadismo; esce allora la paura.
  • Spade: hanno un ruolo negativo, di attacco ad Alessandro o ai piccoli in generale, ma assumono un ruolo magico e buono quando diventano spade che curano (è l’occasione in cui Luca, dopo essere stato curato dalle spade magiche, supino sul materasso blu esplora con le due mani una spada, cosa che non ha potuto sperimentare nella culla per via dei polsi legati).
  • Pinguino di peluche: è Alessandro (il protettore dell’uomo), colui che ha fatto tutte le esperienze che Luca ha fatto, un suo doppio a valenza positiva.
  • Cilindro: è “il Piccolo”, anche questo rappresentante di Luca. Viene però più spesso maltrattato, quindi si può associare  ad un neonato o meglio all’esperienza di neonato che Luca ha avuto e quindi, in modo più ampio, a tutti i bambini, così come li vede Luca (impotenti e meritevoli di maltrattamento).
  • Coperchi a forma di formica e di pesce: solo nelle ultime sedute sono emersi come altri bambini generici a cui è stato fatto del male.
  • Cerchi: a volte hanno valenza cattiva, quando Luca non sa più cosa usare per colpire i bambini, altre volte invece assumono il più forte e positivo significato di genitori nuovi (adottivi) e nonni nuovi che proteggono Alessandro dalle pallone cattive.
  • Stoffa marrone: è stata usata come ambulanza per Alessandro (senza ruolo persecutorio) e come capelli (dal terapista però) della mamma della nebbia.
  • Cubi: sono un supporto per i momenti sensomotori, ma divengono oggetti mediatori di aggressione verso i piccoli.
  • Corde: la blu e la bianca principalmente. Entrambe sono state usate - come si è detto - per i  tentativi di ripescaggio di Luca perduto in mare; la blu è quella a cui Alessandro si assicura (legandosi) per andare a cercare Luca, perso nell’altro mondo, dall’altra parte del tunnel.

Azione

L’azione principale è l’attacco ai bambini (Alessandro, il Piccolo, la Formica, il Pesce “nati nel mio stesso giorno, a Sofia”) da parte delle pallone cattive o del tunnel e viene ripetuta in continuazione, anche scavalcando la morte dei nemici, come per dire che questi nemici non potranno mai essere annientati.

L’azione dell’adulto è tenuta in considerazione, ma genera le seguenti reazioni: ilarità sadica e reiteramento dei maltrattamenti ai bambini se l’adulto è nei panni di Alessandro o del suo difensore; paura e malessere se l’adulto agisce come Luca, come fosse un suo specchio interiore, aggredendo cioè sadicamente il bambino (questa volta Luca stesso); abbassamento di tono quando l’adulto è nel ruolo di Manol (nome del bambino negli anni in Bulgaria), un doppio implicito reale di Luca, colui che è la parte negativa, impotente, attaccata e maltrattata.

Luca chiede sempre aiuto al terapista dopo aver mandato le pallone o il tunnel o i cubi o le spade cattive contro i bambini o verso sé stesso. Ci sono volte in cui l’aiuto è chiesto anche ad Alessandro (quindi a sé stesso) e questo forse è un aspetto positivo della situazione.

Manifestazioni emotive

  • Rifiuto: Luca non accetta generalmente il contatto corporeo e s’irrigidisce. Anche nei momenti in cui riesce a piangere, fa fatica ad accettare la consolazione del terapista. Rifiuta inoltre la morte dei genitori cattivi e la salvezza dei bambini; infatti vuole essere seppellito con i genitori morti (pallone sgonfie) e reitera i maltrattamenti ai bambini.
  • Accettazione: accetta di essere imitato dal terapista se questi è nei panni di Manol, di far morire i genitori cattivi se è nel ruolo di Cavaliere Magico, di essere curato con la palla magica o con la spada magica o con la crema “che sa di magia” (unica accettazione di contatto corporeo), di essere baciato da Alessandro (il pupazzo, mosso dal terapista) se viene ritrovato da lui dopo essersi perso al di là del tunnel.
  • Piacere sadico: nel ridere facendo maltrattare i bambini (Alessandro e il Piccolo) dalle pallone o dal tunnel, o facendosi colpire sul sedere dal tunnel (masochismo).
  • Non piacere e paura: quando il terapista anima il tunnel “come se” fosse la parte sadico-maltrattante interiorizzata e agita da Luca.
  • Rabbia: quando dice di non volerli nemmeno lui quei genitori (le due pallone) che Alessandro manda sempre via. E’ un sentimento che però non può essere ammesso per troppo tempo da Luca, perché il suo legame con questi genitori mai stati presenti, è comunque forte, negativamente forte.
  • Tristezza: è un sentimento che Luca può concedersi poco. E’ capitato raramente che abbia pianto senza dire “sto bene”, ammettendo d’essere triste.

Gioco

Quando Luca entra in stanza passano pochi attimi, il tempo di togliersi le scarpe, che prende le 2 pallone e/o il tunnel e Alessandro e ripropone il gioco della volta precedente. E’ capitato però che il gioco simbolico e di ruolo fosse preceduto da un breve gioco sensomotorio. La frase che spesso Luca dice all’inizio della seduta (“facciamo il gioco dell’altra volta?”) fa pensare che le azioni che vengono compiute da lui e dal terapista siano inserite in una cornice di gioco, tuttavia a volte mi è parso che finzione e realtà non fossero ben distinte. In queste occasioni, infatti, la carica emotiva era molto elevata, anche in me, e Luca ha tentato di uscire dalla stanza o si è rifugiato dietro di me o ha detto al terapista “No dai Claudio…”.

Di solito i ruoli sono abbastanza fissi: le 2 pallone sono i genitori cattivi (così li definisce il bambino), il tunnel è divorante e cattivo, il pinguino di peluche è Alessandro, il cilindro è “il Piccolo”, i cerchi sono i genitori e i nonni nuovi, Claudio può essere il protettore di Alessandro, di Luca e dei bambini, o Alessandro stesso, o Manol, o il motore del tunnel divorante; Luca invece diventa il Cavaliere Magico se ha bisogno d’essere forte oppure muove i personaggi cattivi facendo la loro voce o dicendo per esempio“guarda Claudio cosa fanno al Piccolo” o “Guarda, la mamma cattiva rideva perché il piccolo piangeva troppo…rideva, Ah, Ah, Ah!”.

In sintesi i temi osservati durante il gioco sono:

  • Persecuzione ai bambini (Alessandro, Manol, il Piccolo, la Formica, il Pesce) e impossibilità di salvezza;
  • Sacrificio dei bambini, cioè di sé, pur di non far morire per sempre i genitori cattivi, il cui rifiuto iniziale occupa uno spazio enorme in lui (alla morte dei genitori anche il bambino muore);
  • Resa impotente (posizione in piedi piegato a 90 gradi) di fronte a una forza divorante (il tunnel) che lo perseguita dall’interno;
  • Compiere imprese coraggiose nel ruolo di Cavaliere Magico: in passato fare i salti e le acrobazie, ora darsi la possibilità di agire di persona (sempre però nel ruolo di Cavaliere), e non attraverso gli oggetti, contro i cattivi (2 pallone, tunnel).
  • Accettare, per tempo breve, di essere curato da palla magica, spada magica, crema “che sa di magia” e che il terapista curi Alessandro tramite operazione al cuore e ai piedi.

La fine del gioco è annunciata dal terapista con qualche minuto d’anticipo. E’ capitato spesso che si fosse giunti a una conclusione “buona” e che l’ultima azione di gioco di Luca sia invece stata un’ulteriore aggressione ad uno dei bambini.

Il rituale finale, dopo aver riordinato la stanza, consiste nel fare un disegno.

Le tracce del movimento

Il tono di Luca mentre disegna sembra molto basso. Il pennarello non è tenuto saldamente in mano, il disegno è fatto molto velocemente e, in alcuni momenti, senza il controllo visivo. Di fretta conclude, mostra il disegno, dice quello che ha disegnato (a volte su richiesta del terapista, altre volte da solo) e va a mettersi le scarpe. Spesso ha usato un solo colore e ha fatto solo il contorno delle figure.

In generale i disegni di Luca riportano qualcosa del gioco fatto, ma non sono adeguati all’età. La figura umana è formata da: un tondo (testa) con dentro due pallini (occhi) e una linea (bocca) a volte dritta, altre a zig-zag, altre convessa o concava (segno di differenti emozioni); due linee verticali (che delimitano il corpo e le gambe) e, a metà di queste, altre due lineette (le braccia).

Spesso al disegno affianca, con lo stesso colore, una scritta poco leggibile che ne indica il tema (fig. 4.5).

Figura 4.5 Esempio di disegno di Luca dal titolo: “Sono il ladro”.

Figura 4.5 Esempio di disegno di Luca dal titolo: “Sono il ladro”.

Progetto terapeutico

Il progetto terapeutico di Luca si articolerà in tre parti: bisogni rilevati, obiettivi posti e strategie per raggiungere tali obiettivi e rispondere quindi ai bisogni.

Utilizzando un sistema a tabella si possono facilmente fare confronti tra le varie sezioni; spesso infatti, come si noterà, un obiettivo risponde a più di un bisogno del bambino o, viceversa, più bisogni possono aver risposta ponendo un solo obiettivo. La durata prevista per tale progetto è di 2 anni, con verifiche semestrali.

Si dispone di 1 ora settimanale di terapia.

  BISOGNI OBIETTIVI STRATEGIE
MOTORI

Aumentare la coordinazione motoria

Velocizzare i passaggi posturali

Omogeneità del tono muscolare Per raggiungere questi obiettivi è necessario puntare su quelli emotivo relazionali e sensopercettivi.
Usare la prensione a pinza superiore e migliorare la coordinazione oculo-manuale.  
LINGUISTICI Sperimentare la voce

Usare differenti toni di voce (non solo quello acuto)

Usare suoni diversi dalle parole: urlare gridare, lamentarsi, fare versi.

SENSO PERCETTIVI Trovare negli stimoli (in particolar e tattili) una fonte di piacere.

Esplorare oggetti con mani e bocca

Accettare il contatto corporeo

Costruire spazi

Solo una volta Luca ha esplorat o con le mani una spada buona da supino sul materass one. Potrebb e essere il terapista a cominci are le esploraz ioni, usando magari anche material e manipol abile come il pongo.

L’uso di oggetti a effetto magico come interme diari del contatto (prosegu ire con l’uso della crema).

Per arrivare a costruire uno spazio, bisogna occupar ne uno e starci bene all’inter no. Per ottenere ciò il terapista potrebbe usare, durante i moment i di cura, teli magici che

Obiettivi a breve termine (3 mesi)

  • Aumentare i momenti di “ammissione” della tristezza, della rabbia, del senso di impotenza con possibilità di pianto in affidamento;
  • Aumentare i tempi d’accettazione della cura (sia per sé che per Alessandro), sia mediata da oggetti come la palla o la spada, sia a diretto contatto con le mani del terapista, attraverso la crema (contatto corporeo).

Obiettivi a medio termine (6-8 mesi)

  • Agire contro i nemici e non a loro favore per salvaguardare sé stesso e i personaggi (bambini) che lo rappresentano;
  • Esplorare oggetti e spazi;
  • Accettare di condividere uno spazio con il terapista;
  • Costruire spazi di difesa per sé e per i personaggi che lo rappresentano.

Obiettivi a lungo termine (1-2 anni)

  • Miglioramenti a livello tonico, sia in riferimento alla voce che al tono muscolare;
  • Disegni più evoluti (colorati all’interno, contestualizzati, con più particolari).

Considerazioni

Abbiamo detto che giocare, come anche narrare, è una palestra, un teatro che insegna a vivere nella realtà, a comunicare con gli altri rispettando spazi, tempi e ruoli, a tollerare l’attesa e a contrattare ed equilibrare il proprio e altrui potere.

In questi anni il gioco in terapia è servito a Luca sia per sperimentare qualcosa di simile all’onnipotenza magica infantile (il Cavaliere Magico al circo), sia per entrare nel tema dell’abbandono e dell’impotenza (ancora molto vivo). Ci sono stati miglioramenti rispetto alle reazioni autolesive; non so nulla rispetto a quelle eteroaggressive. Il fatto che ci sia stato un passaggio dal divorarsi le unghie e le dita a un aggredirsi solamente a livello simbolico, è sicuramente un passo avanti e indica un abbassamento del malessere interno. Tuttavia è necessario lavorare ancora sul mondo del trauma per aiutare Luca a dire ulteriormente “sì” a sé stesso: quando si costruirà una casa all’interno del gioco, sarà una grande conquista.

Le aggressioni scolastiche passate sono state impetrate nei confronti di bambini della sua età o più piccoli; si pensa che essi, come del resto i rappresentanti simbolici usati nel gioco, fossero specchio di sé, di un soggetto cioè (se non oggetto…) meritevole di maltrattamenti e violenze. Ora se Luca, dopo l’ammissione della rabbia e della tristezza, continuerà pian piano ad accettare di essere curato, benevolmente toccato e risanato nel gioco, cioè continuerà a dire sì alla propria esistenza (come non hanno fatto i genitori naturali e in parte anche gli adottivi), potranno forse aprirsi le strade per costruire rapporti di reciprocità, in cui ognuno sa che l’altro ha una mente e in cui i poteri sono equilibrati. Riuscirà a giocare con i compagni di scuola sentendosi “alla pari”? Magari a giochi di squadra o con regole?

Le domande sarebbero tante, anche rispetto al suo futuro da adulto, ma forse per ora è bene procedere a piccoli passi.

 



 

SECONDO CASO: MARIA, 11 ANNI

Maria, unica figlia di una coppia ancora giovane, è una bambina di 11 anni costretta alla carrozzina a causa di una patologia neuromotoria. Maria è tetraplegica.

Cenni sulla tetraplegia

Prima di procedere con l’analisi del caso è necessario fare una premessa sulle principali caratteristiche della patologia di cui è portatrice Maria. Dato che l’argomento è molto esteso e l’obiettivo non è quello di analizzare la patologia in sé, ma il caso di Maria, riporterò solo ciò che della letteratura in materia, potrebbe interessare nello specifico il nostro caso.

Definizione

La tetraplegia rientra in uno dei quadri più gravi delle Paralisi Cerebrali Infantili che, secondo la definizione di Bax accettata a livello internazionale nel 1964, sono un disordine persistente ma non immodificabile del movimento e della postura, dovuto a una lesione non progressiva del cervello immaturo.1

Secondo la classificazione di Hagberg2, per tetraplegia s’intende una sindrome spastica in cui gli arti superiori e inferiori sono interessati in modo eguale o i superiori sono più compromessi  rispetto agli inferiori. Il termine dunque  indica spasticità; tuttavia non esclude che possano essere associati anche sintomi discinetici, come le distonie (in forma però non prevalente). Generalmente il danno cerebrale di queste forme bilaterali di PCI è esteso, per cui il quadro clinico si configura per lo più come grave e con disabilità multiple.

Si rimanda all’osservazione neuro-psicomotoria di Maria per evidenziare le principali problematiche motorie e relazionali rilevate in questo caso specifico.

La tetraplegia nel pretermine

Se in passato la percentuale di nati pretermine tra la popolazione di bambini tetraplegici era del 7%, negli ultimi anni (dal 1993 dice Hagberg) è aumentata fino al 39%, a causa della maggior sopravvivenza dei bambini di età gestazionale molto bassa.

Nella quasi totalità dei casi, inoltre, la tetraplegia del pretermine è dovuta a fattori perinatali, come asfissia, emorragia o idrocefalo, in seguito a parto prolungato, cesareo precipitoso, prematuranza o postmaturanza1. Tuttavia non sono escluse, anche per i prematuri, cause di tipo prenatale o postnatale.  Il caso di Maria è infatti inserito in un quadro di distacco precoce di placenta (rientrante in cause prenatali dipendenti dall’ambiente uterino), con conseguente asfissia, rammollimento della sostanza bianca periventricolare e formazione di cavità cistiche (leucomalacia periventricolare cistica).

Influenza della patologia neuromotoria nella relazione e nello sviluppo affettivo

Come ogni disturbo motorio grave, la tetraplegia ha una grossa influenza  sulla relazione precoce genitore-bambino e sullo sviluppo emotivo-affettivo di quest’ultimo (quando non siano compromesse anche le funzioni cognitive).

Diventare genitori comporta generalmente cambiamenti psicologici e di coppia. Durante la gravidanza si creano, sia nella madre che nel padre, delle rappresentazioni rispetto al bambino fantasmatico (il bambino secondo l’immaginario e il desiderio genitoriale) e al proprio essere genitore, delle fantasie rispetto alla relazione infantile sperimentata da piccoli e l’elaborazione di un lutto (la perdita della parte infantile e adolescenziale di sé) che fa approdare la coppia a un nuovo equilibrio e a nuovi investimenti2. Il desiderio di un figlio può avere motivazioni molto diverse anche all’interno della stessa coppia: affermare le proprie capacità, estendere sé stessi, identificarsi con qualcuno, vincere una depressione, superare un disaccordo di coppia…

Quando nasce il figlio, i genitori si trovano davanti a un bambino che, nella sua realtà, è diverso da come lo avevano immaginato. Se questo è vero per bambini sani, lo è in modo maggiore per bambini con patologia.

Un’altalena tra impotenza e onnipotenza

Un figlio malato porta in sé il segno evidente di una realtà non desiderata, accentuando nei genitori non solo la perdita del bambino perfetto immaginato durante la gravidanza, ma anche la crisi della propria immagine genitoriale senza smacchi. Si ha cioè un crollo dell’onnipotenza  genitoriale, una massiccia frustrazione delle aspettative narcisistiche (nella madre in particolare)  e nella quasi totalità dei casi si susseguono sentimenti depressivi accompagnati da fasi di assestamento che tentano di ripristinare un equilibrio reso precario dalla patologia. L’equilibrio sarà raggiunto quanto prima se i membri della famiglia si attiveranno per rispondere alla crisi e cercheranno di mantenere l’integrità familiare1. Non è tuttavia necessario che tutte le fasi vengano vissute, perché lo stress familiare o del singolo può essere più o meno forte a seconda delle risorse di ognuno 2. Le fasi3 comunque sarebbero:

  • Shock iniziale: in cui prevalgono stati confusionali, un’incomprensione della diagnosi fatta dal medico e fantasie catastrofiche;
  • Negazione: caratterizzata dalla cristallizzazione del tempo (bambino che non cresce) e da un comportamento consumista (genitori che comprano di tutto al proprio figlio, cercando in tal modo di cancellare il problema);
  • Rifiuto del bambino reale: attraverso ipervalutazione o svalutazione del bambino, rinuncia al ruolo di genitori, separazione del problema dal bambino;
  • Iperinvestimento nelle proprie capacità di cura/assistenza: il genitore si comporta da martire e/o da fisioterapista, sente di avere tutto il controllo (onnipotenza) o lascia che il bambino le abbia tutte vinte (permissività eccessiva).

Secondo Stern1  i genitori di fronte all’handicap o al rischio evolutivo del figlio, sperimentano una sorta di “vuoto rappresentazionale”. Il bambino, a causa della patologia (spesso fonte di sentimenti angosciosi per i genitori), verrebbe cioè privato di tutta la funzione nutritiva per lo sviluppo della sua organizzazione psichica costituita dalle proiezioni parentali (immagini mentali, sogni fantasie relative al suo sviluppo). Questa dimensione fantasmatica poi si andrebbe a esplicitare nell’effettivo comportamento del genitore col piccolo (dialogo tonico, accudimento, uso di voce e sguardo, scambi affettivi, interazioni giocose).

Non disponendo di una motricità adeguata, il bambino si trova in una condizione di assoluta dipendenza dall’adulto, il quale assume una duplice posizione: colui dal quale dipende la sopravvivenza del bambino (anche dopo i primi anni di vita), quindi una figura vitale, direi onnipotente dal punto di vista del piccolo; e colui che subisce la tirannia del figlio, forse a causa di sentimenti di colpa o della non tollerabilità di sentimenti aggressivi nei confronti di un essere che non risponde alle aspettative, ma che è così bisognoso di cure. Il genitore diventa in questo modo succube del figlio, ma nello stesso tempo tiene il piccolo in una condizione regressiva e di dipendenza.

L’alternanza di onnipotenza e impotenza priva la relazione del ruolo strutturante della conflittualità, senza farla approdare a quella contrattazione di potere che si ha solo in un’ottica di reciprocità 2.

“Dai tuoi occhi capisco di non essere un re” – un senso di onnipotenza scalfito

Come precedentemente abbiamo detto, nei primi mesi dopo la nascita, gli stimoli interni ed esterni probabilmente appaiono deformati, amplificati e provocano reazioni di angoscia, di smarrimento che attraverso il pianto cercano una risposta. E la trovano grazie a una madre “sufficientemente buona”, sintonizzata con i bisogni del proprio figlio, capace di amplificare gli stati positivi e di placare quelli negativi.

Ora, quando un figlio è malato è probabile che scattino nel genitore quei meccanismi già riferiti di shock e impotenza. Cosa succede se il bambino piange per un qualche motivo e il genitore si scopre incapace di rispondere adeguatamente, incapace di riconoscere il bisogno del bambino e di alleviare il suo dolore? Quale può essere lo sguardo di un genitore impotente di fronte al figlio inconsolabile?

E questo non solo riferito al pianto: che pensieri, e di conseguenza quale sguardo, si creano in un genitore che vede il bambino eccessivamente fermo, incapace di attivare un movimento se non per un improvviso e incontrollato aumento di tono, con grosse difficoltà di alimentazione e di alternanza sonno-veglia, visibilmente “diverso” da come se lo aspettava? E quindi cosa percepisce il bambino dagli occhi del genitore, in particolare da quelli della madre? Si può pensare che già nei primissimi momenti il bambino si rispecchi non in un’ammirazione incondizionata, ma in uno sguardo perplesso, forse deluso o preoccupato, che cerca segni di diversità e patologia?

Forse non sempre è così o forse non per sempre è così.

Fatto sta che la malattia è sempre fonte di preoccupazione soprattutto nelle fasi iniziali, quando tutto viene sconvolto e non si sa cosa aspettarsi.

Ai genitori di questi bambini è forse richiesto di essere “più che sufficientemente buoni”, cioè di superare il trauma e la preoccupazione, per vedere il proprio figlio così com’è, accettarlo, aiutarlo nella regolazione dei suoi difficili bisogni e permettergli in tal modo di avere fiducia nella sua esistenza, anche se problematica, sentendosi se non un re, almeno un principe.1

Azione, tempo, desiderio

Come dice Stern1, sentire di essere autori delle proprie azioni e di avere la volontà (volizione) e il controllo degli atti autogenerati, è una costante fondamentale  per la creazione di un sé nucleare, premessa per riconoscere l’altro da sé ed entrare in relazione con esso in un rapporto di reciprocità. Un bambino neuroleso è portatore non solo di importanti deficit motori che lo ostacolano nell’esecuzione di piani d’azione (che probabilmente si crea in mente), ma anche di disordini associati (visuo-percettivi, di memoria o attenzione). A tutto ciò spesso si aggiungono, all’interno del contesto socio- ambientale, due tipologie di accudimento:

  • Iperprotezione e anticipazione delle esigenze del bambino: viene a mancare, in questi casi, un sufficiente tempo di attesa affinché il bambino possa tradurre le immagini mentali (i piani d’azione) in azioni, attraverso l’uso di canali anche diversi da quello corporeo.
  • Passività, assenza: il bambino non viene stimolato, viene lasciato solo e non si comunica con lui. Il tempo in questi casi pare fin troppo dilatato.

Nello specifico, l’accudimento di Maria sembrerebbe alternare tra tempi di eccessiva presenza genitoriale e tempi di assenza.

La riflessione sul tempo porta necessariamente a parlare del desiderio2 del bambino. Credo che il rischio di una non formazione del desiderio (e quindi di pensiero, azione, spazio) sussista quando il bambino si trovi troppo spesso e per un tempo eccessivamente lungo da solo, senza essere stimolato all’azione (un quadro che potrebbe rispecchiare una carenza affettiva o un’assenza affettiva, come abbiamo visto nel Caso precedente). Credo altresì che il desiderio di un bambino, che continuamente viene anticipato, protetto e mosso passivamente,  via via si affievolisca, lasciando spazio all’azione dell’altro e disincentivando la propria, perché troppo faticosa, perché troppo lenta e bisognosa di tempo.

Si può intuire allora quale equilibrio di tempi, gesti, parole, sguardi debba trovare un genitore affinché suo figlio possa svilupparsi emotivamente e cognitivamente (in questo testo si fa riferimento a bambini con grave disturbo motorio, ma con intelligenza nella norma).  Ecco  perché  il  genitore   di  un  figlio  neuroleso  deve  essere   “più   che sufficientemente buono”.

Il corpo che non dà potere, la parola che dà onnipotenza

Controllo del capo, primi rotolamenti, postura seduta autonoma, prensione sempre più precisa, spostamenti nello spazio strisciando, gattonando o camminando, sono alcuni dei più importanti passaggi evolutivi che si verificano nei primi 18 mesi1. Il bambino tetraplegico non ha questi tempi e con grande probabilità non raggiungerà mai un cammino con sostegno. Il suo corpo dunque è fin dall’inizio fonte di frustrazione: non riesce a veicolare i desideri (quali il mettere in bocca, toccare, giocare) e nemmeno i dispiaceri, non riesce a sperimentare la lontananza o la vicinanza quando vorrebbe, non riesce a soddisfare le aspettative degli altri.

I bambini tetraplegici che -come Maria- hanno pressoché intatta la funzione verbale, privilegeranno questo canale comunicativo e saranno proprio le prime parole a generare in loro quello stato di giubilazione2  che abbiamo nominato per le prime conquiste motorie. Spesso si osserverà un investimento ipertrofico nel canale verbale, quasi a compensare i limiti motori, e si assisterà a comportamenti autoritari, di controllo della realtà esterna, attraverso ordini verbali o richieste imperative 3.

Divieti e reciprocità per un’autonomia possibile

Immagino che il genitore sia estremamente felice per la conquista verbale del piccolo, così come probabilmente lo è stato per i lenti miglioramenti motori, e che sia per lui difficile accettare il suo ruolo di educatore, con i divieti che questo comporta. Come il titolo di un articolo esprime bene infatti, il genitore di un bambino malato “se (il bambino) lo chiedesse, gli darebbe anche la luna”1.

Ma è a questo punto che il genitore “più che sufficientemente buono” deve porre dei limiti e dei divieti, senza dimenticare la sofferenza del piccolo, la sua rabbia nel vedersi diverso dagli   altri,   incapace   di   tante   cose,   dipendente.   Devono   esserci   scontro, conflittualità, ma anche ascolto reciproco2, affinché anche nel bambino portatore di una così grande sofferenza, si sviluppi la capacità di stare assieme agli altri, di accettare e discutere le regole, di far parte di un gruppo di coetanei e, in futuro, di poter essere autonomo nella società.

Tutto questo non è per nulla scontato e spesso invece si assiste a scene di tirannia del bambino e conseguente umiliazione da parte del genitore, a causa di una sofferenza familiare mal gestita e di un trauma non elaborato.

Vediamo nello specifico il caso di Maria.

Anamnesi

Nasce alla 28^ settimana da parto cesareo praticato per distacco di placenta (peso 1.115 grammi; Apgar  1 a 1’, 4 a 5’).  Vi è subito necessità di manovre rianimatorie e di intubazione (solo in IX giornata potrà iniziare lo svezzamento dal respiratore).  Attraverso un’ecografia cerebrale si riscontra una leucomalacia cistica periventricolare   parieto- occipitale bilaterle.

Alla dimissione (dopo più di due mesi dalla nascita) l’esame neurologico riscontra un’instabilità posturale, una motilità povera, sincrona e crampiforme e un ipertono passivo ai due cingoli.

La bambina presenta inoltre improvvisi scatti con irrigidimento degli AAII, reazione di Babinski ad entrambi i piedi, RTAC3, riflesso di Moro (anche se incompleto a dx) e movimenti in seguito a stimolo acustico. Non sono invece presenti il grasp, la marcia automatica e la risposta a uno stimolo visivo.

A 3 anni permangono startle, RTAC, ipo-posturalità, molte sincinesie (bocca-mano, mano- mano), irrigidimenti se posta contro gravità o in seguito a contatti relazionali, bocca semiaperta con scialorrea. La mano sx viene utilizzata meglio della dx.

A 5 anni la situazione è ormai consolidata a grave deficit motorio con ipoposturalità del tronco  e  schemi  primitivi  agli  AASS  e  AAII.  Se ben contenuta  comunque  esegue movimenti  più  fini  con  l’arto  superiore  sx.    Il  rapporto  con  l’adulto  è  immaturo  e improntato sul meccanismo bisogno-soddisfazione. Presenta molte paure, anche inconsolabili (il trapano, il cane che abbaia, le automobili). Viene proposta una carrozzina elettrica  per  esterni  con  cinghia  pettorale,  schienale  prolungato,  braccioli  ridotti  e regolabili, divaricatore e sedile ridotto. Le capacità di apprendimento per l’uso di questo ausilio sono buone anche se Maria presenta scarso entusiasmo e rapido affaticamento.

Osservazione neuro-psicomotoria

Competenze della bambina

Motorie

La motricità di base e il controllo posturale di Maria sono elevati se si tiene conto della patologia di cui è portatrice. Gli arti superiori infatti, pur essendo in triplice flessione (gomito e polso flessi), sono abbastanza controllati dalla bambina, che riesce ad afferrare e portare alla bocca un fazzoletto o il cucchiaio (adattato) per mangiare. Maria non ha raggiunto la postura eretta (né autonoma, né con sostegno), come del resto la maggior parte dei soggetti affetti da tetraplegia, pertanto necessita della carrozzina per gli spostamenti. Quella elettronica viene usata a scuola e guidata autonomamente, quella manuale richiede un accompagnatore.

La zona orale è interessata da moderata scialorrea e da sincinesie che si presentano ad ogni movimento che la impegni sia dal punto di vista motorio che emotivo.

  • Quando è in postura supina, Maria necessita di un allineamento passivo del bacino e di un rialzo a livello cervicale e in parte toracico (lettino Bobath lievemente inclinato, con aggiunta di un cuscino), in modo che a livello lombare non ci sia un’eccessiva iperlordosi (con conseguente antiversione del bacino) e che non si verifichi la postura “a colpo di vento” rischiosa per la lussazione delle anche. Gli arti inferiori sono leggermente flessi, presentano una scarsa motilità (Maria riesce a eseguire in parte i movimenti di flesso estensione del ginocchio) e tendono a “cadere” o entrambi in abduzione ed extrarotazione o uno in adduzione-intrarotazione e l’altro in abduzione-extrarotazione. Gli arti superiori sono flessi a livello dei gomiti e dei polsi (questi ultimi sono anche extraruotati con conseguenti difficoltà di prensione); quando parla, Maria tende a gesticolare con l’arto superiore sinistro, mentre tiene la mano destra chiusa a pugno.
  • La postura prona è difficoltosa da raggiungere (anche passivamente) e da mantenere, in quanto  permane  l’eccessiva  antiversione  del  bacino  che  impedisce  la  distensione  del tronco. In tal modo il peso è caricato sul petto (difficoltà respiratorie) e sulle ginocchia.
  • L’autonomia nella postura seduta varia a seconda che Maria sia a terra oppure su un letto stile “Bobath”: nel primo caso infatti, facendole incrociare le gambe, la bambina sposta il tronco (quindi il baricentro) in avanti (con la parte lombare della colonna in iperlordosi) e riesce a trovare un equilibrio senza richiedere un sostegno (tuttavia eccessivi movimenti laterali o all’indietro la farebbero cadere, in quanto la sola paura di cadere scatenerebbe una reazione di Moro con gli arti superiori in flessione, impedendo così le reazioni di paracadute laterali e posteriori); nel secondo caso, essendo seduta sul lettino con le gambe a penzoloni, quindi avendo una base d’appoggio più ristretta e la sensazione di maggior instabilità, ha bisogno di appoggiarsi al terapista.

Sulla carrozzina sono necessari i seguenti adattamenti: spinte laterali imbottite per mantenere il tronco allineato (ultimamente è stata tolta quella destra), cintura pelvica e cuscino antidecubito leggermente inclinato e fascia ai piedi. Maria ha subito un intervento per allungare i muscoli flessori e adduttori dell’anca sinistra e i flessori del ginocchio sinistro, in quanto la retrazione muscolare aveva provocato una completa lussazione della testa femorale e un innalzamento della rotula con impossibilità di estensione del ginocchio (fonte di gran dolore per la bambina). Il post intervento ha previsto: obbligo di postura supina, ingessatura della gamba sinistra (in modo che i tendini dei flessori del ginocchio si rafforzassero) e utilizzo di un tutore che tenesse la gamba destra lungo l’asse corporeo e la sinistra abdotta (in modo che la testa femorale rimanesse ben dentro all’acetabolo e si formasse il callo osseo, per impedire una nuova lussazione). Quando Maria ha potuto riconquistare la postura seduta, la carrozzina ha subito un’ulteriore modifica: la pedana sinistra è stata spostata verso l’esterno in modo da permettere alla gamba di rimanere abdotta.

I passaggi posturali che Maria riesce a compiere, se aiutata, sono il passaggio da supina a  seduta con trazione delle mani (tenendo conto del peso corporeo, Maria presenta una buona forza muscolare agli AASS) e i rotolamenti (supina-di lato, da supina all’indietro). Come si è detto, Maria riesce a portare un fazzoletto o il cucchiaio alla bocca e questo è indice di una prensione a livello della mano sinistra che, pur essendo molto difficoltosa, è comunque discretamente funzionale. La motricità fine delle mani è inadeguata, anche se Maria riesce ad utilizzare l’indice sinistro per indicare o premere dei tasti. E’ riferito tuttavia che i compiti scolastici siano scritti (a mano) dalla madre, su dettatura della bambina.

Linguistiche

  • Produzione linguistica: Maria utilizza frasi corrette e adeguate all’età, forse anche eccessivamente adeguate. L’area linguistica è infatti investita in modo massiccio sia dalla bambina che dalla famiglia (soprattutto dalla madre che è molto esigente rispetto alla costruzione esatta della frase, al significato e all’uso di parole nuove) e questo rientra nella normalità di quadri del genere. Maria presenta inoltre alcune difficoltà di articolazione, soprattutto per quanto riguarda le lettere r ed s. Se accusa dolore la bambina non riesce subito a lamentarsi, ma cambia espressione del viso e ride. Quando l’emozione (positiva) sale, il tono muscolare di Maria aumenta e spesso esce un grido di gioia (una motivazione può essere il ritorno in palestra dopo i mesi post-operatori a letto).
  • Comprensione: Maria è molto sensibile alle variazioni di volume (se la voce è forte e secca il suo tono muscolare  può sfociare anche in un riflesso di Moro). Riconosce la gestualità codificata, con codice convenzionale (ad esempio il ciao con la mano, l’ok, ecc.), le narrazioni, il racconto di esperienze, le metafore e alcuni messaggi complessi. Il dialogo tra lei e i genitori, nei momenti di rabbia, è spesso caratterizzato dall’uso di messaggi complessi e di metafore, con una tonalità sarcastica di fondo.  Rimane comunque il dubbio che ironia e sarcasmo non vengano distinte da Maria (e nemmeno dai suoi genitori) perché ogni messaggio, anche solo positivamente ironico, viene recepito come aggressione e volontà di annichilimento da parte dell’altro. Che sofferenza e rabbia impotente ci saranno di fondo sia in Maria che nei genitori?
  • Contenuti:  il dialogo con il terapista e con me spazia su vari argomenti inerenti la sua vita e il vissuto: la scuola, la parrocchia (che negli ultimi tempi ha frequentato molto per la preparazione alla cresima), la musica, la relazione con la madre, le paure e le informazioni riguardo alle condizioni della sua gamba operata. Maria vuole essere partecipe del suo sviluppo e dei suoi progressi post-operatori, ma dietro ogni domanda che lei pone è facile distinguere la paura di un insuccesso o di una diversità. Come esempi chiarificatori citerò alcune espressioni che mi hanno più colpito: “tra poco sarà ora di fare la ceretta…” o “quando avrò la patente…” o “quando andrò a vivere da sola?…sono tutti matti qui” o “siamo al 60%? (riferito al punto a cui è arrivato il decorso post operatorio)”.

Inoltre quando il terapista le propone di “sognare a occhi aperti” raccontando ciò che vede con  gli  occhi della  fantasia, Maria riesce  ad elencare solo  una serie di attività (ricalcate dalla sua esperienza reale) che alcuni pesci svolgono in mare (il pesce dottore che opera i pazienti, il pesce prete che fa i funerali, il pesce terapista che fa fisioterapia). Il racconto non diventa narrazione di una storia magica come potrebbe accadere in un sogno, ma rimane a livello descrittivo. Questo può derivare dalle esperienze pesanti vissute, e dalla poca agevolazione a vivere in un rapporto di reciprocità (scontri e contrattazione di potere) coi genitori e coi pari.

Cognitivo/relazionali

Non ho rilevato dati rispetto a valutazioni psicologiche, ma il quoziente intellettivo pare nella norma. Un bambino che non può camminare ha dentro di sé una continua sofferenza che brucia energie psichiche e diventa un costante rumore di fondo. Per questo è impegnativo per Maria mantenere la concentrazione sul compito scolastico da eseguire.

Gli aspetti relazionali evidenziano delle difficoltà rispetto all’accettazione della patologia, alla gestione della rabbia, al rapporto con i genitori e con i pari (una continua altalena tra posizioni di onnipotenza -comandi verbali, controllo, leadership- e posizioni di evidente impotenza -dipendere totalmente dalle cure di qualcun altro). Nelle interazioni cui ho potuto assistere e partecipare, Maria ha sempre usato molto lo sguardo e la voce. Non nego che a volte le sue domande o lo sguardo prolungato mi abbiano messo un po’ in difficoltà. La bambina ha notevoli capacità mnemoniche e mi ha stupito che si ricordasse di me e di quello che le avevo raccontato durante il periodo di tirocinio precedente (sono stata ospite dello stesso servizio negli ultimi due anni).

Le sue difficoltà di prensione e l’incapacità di manipolazione degli oggetti, portano Maria a delegare all’adulto le azioni che vorrebbe compiere. In famiglia tuttavia ci sono stati tentativi per renderla autonoma, come adattare le posate affinché potesse mangiare da sola, darle un fazzoletto a disposizione per asciugarsi la saliva che ogni tanto cade (scialorrea), o attaccare alla carrozzina una borraccia con cannuccia facilmente raggiungibile.

Esempio di posate adattate 1

Esempio di posate adattate 2

Esempio di posate adattate 3

Figura 5.1 Esempio di posate adattate.

Il periodo operatorio e post operatorio ha rappresentato un ulteriore peso per tutta la famiglia  e  una  fonte  di  disequilibrio  notevole.  I  genitori  infatti  riferiscono  la  loro stanchezza anche solo nell’aspettare i tempi lunghi che la bambina utilizza per mangiare e decidono di riprendere a imboccarla.

In terapia si è cercato di valorizzare le capacità di movimento dell’arto superiore sinistro e di afferramento della mano omolaterale. Alla richiesta di giocare a “spadate” il terapista ha legato una stampella all’avambraccio di Maria, permettendole in tal modo di agire attivamente nella battaglia, e nelle successive sequenze di cura (Maria è il medico che opera il paziente ferito) ha passato gli strumenti in mano alla bambina.

La bambina ha sempre cercato di prolungare queste sequenze di gioco, forse perché ha sperimentato per un tempo lungo di essere l’autrice delle azioni volute, di avere il controllo di esse e di non dover delegare a qualcun altro l’esecuzione dei propri piani d’azione, o forse perché aveva bisogno di giocare e rigiocare i temi da lei proposti (si veda il paragrafo “Gioco”).

Caratteristiche del bambino

Categorie psicomotorie

  • Posture:   L’assetto posturale è variabile in relazione all’aumento del tono e alla difficoltà di movimento, quindi non è principalmente guidato dalla volontà. Avendo comunque alla base una ridotta possibilità di scelta, la postura che Maria predilige (e nella quale passa più tempo durante la giornata) è quella seduta, perché le permette di aver maggior controllo visivo e di sentirsi meno dipendente dall’adulto. Come si è già detto, il canale visivo (assieme a quello verbale) è molto usato dalla bambina, che guarda sempre l’interlocutore, anche nel gioco (addirittura mi chiede, quando io muoio nel gioco, di aprire gli occhi perché mi deve dire una cosa, o di morire a occhi aperti, e in questo tempo sento il suo sguardo su di me). Una nota particolare va riservata alla mimica gestuale e facciale. La prima, come si può immaginare, è abbastanza ridotta, ma la verità emotiva che esprime il tono muscolare fa spesso da cartina tornasole per i principali stati emotivi (paura, rabbia, gioia, dolore). In alcune occasioni poi, quando Maria è arrabbiata con un genitore (ad esempio a causa di battute sarcastiche su di lei), la bambina ordina “dammi il dito!” (per poi morderlo), esprimendo così verbalmente quello che, se potesse, sarebbe un  gesto aggressivo nei confronti dell’adulto. I limiti neuromotori di Maria influenzano anche la mimica facciale che risulta un po’ limitata. Questo non vuol dire che la bambina non riesca a esprimere ad esempio gioia o dolore (il sorriso di Maria è infatti molto espressivo), ma solo che vi è poca varietà nelle espressioni del viso. Un ulteriore elemento, già precedentemente accennato è che, in presenza di forte dolore fisico o di paura, la mimica facciale di Maria non è coerente alla situazione: la bambina reagisce in un primo momento irrigidendosi e ridendo, e solo dopo si mette a piangere o diventa molto seria.
  • Spazio: Non potendo decidere gli spostamenti, se non esprimendo la sua volontà a qualcuno che poi possa farglieli eseguire, Maria ha un uso dello spazio piuttosto limitato e statico. La variante introdotta dal terapista precedentemente, e continuata anche durante il mio tirocinio, è stata quella di dividere alcune sedute in due parti: la prima in cui si eseguivano normali mobilitazioni passive agli arti o massaggi al tronco, e la seconda in cui si giocava a qualcosa che avrebbe deciso Maria. Gli spazi investiti sono stati perciò due: quello più prettamente fisioterapico (il lettino Bobath) e quello dell’azione di gioco (anche questo poco differenziato, ma variabile nel tempo attraverso l’uso di parole e oggetti diversi). Lo spazio interpersonale è variabile, ma deciso dall’adulto in generale. Maria chiede e arriva anche a ordinare l’allontanamento solamente alla madre (“Puoi andare fuori?” o “Vai”), che fa fatica a sottrarsi al controllo sulla figlia.  La necessità di sostegno e cura che Maria ha tuttora, rendono la bambina favorevole al contatto corporeo con l’adulto, alle manipolazioni e al movimento passivo (soprattutto quello che le dà informazioni propriocettive e cinestesiche forti).
  • Tempo:  L’uso che Maria fa del tempo può essere analizzato in riferimento al gioco che è stato imbastito in alcune sedute. L’azione era sempre quella (combattere, poi curare il ferito e fargli il funerale nel caso morisse) e il ritmo lento. La permanenza nell’attività è sempre stata prolungata anche se alcuni passaggi, come il sottrarmi alla sua vista per sferrare un attacco a sorpresa all’inizio della battaglia o la mia morte durante l’intervento chirurgico, hanno fatto emergere la sua difficoltà di attesa. Infatti dopo poco che mi ero nascosta (facendo comunque sentire la mia presenza con rumori o col lancio di palline) Maria gridava “vieni fuori!” o “Chi sei?!”, oppure se il mio silenzio era troppo prolungato usciva dal gioco chiamandomi per nome.
  • Tono muscolare:  tenendo presente gli impedimenti motori e le difficoltà toniche prettamente legate alla patologia e già descritte, si possono comunque riscontrare aumenti di tono in relazione a stati emotivi quali la paura, la rabbia e la gioia. Nell’interazione con me, durante la battaglia, mi sarei aspettata un tono muscolare più alto e degli urli, invece Maria, pur mantenendo viva l’attenzione a quello che stava succedendo, diventava silenziosa e il rumore delle “spade” che si scontravano non scatenava in lei la reazione di Moro.
  • Voce: volume e tono sono modulati a seconda della situazione; l’intonazione durante la conversazione è discendente (con finale della parola quasi assente a causa delle difficoltà respiratorie), mentre è ascendente quando il tono e il volume aumentano (ad esempio quando grida). Maria usa la voce per dare comandi verbali, per dire quello che vorrebbe, per raccontare, fare domande, commentare, urlare (per paura o gioia, non per rabbia).
  • Oggetti:  in terapia l’ho vista utilizzare oggetti in modo funzionale (il fazzoletto per asciugarsi la bocca), ma anche simbolico (la stampella usata come spada durante la battaglia, il telefono come defibrillatore). Durante il gioco usa anche gli strumenti da chirurgo (giocattolo) e accompagna l’azione con la parola e lo sguardo. Le palline e la palla grande (bombe) che lancio io per iniziare il gioco generano in Maria reazioni di improvviso aumento di tono muscolare, emotivo e vocale.

Azione

Si  possono  individuare  tre  tipi  di  azione  in  Maria:  funzionale,  comunicativa  e simbolica.

  • Funzionale: cioè quando si asciuga la bocca con il tovagliolo o usa le parole per chiedere ad altri di aiutarla o di prenderle qualcosa. Durante la terapia Maria vuole avere un orologio per controllare il tempo che passa (quando siamo andati a domicilio ha sempre chiesto o ordinato alla madre di metterle la stessa sveglia vicino; in palestra c’è un orologio da muro ben visibile). Durante il gioco vuole inoltre sempre la medesima spada (stampella) nonostante il terapista gliene abbia proposta una più adatta per via delle minori dimensioni.
  • Comunicativa: chiedere come mi va lo studio, ascoltare i racconti (anche di vita vissuta) miei o del terapista, raccontare di eventi che l’abbiano colpita (guerre di cui sente parlare al telegiornale, partite di calcio, eventi musicali), interessarsi  al proprio stato di salute fisica e alle vicende del mondo (a volte con aria preoccupata), costituiscono l’azione principale di Maria. Nel rapporto con la madre si assiste spesso a prevaricazioni verbali di una sull’altra, anche con offese o battute sarcastiche, e a cambiamenti velocissimi di richiesta/ordine da parte della bambina (ad esempio nel corso di una crisi, Maria ha ordinato per più volte alla madre “vai via!”-“stai qui!”, in una sequenza velocissima di messaggi opposti).
  • Simbolica: questo tipo di azione si riscontra nel gioco. Durante la battaglia con le spade ho cercato di far emergere l’aggressività e la rabbia di Maria enfatizzando il rumore dei colpi di spada, assumendo il ruolo di Corsaro Nero (nero dalla rabbia) e imitando esattamente le parole da lei dette. Le mie due ultime posizioni (corsaro nero e imitatore) non sono state accettate dalla bambina, che ha chiaramente detto  (a volte gridato) “No tu eri Bin Laden” oppure “Non mi imitare!”. Le altre azioni simboliche che Maria fa nel gioco sono: operare il ferito con gli strumenti da chirurgo e fare il funerale se questi è morto.

Manifestazioni emotive

Lo scudo dell’accettazione e dell’auto-ironia

Il primo giorno in cui ho conosciuto Maria, a settembre del 2005, mi ha raccontato la sua storia con queste parole: “Io sono nata con questo problema per cui il cervello è normale ma non si è sviluppato abbastanza per comandare i movimenti. Io penso come gli altri bambini, provo le stesse emozioni, ma soffro molto per la mia condizione perché i bambini più piccoli o più grandi o quelli che non mi conoscono mi prendono in giro. Forse loro non capiscono cosa vuol dire”.

Non  mi  sarei  mai  aspettata  che  una  bambina  parlasse  così  chiaramente  del  suo problema e della sofferenza causata dall’essere presa in giro. Come è possibile parlare così a 10 anni? Ho avuto e ho tuttora l’impressione che manchi un passaggio. Sembra cioè che quella comprensibile rabbia verso la malattia e verso chi la schernisce, sia soffocata (del tutto con i coetanei; solo in parte con i genitori con cui riesce a manifestare la rabbia, ma che la prevaricano dimostrando il loro potere…e la loro sofferenza).

Ciò che Maria dice è proprio il massimo che un adulto possa desiderare sentire da lei, perché dà l’impressione che la sofferenza sia stata accettata, che il lutto sia stato elaborato. Invece questa è solo apparenza, è uno scudo che la bambina innalza negando la sofferenza, la fragilità, l’impotenza che le sue condizioni fisiche e relazionali generano in lei.  Un racconto della madre ha messo ulteriormente in luce questa idea che il terapista ed io ci siamo fatti: l’episodio è accaduto a pranzo a casa di amici. Maria ha chiesto alla madre di potersi alzare da tavola anche se stavano ancora tutti mangiando; la mamma le ha chiesto “ma dove vuoi andare che siamo ancora tutti seduti?” e la bambina con tono ironico ha detto “devo andare a sgranchirmi le ruote”; al ché tutti si sono messi a ridere applaudendola.

E’ possibile che una bambina scherzi così facilmente sulla propria condizione? Non è forse un modo per far divertire gli altri, calpestando ciò che veramente sente dentro, affinché poi la loro attenzione si riversi su di lei? D’altra parte ha ben visto che le vere grida di rabbia e dolore non sempre trovano una risposta adeguata da parte dei genitori, che spesso “sdrammatizzano” con toni che dall’ironico arrivano al sarcastico.

Le paure: punta di un iceberg

Il controllo sull’ambiente e sugli altri, la consapevolezza di sé e l’auto-ironia che fanno apparire Maria come capace e  a volte “onnipotente” dal punto di vista intellettivo e verbale, si dissolvono in presenza di quelle paure che improvvisamente prendono piede in lei. Paure “riflesse” come quella dei rumori forti (il trapano, il latrato del cane) che generano reazioni di Moro, ma anche paure più radicate e profonde (le veline di “Striscia la notizia”) che per essere superate necessiterebbero dell’accoglienza del bambino reale e intero. Paure che emergono come la punta di un iceberg e che lasciano immaginare una zona d’ombra, di impotenza non espressa e di rabbia, assai estesa.

Nell’interazione con madre/padre la bambina ha dimostrato/dimostra:

  • Accettazione:  per  ciò  che  riguarda  cura  personale  (mettere/togliere il  pannolone, essere pettinata, imboccata…), richiesta di manifestazioni intellettive (è significativa una frase che la madre ha detto dopo averle corretto un’espressione italiana sbagliata: “Se no che figura ci fai?!”) e spostamenti passivi. Riguardo quest’ultimo aspetto tuttavia, la madre una volta ha riferito una frase che la bambina spesso le dice (“Tu non hai rispetto quando mi muovi, mi sposti male”) confessando di spostarla a scatti quando è da sola ad accudirla, a causa del peso ormai elevato della figlia.
  • Rifiuto: della presenza genitoriale, a volte intrusiva, durante la terapia. Spesso inoltre la bambina ha verbalizzato di non voler stare più in “questa famiglia”, di voler andare a vivere da sola per allontanarsi da loro che “sono tutti matti”. Ci sono state occasioni in cui Maria, in seguito a “scher-zi” verbali e fisici dei genitori, ha opposto un rifiuto verbale attraverso minacce che non poteva mantenere (“Ti prendo il dito e te lo spezzo in tanti pezzettini” o “ti do un calcio”) e che sono state solo la base per un ulteriore scher-no.
  • Rabbia: per la durezza verbale con cui viene trattata in risposta a chiare provocazioni sul versante affettivo. A volte i genitori non riescono a “sintonizzarsi” 1 sullo stato emotivo di Maria e mettono tutto in tono sarcastico, favorendo l’esplosione della crisi di rabbia. Ma come possono due genitori stanchi come questi riconoscere che dietro le “scenate” della figlia si nascondono bisogni profondi di accettazione, cura, affetto?  A volte è chiaro che basterebbero solo un abbraccio e qualche parola di conforto…
  • Tranquillità: quando i genitori parlano bene di lei (ad esempio di successi scolastici) o si dimostrano positivamente preoccupati per ciò che riguarda l’assetto posturale o le condizioni fisiche post-operatorie.

Nell’interazione col terapista la bambina dimostra:

  • Accettazione e sicurezza: per tutto ciò che riguarda gli spostamenti fisici e le manipolazioni. Maria  inoltre  accetta  di  parlare  delle  sue  paure  ed  è  sicura  di  essere ascoltata e capita dal terapista.
  • Piacere: nel provare sensazioni propriocetive e cinestesiche date ad esempio dal girare come una trottola in braccio a lui.
  • Tranquillità e interesse: nel dialogo, soprattutto se riguarda la sua crescita, le sue condizioni cliniche e le esperienze di vita del terapista.
  • Fiducia: quando sente male alla gamba operata o ha paura di sentirlo. Le parole e la presa fisica rassicurante del terapista le infondono fiducia, alleviando la crisi di paura che comunque attraversa.
  • Allegria: ogni volta che dalla sala di attesa sente anche solo la voce del terapista o lo vede passare, esulta e aumenta il tono muscolare.

Nell’interazione con me la bambina ha dimostrato:

  • Accettazione e sicurezza: nell’essere spostata e manipolata. La bambina spesso ha chiesto che fossi io a mobilitare la gamba operata e mi ha incoraggiata a farlo.
  • Rifiuto: durante il gioco, ha rifiutato in modo verbale diretto di essere imitata e il ruolo di Corsaro Nero dalla rabbia (deciso da me per introdurre un elemento di diversificazione e di provocazione alla sua rabbia). Sempre attraverso le parole, ma in modo indiretto, ha rifiutato il mio stare nascosta prima di cominciare la battaglia e, durante i primi giochi, la mia morte.
  • Piacere: nel provare sensazioni cinestesiche (“Volo!”) date dalla mobilitazione veloce (quasi vibratoria) delle due braccia contemporaneamente.
  • Allegria: nel vedermi all’arrivo in sala d’attesa.
  • Interesse: verso quello che le ho raccontato.

Gioco

Geronimo Stilton

Figura 5.2 Geronimo Stilton

Durante il primo periodo di tirocinio, svoltosi a settembre 2005, Maria chiedeva sempre che le leggessi lo stesso libro1 mentre il terapista mobilizzava la gamba sinistra in preparazione all’intervento.  Questo  libro  narra  le  avventure  di  un  topo pauroso, Geronimo Stilton, e dei suoi amici (Fig. 5.2). Il fatto che venissero affrontate paure simili alle sue, ha permesso a Maria di sentirsi rassicurata rispetto a temi per lei scottanti, come la paura del dentista o del trapano o delle automobili.

Nel   tirocinio di quest’anno, tenuto conto dei bisogni della bambina e del rifiuto da parte della famiglia di intraprendere un percorso di psicoterapia (anche di gruppo) consigliato dal fisioterapista, abbiamo provato a inserire, all’interno di una seduta alla settimana, tempi dilatati di gioco, che hanno dato numerosi spunti di riflessione.

La parte iniziale della seduta era dedicata a manipolazioni e mobilitazioni necessarie, al dialogo con la bambina e, a volte, al tentativo di farle liberare la fantasia attraverso la narrazione di “sogni a occhi aperti”; la parte centrale era invece dedicata al gioco, a cui Maria dava il nome di “Spadate”; la parte finale, molto breve, prevedeva il ritorno alla realtà e la conclusione della seduta.

Le azioni di gioco sono state svolte all’interno di una cornice, grazie all’attribuzione di ruoli, al travestimento e all’utilizzo di materiale simbolico non strutturato (palline e palla grande come bombe, stampella e bastone come spade) e strutturato (attrezzi della valigetta del dottore). A volte è stato necessario uscire temporaneamente dalla situazione di gioco per rassicurare la bambina, che non riusciva a sopportare il tema della morte e richiedeva un risveglio che, coerentemente con le azioni svolte precedentemente e con l’assenza di magia o di medicine “del risveglio”, non poteva avvenire. Come è già stato detto, l’imitazione non è stata accettata da Maria.

Un gioco realistico

Per Maria la realtà è talmente evidente e pressante che non riesce a fare voli di fantasia tipici dei bambini: le storie che racconta  sono sempre realistiche (storia dei pesci) e quelle inscenate trattano di fatti personali (interventi chirurgici) o di cronaca (guerre) che probabilmente la colpiscono o la preoccupano.

Nelle sedute iniziali il terapista ha il ruolo di Bin Laden (nemico), Maria i ruoli di Caporal Maggiore Martino delle forze armate Italiane e chirurgo o aiutante del chirurgo ed io sono il tenente che aiuta il Caporal Maggiore ma anche l’aiutante del chirurgo o il chirurgo stesso. In seguito alle notizie televisive sulla situazione in Iraq e Afghanistan, i ruoli cambiano e Maria diventa il Capo delle truppe Italiane in Iraq o in Afghanistan, poi il chirurgo; il terapista assume i ruoli di tenente che aiuta il Capo, di aiutante del chirurgo e di prete che fa il funerale; io divento stabilmente il nemico (Capo degli Hezbollah).

I ruoli sono sempre stati attribuiti da Maria. L’unica volta che ho voluto diversificare il mio (presentandomi come Corsaro Nero) la bambina non ha accettato, continuando a chiamarmi Bin Laden o Capo degli Hezbollah.

L’inizio del gioco

Il nemico (Bin Laden o Capo degli Ezbollah) si nasconde e sta per un po’ in silenzio, poi annuncia il suo arrivo facendo rumori forti da una posizione nascosta o lanciando bombe (palline e palla grande) verso lo spazio occupato dal Caporal maggiore (o Capo delle truppe Italiane). Il tenente ha la funzione di fornire lo scudo al suo capo e di incitarlo al combattimento.

La presenza di un nemico che non si fa vedere e che non parla, ma agisce solamente con rumori e con lanci di bombe (palline), fa aumentare l’emozione della bambina che non riesce  a  sperimentare  il  controllo  della  situazione  né  attraverso  il  canale  visivo,  né attraverso quello verbale (nonostante lei continui a urlare “Chi sei?!”, il nemico non risponde con parole). Il nemico esce dal nascondiglio quando l’emozione è “al punto giusto”, né troppo elevata da sfociare in ansia, né troppo bassa da non generare piacere nella bambina. Quando il nemico si fa vedere, vi è un grido di inizio battaglia da parte di entrambi.

Figura 5.3 La battaglia con le spade

Figura 5.3 La battaglia con le spade

Dalla volontà di vendetta a quella di salvataggio

I due guerrieri iniziano a combattere (fig. 5.3) e spesso Maria fa emergere il tema della vendetta: il nemico avrebbe cioè ucciso precedentemente il padre del Caporal Maggiore e quest’ultimo vuole fare giustizia. I colpi di spada che Maria scocca (anche per colpire parti del corpo del nemico) sono deboli e imprecisi ma vengono enfatizzati da chi è nel ruolo di nemico; così quest’ultimo cade a terra ferito e poi muore, finito da altri colpi (al cuore) da parte del  Caporal Maggiore. A questo punto Maria (il Caporal Maggiore) ordina al tenente che il morto venga coperto con un lenzuolo, ma riesce ad accettare la situazione per poco tempo; infatti poi aggiunge “No, non è morto, guarda, respira, bisogna operarlo subito, dobbiamo salvarlo!”.

Una riedizione degli interventi subiti

Il Caporal Maggiore diventa anche chirurgo e il tenente l’infermiere che lo assiste. Il nemico viene operato d’urgenza e i passaggi dell’operazione sono tutti esplicitati da Maria: controllo dei riflessi, della dilatazione pupillare, del respiro, del battito cardiaco e della temperatura; iniezione dell’anestetico, intubazione con “mascherina per l’ossigeno”, intervento chirurgico generalmente a gambe, mani e cuore (a volte trapianto) e sutura.

L’operazione ricalca l’esperienza di Maria, tanto che gli organi danneggiati sono gli arti, soprattutto quelli inferiori, e il cuore (che nell’immaginario è la sede dei sentimenti e il cui funzionamento effettivamente segna il confine tra morte e vita). Sembra perciò che la bambina, nei panni di chirurgo, operi sé stessa e cerchi di porre un controllo su ciò che nella realtà è motivo di impotenza e affidamento totale alle mani di qualcun altro.

Tutto si risolve, l’operazione è riuscita

Questo  è  un  finale  richiesto  durante  il  primo  periodo  di  tirocinio.  Il  paziente  si risveglia, ma a causa del dolore viene messo in “coma farmacologico”; seguono poi un ulteriore risveglio, la guarigione, i ringraziamenti al chirurgo e il pentimento del nemico per aver ucciso il padre del Caporal Maggiore, nonché chirurgo che gli ha salvato la vita.

Evidentemente Maria si sente “salvata” dal chirurgo che l’ha operata più volte togliendole il dolore (spesso nel gioco il chirurgo si chiama come quello che l’ha operata).

Il lieto fine non basta più: prima dichiarazione di impotenza

Il chirurgo e l’assistente riescono a salvare il nemico, ma al momento del risveglio, il chirurgo lo uccide definitivamente e poi uccide sé stesso e risuscita.

Cosa può significare? Per quale motivo il nemico-paziente non si salva? Si potrebbe pensare che Maria, proponendo altri spunti di gioco, tenti di prolungare il tempo della seduta ormai agli sgoccioli. In parte probabilmente è così, ma vorrei azzardare un’altra ipotesi. Uno dei problemi di fondo in Maria è che nemmeno il più bravo chirurgo potrà farla guarire veramente, cioè darle il potere dell’azione (in particolare del movimento, del fare) che la patologia neuromotoria le ha negato. Sembra che Maria lo dichiari apertamente uccidendo in modo definitivo il paziente appena operato e salvato. E un ulteriore passaggio è l’uccisione di sé, improvvisa e inaspettata da me e dal terapista. Se il paziente operato è in realtà un rappresentante di sé, una volta che questi muore, anche lei deve morire. Così dichiara l’impotenza che si cela dietro il suo controllo verbale, visivo e intellettivo. Il fatto che risusciti lo leggo come segno di un ritorno finale al controllo.

Dentro l’impotenza: dichiarazione della paura

Il  chirurgo  e  l’assistente  non  riescono  a  salvare  il  paziente,  nonostante  l’utilizzo reiterato del defibrillatore, così il nemico (diventato però l’oggetto del salvataggio) muore, con cordoglio di tutti, e viene chiamato un prete per fare il funerale.

Ancora la morte, questa volta accettata fino alla fine del gioco, senza nessuno che resuscita. Maria sembra essere entrata nella sua impotenza, luogo di verità, dal quale inizia a emergere tutta la paura che porta dentro: paura che ai numerosi interventi chirurgici segua la frase “non c’è più nulla da fare” (come dice il chirurgo dopo i numerosi tentativi di rianimazione falliti), ma più profondamente paura - ancora  però esorcizzata - di essere lasciata sola con la sua impotenza (al funerale tutti esprimono cordoglio per la morte del paziente).

Progetto terapeutico

I bisognio principali attorno ai quali ruota la terapia, dal punto di vista genitoriale, sembrerebbero  essere  la  riabilitazione  della  gamba  operata  e  il  mantenimento  della mobilità articolare e della postura. Sono bisogni motori insindacabili, necessari, e questo non è e non deve essere negato dai terapisti. Ma il salto di qualità che ogni terapista sarebbe chiamato a fare in ambito neuro-psicomotorio, deriva dall’accorgersi che i bisogni del bambino che si ha di fronte sono anche altri e che spesso sono proprio questi ad essere negati dalla famiglia. Il bambino che si ha di fronte è un essere complesso, intero, unico.

Nel caso di Maria si assiste a meccanismi familiari della serie “O tutto io o tutto tu” con rabbia che cresce da entrambe le parti e incapacità di ascoltarsi vicendevolmente, di lasciarsi lo spazio per comunicare ed esprimere desideri, sentimenti, paure, preoccupazioni.

Come per il caso precedente, riporterò i bisogni, gli obiettivi e le strategie nella tabella che segue, per poi ampliare ciò che va spiegato meglio.

Il tempo previsto per tale progetto terapeutico è 1 anno, con verifica finale e decisione di proseguire o meno. Si dispone di 2 ore settimanali di terapia.

  BISOGNI OBIETTIVI STRATEGIE
MOTORI Igiene della postura e del movimento.

** Mantenere una discreta mobilità articolare per prevenire le retrazioni muscolari.

** Curare le retrazioni muscolari.

* Mobilizzazioni passive.

* Utilizzo di sistemi di postura adeguati per agevolare il movimento degli arti superiori.

* Interventi chirurgici.

SENSOPERCETTIVI Sperimentare il corpo come fonte di piacere. Sperimentare il corpo come fonte di piacere.

* Farle sperimentare passivamente esperienze cinestesiche e propriocettive (giocare con la velocità o con la leggerezza®terapia in acqua).

RELAZIONALI

Essere capita nei bisogni più profondi dai suoi familiari.

Rapporto “alla pari” con i coetanei, non di leadership conseguente al senso di inferiorità derivato dalle loro prese in giro.

** Diminuzione delle battute sarcastiche e annichilenti da parte dei genitori.

** Imparare a litigare e ad arrabbiarsi coi coetanei.

** Imparare ad accettare le loro proposte.

* Psicoterapia di coppia e, in futuro, per la bambina.

* Gruppi di mutuo aiuto per i genitori*

* Per ottenere questi obiettivi è necessario che Maria verbalizzi la sua rabbia verso la sua condizione (vedi bisogni emotivi).

EMOTIVI

Gridare la rabbia che porta dentro per essere diversa, presa in giro, non accettata, forse anche oggetto di compassione.

Piangere.

Sentirsi capace di fare quello che può fare senza usare la maschera dell’onnipotenza (controllo verbale soprattutto) o accettare di subire.

Nel gioco:

  • ** aumento del tempo di accettazione della morte, del “non poter più fare nulla”.*
  • ** arrabbiarsi con chi la imita.
  • ** accettare l’imitazione.

Nella realtà:

  • Usare il linguaggio per verbalizzare il proprio dolore, e la rabbia, senza false accettazioni o false battute auto-ironiche.
  • Pianto in affidamento.
  • ** Diminuzione della delega delle azioni all’adulto (impotenza). ·
  • ** Diminuzione del controllo verbale e mentale su tutto (“onnipotenza”) .

* Il terapista dovrebbe rimanere nel ruolo di totale impotenza.***

* Il terapista potrebbe combattere seduto su una palla con una stampella legata al braccio. ****

* Gruppi di mutuo aiuto composti da bambini con lo stesso problema.

* Utilizzo di ausili che le permettano autonomia.*****

* Inizialmente il terapista dovrebbe giocare sul “non sapere”, stando comunque attento a mettere a disposizione della bambina gli strumenti per agire autonomamente.

* Dovrebbe poi inserire delle variazioni sul tema, sui ruoli, sui tempi, sul ritmo dell’azione per aprire una strada di contrattazione.

* Gruppi di mutuo aiuto per i genitori

Sarebbe necessario che i genitori avessero uno spazio per sfogare le preoccupazioni e la stanchezza. L’ideale sarebbe che potessero usufruire di un supporto psicologico, ma questo è da loro rifiutato. Si potrebbe allora pensare di organizzare incontri di gruppo, tenuti da un terapista e magari dal neuropsichiatra, per i genitori dei bambini dello stesso servizio, in modo che possa esserci confronto e mutuo supporto tra persone che vivono lo stesso problema. I bambini durante gli incontri dei genitori potrebbero rimanere in un'altra stanza, con educatori o terapisti, a fare attività di gioco assieme.

** Aumento del tempo di accettazione della morte, del “non poter più fare nulla”

Solo  se  continua  a  giocare  l’impotenza,  possono  emergere  la  rabbia  e  le  paure all’interno del gioco. Accettare che la morte abbia l’ultima parola, può essere un passaggio verso l’ammissione della propria solitudine, della propria sofferenza e forse solo da qui può cominciare a sentirsi capace di fare quello che può fare.

*** Il terapista dovrebbe rimanere nel ruolo di totale impotenza

Se ci fosse solo il terapista a giocare con la bambina, potrebbe portare la battaglia a livello fisico e cogliere l’occasione per spostarla dalla carrozzina e posizionarla seduta a terra (posizione sostenuta autonomamente dalla bambina). La battaglia potrebbe continuare a terra (una specie di lotta) e il nemico cadere morto supino vicino alla bambina (precedentemente si sarà provveduto a mettere a disposizione gli strumenti da chirurgo e il defibrillatore e durante la battaglia si sarà provveduto a far “cadere” la spada dal braccio della bambina). Così Maria sarebbe sola di fronte alla morte e all’immobilità e dovrebbe cercare una soluzione: operare? Parlare al defunto? Manifestare la paura di esser rimasta sola? Il terapista non dovrebbe risuscitare se la bambina non inserisce elementi magici o soprannaturali.

Se a giocare ci fosse anche un tirocinante, colui che fa la parte di aiutante di Maria dovrebbe cercare di rimanere di sostegno alla bambina, senza agire in prima persona e cercando invece di dare a lei lo spazio per un’azione autonoma. Anche l’aiutante dovrebbe sentirsi impotente di fronte alla morte se la bambina non propone alcuna guarigione del ferito, e trovare una scusa per lasciare da sola la bambina con il “morto”, per vedere in che modo reagisca (questi passaggi sono stati eseguiti durante il gioco in co-conduzione col terapista, ma il tempo di tirocinio è finito proprio quando iniziava ad esserci la svolta dell’accettazione dell’impotenza, del finale “triste”).

**** Il terapista potrebbe combattere seduto su una palla con una stampella legata al braccio

Il nemico potrebbe giungere a cavallo di una palla grossa e combattere in tal modo, seduto così come lo è la bambina; potrebbe anche lui legarsi una stampella al braccio sinistro e ripetere tutti i gesti e le parole che Maria dice. Sicuramente Maria aumenterebbe la tensione e forse si opporrebbe, ma ritengo sia un passaggio necessario, per permettere alla bambina di “vedersi” ed esprimere la rabbia che prova. L’accettazione è un passaggio successivo, e può manifestarsi con un abbassamento di tono o con la diversificazione dell’azione.

***** Utilizzo di ausili che le permettano autonomia

Si ritiene che per questo specifico caso gli ausili possano essere addirittura controproducenti  se  non  vengono  prima  soddisfatti  i  bisogni  emotivi  della  bambina (entrare nel proprio dolore e manifestarlo). Tuttavia, lavorando contemporaneamente su entrambi i fronti, gli ausili potranno favorire la creazione di un ruolo all’interno della famiglia e nella società.

Tenendo presente che gli obiettivi motori e sensopercettivi rimarranno tali per tutta la vita di Maria (in quanto la bambina è già grande), dividerò secondo una scansione temporale solamente gli obiettivi emotivo-relazionali:

Obiettivi a breve termine (3-6 mesi)

  • Arrabbiarsi con chi la imita (nel gioco in terapia).
  • Imparare a litigare e ad arrabbiarsi con i coetanei che la prendono in giro.

Obiettivi a medio termine (6-8 mesi)

  • Dilatazione dei tempi di accettazione della propria incapacità (rimanere di fronte al personaggio morto senza avere soluzioni: quando ho smesso il tirocinio questo elemento iniziava ad emergere).
  • Accettare l’imitazione.
  • Diminuzione del controllo verbale e mentale su tutto (“onnipotenza”).

Obiettivi a lungo termine (1-2 anni)

  • Usare il linguaggio per verbalizzare il proprio dolore e la rabbia, senza false accettazioni o false battute auto-ironiche.
  • Pianto in affidamento.
  • Diminuzione della delega delle azioni all’adulto in vista di un’autonomia possibile (utilizzo di ausili per l’autonomia).

Considerazioni

Ciò che si tenta di fare in terapia è di accogliere il bambino nella sua interezza, di vedere anche i bisogni meno immediati cercando di rispondervi. Maria sembra utilizzare una maschera di controllo, bravura, leaderschip che nasconde un’area estesa di difficoltà nell’accettazione di sé, amplificata dall’età ormai prossima alla pre-adolescenza.

Il fatto che i genitori non accettino un consulto psicologico per la figlia o la partecipazione a gruppi di bambini con lo stesso problema, è un ostacolo per la crescita emotivo-relazionale di Maria, per l’acquisizione di una vera autonomia e della capacità di relazionarsi ai pari in una situazione di reciprocità. Se la rabbia di Maria non trova lo spazio per essere condivisa e accettata, la bambina farà sempre più fatica ad accettare i propri limiti, sentirà maggiormente di essere “diversa” e continuerà a reagire da una parte comandando e controllando verbalmente gli altri (onnipotenza), dall’altra sentendo come sempre più pesanti la sua impossibilità all’azione e la dipendenza (impotenza).

Ritengo tuttavia che le sedute di terapia e il rapporto col terapista abbiano aiutato molto la bambina, proprio perché l’impostazione terapeutica tiene conto della bambina “intera”. La possibilità di sperimentare sedute quasi interamente di gioco, durante il tirocinio, ha inoltre permesso alla bambina di far emergere temi importanti quali la malattia, la guarigione, la morte, fantasmi con cui è nata e cresciuta.

 


  • 1 Cfr. Marcelli, Psicopatologia del bambino, pp. 421-423.


  • 1 Cfr: p.13
  • 2 Cfr: pp. 15-16
  • 3 Cfr: pp. 20-22
  • 4 Cfr: pp. 18-20

  • 1 Cfr: pp. 23-27
  • 2 Cfr: paragrafo 1 del Primo Capitolo, par. 6 del Secondo capitolo, par. 2 del Terzo capitolo.
  • 3 Siegel, la mente relazionale, pp. 184-186.
  • 4 Cfr. Marcelli, Psicopatologia del bambino, cap. 20.

  • 1 Cfr. Siegel, La mente relazionale, pp. 89, 191 e 192.

  • 1 I nomi dei due terapisti che hanno avuto in carico Luca, Gabriela la prima e Claudio il secondo (e attuale), sono omessi nel testo con lo scopo di evidenziarne la posizione terapeutica. Il bambino infatti instaura una relazione e un legame affettivo non con “Gabriela” e “Claudio”, ma con Gabriela e Claudio nella posizione terapeutica che occupano. Inoltre il fatto che il cambio di terapista preveda un passaggio dal “femminile” al “maschile”, è importante per la differenziazione che i temi di gioco subiscono (temi prevalentemente di accoglimento prima, temi più sul versante sensomotorio e poi simbolico e aggressivo dopo)

  • 1 Il nome della terapista precedente.
  • 2 Cfr: p. 22
  • 3 Il nome dell’attuale terapista.

  • 1 Lo strumento di osservazione utilizzato è tratto da “il contratto terapeutico in terapia psicomotoria” di Berti e coll.

  • 1 Fedrizzi E., I disordini dello sviluppo motorio, p. 191.
  • 2 I quadri di PCI possono essere raggruppati in tre gruppi secondo Hagberg: 1) Forme spastiche, che comprendono emiplegia, diplegia e tetraplegia; 2) Forme atassiche,  che comprendono diplegia atassica e atassia congenita; 3) Forme discinetiche, che comprendono coreoatetosi e forma distonica. Cfr: Fedrizzi, I disordini dello sviluppo motorio, p. 192.

  • 1 Da appunti di Lezione: Riabilitazione Neuromotoria 1, Dott.sa Luisa Canella
  • 2 Cfr: Ammaniti M. Manuale di psicopatologia dell’infanzia, cap. IV.

  • 1 Si tratta del modello sociologico di Farber. Da appunti di lezione: Pedagogia dello svantaggio sociale, Dott. Manzato
  • 2 Si tratta del modello dello stress, da appunti di lezione: Pedagogia dello svantaggio sociale, Dott. Manzato
  • 3 Da appunti di lezione: Riabilitazione strumentale e motoria, Dott.sa Xillo

  • 1 Cfr: Carla Marzani, Psicopatologia e clinica dei disturbi mentali, cap.11 di “Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile” di Adriano Ferrari e Giovanni Cioni.
  • 2 Cfr: Terzo capitolo.

  • 1 Cfr: Primo capitolo

  • 1 Cfr: pag. 24-25
  • 2 Cfr: La nascita del desiderio pp. 25-27.

  • 1 Cfr: Nuove acquisizioni motorie: un nuovo potere pp. 27-28.
  • 2 Cfr: pp. 27-28.
  • 3 Cfr Sandra Maestro, Osservazione relazionale, cap. 12 di “Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile” di Adriano Ferrari e Giovanni Cioni.

  • 1 Cfr Marcello Tomassetti, Se mi chiedesse la luna…gliela darei, da L’altra crescita di Matilde Panier Bagat e Salvatore Sasso
  • 2 Cfr: pp. 37- 38.
  • 3 Riflesso Tonico Asimmetrico del Collo

  • 1 Cfr: p. 17.

  • 1 Geronimo Stilton, Il segreto del coraggio.

 

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